Archivio di gennaio 1992

Psicoanalisi contro n. 77 – L’uomo della strada

mercoledì, 1 gennaio 1992

Gli esseri umani da sempre hanno meditato su loro stessi e sulla loro natura e si sono chiesti: «L’uomo, fondamentalmente, è buono o cattivo? L’essenza si esprime attraverso la negatività o la positività?» Debbo riconoscere che già il concetto di essenza è estremamente compromesso; non solo per il suo richiamo esplicito ad Aristotele «to ti en einai», lo stra-abusato «quod quid erat esse». Un substrato che persiste ed anche insiste a fondamento di tutto ciò che esiste. L’essenza è un concetto che si rifà ad un principio tirannico, però l’inconscio sociale della nostra cultura lo ha da secoli assimilato: l’essenza costituisce la nostra essenza; la nostra esistenza si struttura attraverso il concetto di essenza. Sembrerebbe questa un’affermazione solo teorica, un poco astrusa;
ma invece è stata ed è alla base del modo di pensare tanto del parroco di campagna, della donnetta o del contadino, quanto di quello del letterato, dello scienziato o del filosofo. La cultura occidentale ha acquisito i concetti di essenza dell’essenza, di sostanza della sostanza, espressi attraverso una continua tautologia: l’essere è l’essere.
L’essere non è il non essere. L’essere è ciò che è e si contrappone a ciò che è diverso. Frasi apparentemente solo «filosofiche», costitutive però di un pensiero. È difficile distinguere ciò che è costituito da ciò che costituisce.
L’essere non è altro che la consapevolezza dell’essere, o meglio: la consapevolezza della consapevolezza. Molti, anzi, moltissimi anni fa, in Piemonte, mi trovavo spesso in un campo verde ed azzurro, come sono in autunno i prati del Canavese, a parlare con un contadino. Era molto anziano, aveva pantaloni senza età, grandi scarpe di cuoio rinsecchito e una camicia tutta incrostata di pizzi, bianca, linda e profumata: era la camicia del costume canavesano, gli veniva da suo padre, che l’aveva avuta da suo nonno; facendo i calcoli all’indietro si poteva arrivare alla prima metà dell’Ottocento. A lui piaceva parlare e a me ascoltarlo. Mi domandava perché l’albero fosse un albero e le mucche fossero mucche, lo erano perché li chiamavamo così o abbiamo chiamato così quelle cose perché erano ciò che erano? Mi faceva discorsi che mi ricordavano Spinoza. L’essenza è una sola e tutto è una sua manifestazione in forme diverse? lo pensavo ai «modi» dell’essere, ai discorsi filosofici sulla sostanza, che in lui parevano discorsi naturali, imparati al catechismo in età infantile, rafforzati dalla vita, o addirittura pensavo a una sorta di sapere congenito, trasmesso geneticamente. Sapere cosa sia la sostanza non significa necessariamente che la stessa sostanza esista; ma neppure si può ridurre la sostanza a conoscenza della sostanza; la sostanza deve essere e poi venire conosciuta. Sto ragionando ai limiti del ragionabile; forse dico solo sciocchezze. lo ho paura delle affermazioni e sempre mi difendo dicendo anche il contrario. Non so se per onestà o per vigliaccheria.

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Da sempre si discute intorno al problema della fondamentale bontà o malvagità della natura umana. L’altruismo o l’egoismo. Molti moralisti e psicologi, nei tempi andati, ma anche oggi, sostengono che l’odio, il desiderio di sopraffazione e distruzione dell’altro stiano a fondamento dell’uomo. Qualcuno a queste pulsioni distruttive ha voluto dare un fondamento parzialmente o totalmente metafisico, affermando che senza l’aggressività e la lotta non esisterebbe l’uomo, perché non potrebbe sopravvivere in un mondo così violento e difficile. La società stessa sarebbe strutturata dall’aggressività: i privati vizi si trasformano in pubblici benefizio L’egoismo e il desiderio di potere, di appropriazione e di espropriazione anche della vita stessa aguzzano l’ingegno, rendono possibili mille espedienti che si trasformano in sistemi di organizzazione. L’uomo, per sopraffare il proprio simile costruisce mille astute trappole. Si rende però conto che la sola distruzione significherebbe anche la distruzione per sé; ecco che allora ha escogitato leggi che disciplinino i suoi comportamenti; delegando a determinati organismi il compito di farle rispettare e di esserne garanti. Così quindi si viene a costruire una società «civile», basata non sull’amore reciproco, ma sull’odio e sull’egoismo di tutti. Il singolo individuo però, arriva a comprendere lentamente che, per stare bene, deve far stare bene un poco anche gli altri, a rischio, in caso contrario, di trovarsi a vivere in un deserto. Poiché perseguo l’obiettivo del mio massimo benessere, permetto anche agli altri di cercare il proprio e di goderne, perché in ciò sta la possibilità della mia felicità personale. Quindi gli esseri umani si strutturano e si costituiscono attraverso l’odio. Altri ipotizzano un’alternanza di odio e di amore, che si congiungono e si dividono in continuazione. Costoro pongono la lotta tra i due elementi come fondamento primo. L’amore, per vincere, deve combattere l’odio, odiandolo; questa però è una contraddizione. Se pure le contraddizioni sono ineliminabili pur tuttavia è avventato porle a fondamento del mondo. C’è chi ha tentato di togliersi d’impaccio facendo riferimento ad un avvicendamento temporaneo delle due pulsioni: due principi, due divinità, che si avvicendano nel garantire un progetto comune. L’oscurità del progetto sta nell’accettazione che sia governato da due principi opposti tra loro. Anch’io non riesco a trattenermi dal formulare la mia ipotesi. lo penso che ciò che condiziona di più l’uomo sia la vigliaccheria, che è forse la caratteristica più negata. Intimamente ciascun uomo sceglie il suo modello, però per paura esita a schierarsi e a rivelarsi. Così sceglie qualunquisticamente di ondeggiare tra le due pulsioni di amore e di odio e tra tutte le successive alternative, senza decidere. Il cosiddetto «uomo della strada» è il vigliacco per antonomasia.

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Ho usato volutamente l’espressione «uomo della strada» per poterla condannare: è una delle espressioni più imbecilli che i presunti intellettuali potessero formulare, vigliaccamente, per definire quelli che sentono come diversi da loro stessi. Giornalisti, filosofi, moralisti, ben pensanti se ne servono per designare una massa che considerano poco meno che carne da macello, cui non viene attribuita una vera capacità di pensare, gente che segue l’andazzo senza sapere perché e che viene immaginata vivere in strada, dove l’ipotetico ricercatore la incontra per sottoporla ai suoi questionari. Procedimenti statistici inattendibili traducono poi gli elementi raccolti in modo acritico e fastidioso in dati ai quali si darà valore di certezze assolute. I dati statistici non possono essere raccolti da giovinetti impreparati e motivati a guadagnare il massimo nel minor tempo possibile e soprattutto non dovrebbero essere ricostruiti in base a risposte fornite da presunti uomini della strada. Il Papa, il Presidente, Il Ministro, il Caldarrostai o possono essere ugualmente sciocchi:
la stupidità prospera nelle università come nelle fabbriche e nei campi; non è mai stato vero che il potere stesse nelle mani dei migliori. Tutti siamo esposti al rischio di una banalità continua e pericolosa. Una società è tanto più banale quanto più si turba e si scandalizza per i presunti anticonformismi e si adagia nell’accettazione di un qualunquismo standardizzato e diffuso.

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Dopo questa, non inutile, digressione sui pericoli del conformismo di cui è portatore il concetto dominante di normalità riferito ad un ipotetico «uomo della strada», vorrei parlare di un ulteriore atteggiamento di fronte al problema di quale possa essere l’essenza della natura umana: quello che la riconosce nell’altruismo. Qui potremmo trovarci, e spesso ci troviamo, di fronte alla più desolante ingenuità: l’uomo nasce buono, il mondo lo costringe a diventare cattivo. Per questo i bambini sono buonissimi, ingenui e spontanei; quello che nell’infanzia sembrerebbe cattiveria, si dice, non è che un aspetto della spontaneità. Così si nega che il bambino desideri uccidere il fratellino che gli è appena nato, voglia far soffrire gli animali che tortura con giochi crudeli, insulti i compagni che per un handicap crede a lui inferiori: il balbuziente, lo zoppo, il troppo miope, lo straniero di un’altra razza. Si tace quando lo si vede disprezzare il più povero, umiliare il più debole, anche sessualmente. Ci si ostina a non trovare tutto ciò in contraddizione con una originaria bontà. Invece la natura umana si presenta nel bambino già corrotta, le difese del narcisismo e del sadomasochismo già sono scattate fin dal ventre materno e su di esse il futuro uomo incomincia a costruire il proprio essere. Sono queste due difese originarie: sadomasochismo e narcisismo schierate entrambe dalla parte del male. Esse costituiscono la coppia di forze primigenie che non ha nulla a che fare col manicheismo che divide il mondo tra le forze del bene e quelle del male; ma che in modo sghembo lo pone in balia di due opposte forze entrambe malvagie, che negano l’altro, oppure lo aggrediscono, che esaltano il sé o lo portano ad autodistruggersi. lo rifiuto però che qui sia il fondamento, voglio credere che vi sia qualcosa prima ancora; per sostenere questa mia convinzione debbo abbandonare la mia paura di scoprirmi e prendere posizione.
lo credo che se l’odio fosse il fondamento dell’essere umano, la vita non avrebbe neppure potuto incominciare ad essere. Dalla morte non è mai potuto nascere nulla. Non credo neppure all’alternanza di amore ed odio, poiché tale alternanza sarebbe successiva all’essere e soltanto come oscillazione non avrebbe potuto produrre vita, non potendosi applicare ad alcun essere. La vita desidera se stessa, prima di tutto, e per essere tale ha bisogno di amarsi. Amare se stessi in quanto vivi non è egoismo. L’amore per la propria vita significa innanzi tutto amore per la vita. La vita è così amata anche negli altri per’ quanto di essi io riconosco essere in me e anche per quanto di me riconosco in loro. La mia fantasia deve pensare gli altri come disponibili e capaci di amarmi, altrimenti non avrei il coraggio di avventurarmi nel gioco della vita. Amare tutto ciò che è costituisce la prima scelta; ma subito questo amore viene contraddetto, provocando in me le reazioni della difesa.

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Ma credo anche nel diavolo. Molto semplicisticamente, una volta, io affermavo che il paziente, per guarire, si deve innamorare del suo terapeuta e almeno in parte essere da lui riamato. Oggi considero ingenua questa mia affermazione: rimane vera nelle sue linee essenziali; però il rapporto psicoterapeutico è così complesso e articolato che l’intervento dell’analista può e deve avvalersi anche dell’effetto prodotto da sentimenti diversi, che talvolta possono addirittura essere di odio. Questo non significa necessariamente che odio e rifiuto tra paziente e terapeuta siano indispensabili. Semplicemente possono essere questi i sentimenti di cui servirsi, fino a che lo sviluppo positivo del lavoro analitico non permetterà ad entrambi di manifestare quell’amore senza il quale non c’è guarigione.
Certo, se l’avversione di uno o di entrambi non può essere superata il cammino deve essere interrotto; ma è importante in molti casi anche valutare i sentimenti negativi. Un problema analitico grave può crearsi se i sentimenti di insofferenza sbocciano contemporaneamente nei due soggetti della cura; ma anche in questo caso, se l’accortezza dell’analista, il suo amore per il proprio lavoro e l’odio per la malattia sono sufficientemente tenaci, allora è possibile che sappia operare interventi che avvicinino il paziente alla salute. Ho accennato all’amore per il proprio lavoro: un sentimento d’amore deve quindi in qualche modo muovere il terapeuta; ma ho anche parlato dell’odio per la malattia. Può dunque l’odio avere aspetti positivi? lo non penso si provino sentimenti di amore o di odio verso concetti astratti:l’amore per il proprio lavoro è amore per se stessi, per gli altri, per l’umanità. Così l’odio per la malattia è strettamente intriso di avversione per quei malati che ci hanno fatto soffrire, che ci hanno aggredito col loro rifiuto di guarire. L’importante nella miscela di amore ed odio è che il sentimento positivo sia più forte di quello negativo nella cura e che sia così intenso da vincere anche noi stessi e il nostro odio.

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Ho sempre considerato un grave errore far coincidere il cosiddetto «transfert» con l’innamoramento. Il transfert è un elemento che caratterizza qualunque rapporto e che viene solo enfatizzato nel rapporto psicoanalitico e consiste nel trasferire sulla persona con cui si è in relazione sentimenti che si sono provati per figure del passato più o meno recente o del presente. Ricordo uno psicologo che svolgeva, un po’ tronfio e un po’ disorientato, il suo lavoro in un ospedale psichiatrico di tanti anni orsono il quale, con molta soddisfazione, diceva di un ricoverato: «Mi ha dato il transfert». Volendo significare con questo che il suo paziente gli si era estremamente affezionato. Nel suo significato proprio il transfert invece può anche essere caratterizzato da sentimenti di odio, se il ruolo che viene attribuito al terapeuta è quello di una figura per qualche ragione detestata. È un problema che riguarda l’analisi la possibile gestione di questi sentimenti di rancore che salgono fino ad oscurare la mente del paziente; non basta cercare di fargli notare che la persona odiata ed il terapeuta sono due persone diverse, troppo spesso questo invito resta inefficace: la sola soluzione possibile è allora che lo psicoanalista si tolga di dosso i panni della figura rifiutata per assumerne altri. Ogni errore a questo punto sarebbe gravissimo. Bisogna avere una conoscenza sufficientemente profonda del paziente e riuscire a trovare quelle parole e quei gesti che siano capaci di sbloccare il meccanismo di odio su cui si era bloccato, suscitando nuovi interessi. Ugualmente non credo che quelle analisi che trascorrono tutte in un unico sospiro amoroso, senza contrasti, siano segno di una cura più efficace, anzi, sono convinto che nella maggior parte dei casi portino a guarigioni solo apparenti.
E importante che il paziente si scontri anche col terapeuta, scarichi l’odio che ha in sé; che affronti in analisi tutti i propri fantasmi, per quanto remoti, per quanto provenienti magari da meccanismi ereditari (ma questo della trasmissione genetica di alcuni contenuti non è un argomento che posso ora trattare qui).

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Il bisogno d’amore è originario, il sentimento amoroso costituisce ogni uomo. Eros fa muovere il mondo, egli è il creatore dell’universo. Proprio il carattere divino di Eros ci proibisce di parlarne con linguaggi convenzionali, in parte infatti è anche indicibile. Dire che basta l’amore può essere una banalità pronunciata per non pensare. Importante è compromettersi e non scegliere soluzioni che si possano facilmente tradurre in frasi fatte, troppo plausibili, che fermano all’inizio di quello che dovrebbe essere un lungo cammino di ricerca.
Si dice (ed anche a me pare che sia così) che la depressione sia causata da una smisurata richiesta d’amore. L’aggettivo «smisurata» è in parte illuminante, ma non riesce a dare l’idea del disorientamento che si può provare davanti ad alcune forme depressive. Non è raro vedere che persone intensamente amate dagli altri cadono in uno stato di rabbiosa cupezza. Chiedono ed ottengono sempre di più, eppure non vedono placare in sé la disperazione per quanto amore ricevano. Anzi si sveglia in loro un odio così violento e distruttivo che spesso fa paura ed orrore. Indubbiamente si vede che soffrono, ma usano la loro sofferenza per colpevolizzare tutto e tutti. Per essere credibile questa colpevolizzazione universale si traveste spesso da sentimento di colpa personale. I Dopo aver chiesto ed ottenuto sempre più, I mettono gli altri alla prova. Pretendono in modo evidente di non essere più amati. Non mi è chiaro che cosa determini all’origine un tale disastro psichico e filosofico.

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Tempo fa venne da me una signora non più giovane, distrutta dalla depressione; si era cosparsa di profumo per coprire il cattivo odore che sapeva di emanare. Era stata una bella donna, ora non desiderava più niente: i figli grandi non avevano più bisogno di lei; ora che lei e il marito avrebbero potuto vivere una vita comoda e tranquilla, permettendosi quei lussi di una maturità opulenta, lui era stanco e lei si sentiva disperata. Non aveva più voglia di occuparsi della casa, prendeva medicine che la rendevano torpida e sonnolenta tutto il giorno, senza vincere l’ansia che la divorava; aveva anche smesso di curare il proprio corpo, non si lavava neppure più.
I figli, compreso quello che viveva lontano, la circondavano di mille premure, il marito era totalmente e devotamente a sua disposizione in ogni momento e per ogni cosa: «Ma io li odio tutti e vorrei distruggerli, insieme con me stessa. Sento un odio così violento dentro di me che mi spacca in due». Era evidente la sua sofferenza, ma non meno evidente era la sua perfida volontà di far male agli altri. Quando i figli mi telefonarono percepii nelle loro voci esasperazione e una rabbia profonda per quello che era diventata la loro madre. Volevano che io me ne facessi carico, erano stanchi di subire i suoi insulti e le sue violenze. Il marito mi si presentò un giorno: un uomo dolce e intelligente, ancora sinceramente innamorato. A me sembrava inverosimile che persistesse amore in lui e cercai di capire in che modo volesse ingannarmi; non potevo credere che qualcuno amasse quell’essere così irritante e laido.
Comprensibilmente ora all’amore si univano sentimenti di fastidio, insofferenza, ma erano secondari. Mi disse che per stanchezza pensava qualche volta di andarsene. Passò qualche tempo senza che la rivedessi. Un giorno ricapitò all’improvviso nel mio studio:
sorridente, elegante, bella e profumata, pareva avere quindici anni di meno. Serena e pacata mi disse: «Ora sto bene: mio marito se ne è andato; i miei figli hanno smesso di farsi vedere. Mi sono sentita rinascere, è stata una liberazione, finalmente potermene stare sola. Il loro amore mi opprimeva». Rimasi sbalordito, ma anche pensieroso. La signora mi chiedeva ora un’analisi e mi disse che la soluzione le era forse venuta da una frase da me detta a suo tempo al marito: «Fate scambi usando monete diverse: lei dà amore in cambio di odio; dovrebbe provare ad odiare, ma non ci riuscirà.» Quell’uomo probabilmente non ci era riuscito ed ora in qualche parte del mondo continuava ad amare quella donna narcisista e sadomasochista, pazza, quindi. Andarsene era stato il suo modo di fingere l’odio.
La donna si era liberata di un amore che non riusciva a reggere perché non lo contraccambiava e questo le aumentava il rimorso. O invece il suo bisogno d’amore era superiore a qualunque possibilità di soddisfazione, per ragioni ereditarie o per condizionamenti dell’inconscio sociale? Libera dall’amore vivrà solo nell’odio? È preda definitiva del proprio narcisismo e del proprio sadomasochismo oppure ha avuto soddisfazione vedendosi amata al di là di quanto è umanamente auspicabile? Sta di fatto che non ha più nessuno su cui vendicarsi, nessuno da far soffrire. Non ha risolto di certo i suoi problemi, tanto è vero che mi ha chiesto un’analisi. Forse qualcosa riuscirò a scoprire nel lavoro che ci aspetta; sono però sicuro che il mio dovere è di dare il mio contributo perché gli esseri umani riacquistino la loro capacità di amare e di farsi amare. L’odio è distruttivo anche perché è tanto intrecciato con l’amore.

Psicoanalisi contro n. 79 – Storia e preistoria

mercoledì, 1 gennaio 1992

Il rapporto con i bambini, per gli adulti, è ad un tempo molto facile e difficilissimo. Facile perché ci si sente spontaneamente disponibili al rapporto con un essere umano che sta iniziando il suo cammino nella vita e che offre un’analoga disponibilità alla relazione, al reciproco rapporto di seduzione. Fin dal primo istante di vita, il feto e addirittura l’embrione, si pongono in relazione non solo con la madre, ma anche col mondo esterno, in modo intenso e dialettica. Non si tratta come si sarebbe propensi a credere di simbiosi, ma proprio di uno scambio tra il mondo che viene percepito e il pulsare vitale di un individuo che si costruisce nella ricerca del rapporto col fuori di sé. Ricordo un fatto che non penso sia attribuibile soltanto ad un mio meccanismo di proiezione. Attendevo in una clinica la nascita di mio nipote, fantasticando su quel personaggio che stava per venire a contatto col mondo e col quale io stesso avrei dovuto in qualche modo entrare in rapporto. Immaginavo di parlargli, mi figuravo di stargli vicino; mi prospettavo tanti scenari possibili. Quello che accadde fu semplicemente questo: quando entrò nella stanza un’infermiera col neonato in braccio io mi avvicinai, protendendo verso di lui un dito a sfiorarlo, la sua mano mi ghermì quel dito stringendolo molto forte. Uno scienziato spiegherebbe subito quel gesto come un riflesso involontario, compiuto nel tentativo di stringere ancora i pugni nella positura per lui abituale nel ventre materno. lo sono sicuro che questa spiegazione non è però sufficiente. Pur tenendo conto delle mie proiezioni e benché non ignori la presenza di quei riflessi, mi rifiuto di esaurire con queste spiegazioni il significato di quel gesto, nel quale sono certo di avere avvertito anche il desiderio di un rapporto. La voglia di percepire il mondo e di farsi percepire. Questa può sembrare una fantasia senza fondamento scientifico; ma perché le intuizioni dovrebbero necessariamente essere senza fondamento? Ho già altre volte espresso il mio rifiuto di una scienza fondata solo sulla registrazione dei fenomeni e sulla statistica numerica. Sebbene riconosca la difficoltà di distinguere le impressioni personali dalle intuizioni suscettibili di sviluppo su basi scientifiche, tuttavia sono convinto, anche in questo caso, di aver ritrovato l’ennesima conferma che l’essere umano nasce e si costruisce fin da subito nella relazione con l’altro da sé, senza la quale non può sussistere neppure per un istante.
La teoria del narcisismo originario è una fantasia ingenua, per quanto comprensibile, della vecchia psicoanalisi. Il narcisismo primario è teoricamente applicabile solo ad una concezione psicologica di stampo aristotelico che preveda la mente umana come una «tabula rasa» su cui sono destinate ad imprimersi le acquisizioni dei contenuti psichici successivi. Ciò deriva dal bisogno di prefigurarsi un inizio, dal quale far partire la vicenda individuale o universale. L’idea di una psiche già dotata al momento della sua nascita di un corredo di informazioni sembrava e sembra ancora a taluni troppo difficile da capire e quindi Inaccettabile.
Una mia amica, in vena di quei bamboleggiamenti pseudo ingenui, di cui troppo spesso molte donne si compiacciono sperando di piacere, mi raccontava della sua assoluta convinzione che le sarebbe bastato tappare per pochi istanti lo zampillo della sorgente da cui al Pian del Re nasce il fiume Po, perché di conseguenza lo stesso fiume restasse a Torino o nel Delta Padano senz’acqua. Dove nasce il Po, dove nascono i fiumi? Probabilmente nascono dalle nuvole, le quali sono frutto dell’evaporazione dell’acqua dei mari che sono alimentati dai fiumi; ma non è vero neppure questo: il mare preesisteva ai fiumi. Un giorno le terre furono divise dalle acque.

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Nel meccanismo istintuale dell’essere umano è presente il suo bisogno della relazione col mondo; sembra quindi ovvio dedurre che ogni individuo cerchi di entrare in apporto con l’esterno fin da subito. I rapporti intersoggettivi però, per quanto necessari e spontanei, sono anche irti di difficoltà. Le incomprensioni e i fraintendimenti nelle relazioni umane sono continui ed inevitabili. Il bambino presenta inoltre una caratteristica sua specifica di indecifrabilità: comunica con grande intensità, ma i suoi messaggi sono molto difficili da decifrare per chi li riceve. Nel corso della vita, gradualmente, le parole si sostituiscono poi ai gesti e la comunicazione verbale viene a prevalere su quella mimica anche più di quanto sarebbe necessario, portando nuova confusione là dove si era creduto di intervenire per chiarire. Le parole forse hanno preso troppo posto nella vita degli uomini: le convenzioni del linguaggio verbale hanno l’inconveniente di irrigidire e rattrappire la ricchezza della comunicazione, semplificandola in modo eccessivo, però permettono l’illusione di avere codici comuni che consentono l’accesso al pensiero dell’altro.
Un gruppo sociale , abbastanza omogeneo per quel che concerne l’uso di una sintassi linguistica, è in grado di operare fra i suoi componenti uno scambio fitto di opinioni e di giudizi e con buona probabilità questa comprensione è sufficientemente non equivoca. Le parole ordinate in una sintassi, una grammatica e una morfologia, circolano tra gli individui, sono diffuse dai mezzi di comunicazione di massa, diventano patrimonio culturale comune e soddisfanno anche alle esigenze di comunicazione più intime. Tutto questo è vero anche se soltanto un decimo approssimativamente di quello che viene inteso da chi riceve il messaggio è contenuto nell’intenzione di chi lo trasmette. A questo proposito posso riferire un’esperienza personale. lo parlo molto spesso in pubblico e scrivo ancor più spesso, per cui sono molti ad avermi ascoltato o ad aver letto qualche mio testo. Accade quindi abbastanza sovente che mi vengano riferite le impressioni che da questa frequentazione sono ricavate, anche di seconda o terza mano. Ebbene quasi mai ho la soddisfazione di ritrovarvi quello che io ho detto, o meglio: ho creduto di aver detto. Quasi sempre chi mi ha ascoltato o letto ha ricostruito dentro di sè quello che ha creduto essere il mio pensiero. Le ragioni sono molte: narcisismo, presunzione, pigrizia, mie ed altrui, addirittura il disinteresse per gli interlocutori potenziali. Questo malgrado il mio dichiarato proposito di parlare nel modo più chiaro possibile e nonostante a volte dica ciò che penso fin troppo chiaramente. Lo stesso problema mi pongo talvolta a proposito della musica che scrivo: quanto viene travisata, malgrado abbia scelto anche musicalmente di parlare chiaro al maggior numero possibile di persone. In realtà accade che io mi senta molto meno incompreso come musicista, forse perché il linguaggio musicale è meno vincolante di quello verbale.

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Il bambino quindi, pur nella semplicità dei suoi messaggi, è doppiamente frainteso: una volta per quella quota di fraintendimento implicita in ogni rapporto di comunicazione ed una seconda volta perché i suoi messaggi sono particolarmente difficili da capire per gli adulti. Non vengano le mamme, specialmente italiane, a ripetermi il loro solito slogan per cui l’amore materno supera ogni difficoltà e capisce fino in fondo anche quello che non viene detto. Non basta tutto l’amore delle madri e la loro disponibilità a capire davvero: nel mio mestiere di psicoanalista ho avuto modo di imbattermi con le conseguenze di troppi fraintendimenti delle buone mamme italiane e non solo. In parte, certo, per colpa delle madri, ma spesso anche perché i figli hanno voluto deliberatamente che non si capisse davvero tutto di loro.

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Gli adulti credono di migliorare il livello di comprensione coi bambini scimmiottando i loro moduli linguistici in modo ridicolo ed umiliante. Accade così di vedere omoni o donnone cinguettanti di fronte ad un pargolo, usando il birignao, sprecando diminutivi e vezzeggiativi, emettendo suoni onomatopeici: cip-cip, bao-bao, glu-glu e così via. Spesso i piccoli cadono vittime di questi bamboleggiamenti idioti e li fanno propri, magari perfidamente lieti di riscontrare negli adulti tanta stupidità; più spesso però compiacendosene in I modo acritico; non è infatti vero che il l mondo infantile sia meno inquinato di quello degli adulti. Fanno da contraltare ( a quelli che ho appena descritto alcuni é individui adulti i quali si credono in diritto di rivolgersi ai bambini proprio come si rivolgerebbero ad un professore universitario o ad un economista. Usano un linguaggio forbito e compassato, articolato in un periodare sintatticamente complesso; non indulgono a bamboleggiamenti di sorta. Spiegano sempre tutto in modo esauriente, secondo «verità» e «giustizia». Forniscono delucidazioni complete sulla sessualità come sul movimento degli astri.
I bambini rimangono in genere esterrefatti: sbarrano lo sguardo su questi loro interlocutori, di volta in volta annoiati o sopraffatti dall’ilarità, a seconda che si sentano più o meno lusingati dal sentirsi presi tanto sul serio. La giustificazione morale di chi si comporta in questo modo è che il bambino non è un essere inferiore, ma che ha il diritto di essere considerato un piccolo adulto al quale rivolgersi in modo paritario e al quale garantire totale diritto di espressione. lo sono pienamente d’accordo sul diritto paritario del bambino che non considero per nulla inferiore, però sono convinto che abbia anche il diritto ad un suo proprio specifico comportamento anche linguistico, così come l’hanno gli esseri umani in ogni diversa fase del loro sviluppo genetico e culturale. Anche questa sua specificità deve essere rispettata, sebbene mi renda conto che a sua volta non può sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente sociale in cui si sviluppa. È difficile districarsi; proprio per questo è facilissimo commettere errori ogni volta che si entra in un rapporto diretto od indiretto con l’altro, ed ancor più facile se l’altro è un bambino.

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Un giorno mi accadde di sentire una psicoterapeuta kleiniana raccontare, con grande senso dell’ironia, un episodio accadutole. Mentre nel suo studio professionale osservava un bambinetto che giocava con i trenini e pupazzetti lei lo osservava e parlava senza interruzione, cercando di interpretare correttamente ogni gesto del piccolo e di comunicargliene il significato: «Questo è il treno buono, che si scontra con quello cattivo. Tu vorresti distruggere tutto per esprimere la tua aggressività; forse per questo mi hai chiesto la scatola ( di fiammiferi…» La buona signora si sentiva tranquilla, forte della propria superiorità culturale e del proprio ruolo clinico; convinta dell’utilità di dire tutto quanto al bambino, che, anche se non avesse capito razionalmente, tuttavia, almeno subliminalmente, avrebbe forse percepito alcuni messaggi. Restò quindi stupita quando il bimbetto, interrompendo i suoi giochi e guardandola con benevola commiserazione le disse: «Devi stare attenta a parlare così davanti ai grandi, perché se ti sentono pensano che sei stupida.» Quel bambino aveva capito davvero molto più della terapeuta, oppure la sua era soltanto una difesa da quello che non voleva accettare?

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Sembrerebbe conseguente quindi auspicare che nel rapporto coi bambini si faccia ricorso ad un linguaggio verbale intermedio: allo stesso tempo abbastanza semplice, ma preciso, in grado di servire da stimolo, senza lederne la dignità. In realtà il concetto di «bambino» è un concetto astratto che dovrebbe designare l’essere umano nei suoi primi anni di vita, ma l’evoluzione ha una diversa velocità a seconda delle singole situazioni e i parametri di giudizio sono molto variabili; tutti elementi di cui ogni volta è indispensabile tener conto per impostare un rapporto corretto. Ci si trova sempre di fronte al bambino che noi stessi abbiamo costruito, con le caratteristiche che gli abbiamo voluto attribuire. Anche in questo campo, l’oggettività è impossibile: il bambino è anche la descrizione di un bambino operata da una determinata ottica culturale, in funzione di specifiche intenzioni pedagogiche. Ciò vale per qualunque ordine di concetti riferiti all’essere umano: ad esempio si diventa vecchi quando si corrisponde alla descrizione che il gruppo sociale di appartenenza fa della vecchiaia, secondo criteri di produttività, o di fecondità, o altri ancora. Pochi
sono coloro, vecchi o bambini che riescono a sottrarsi alla catalogazione che i gruppi sociali impongono ai loro membri, e per questi si potrebbero ipotizzare linee di sviluppo descrivibili in un altro modo.

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È possibile affrontare il disagio psichico di un bambino, anche molto piccolo, usando strumenti psicoanalitici?
La cura psicoanalitica presuppone tra i suoi elementi anche la presa di coscienza.
Come si può pretendere che questo avvenga da parte di qualcuno la cui coscienza è solo in via di formazione? Si potrebbe molto sbrigativamente replicare che la coscienza per l’essere umano coincide con la consapevolezza che egli ha di sé, quando cioé diventa autocosciente.
In genere si fa coincidere questo momento col passaggio dall’uso della terza persona singolare, riferito a se stesso, all’uso del pronome «io». A me non pare così sicuro che tale cambiamento coincida con la coscienza di sé. La riflessione su di sé e la percezione del sé può già essere molto intensa prima che intervenga un cambiamento che mi sembra più che altro legato alle convenzioni della parola.
Un po’ allo stesso modo si è deciso che l’essere umano non fosse consapevole di sé fino a quando non incominciò a raccontare la propria storia, percependo la come tempo passato, e si è denominato tutto il periodo antecedente come «preistoria». L’individuo e la specie, allo stesso modo, riescono a raccontare solo in parte il loro passato, dietro al quale si intravedono però le tracce di un’esperienza vissuta. A volte può soccorrere il racconto fatto da altri o l’osservazione per analogia di altri individui o popoli.

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Nell’inconscio si ritrovano tracce delle primissime esperienze di vita, addirittura ricordi, sensazioni, fantasie legate al periodo pre-natale, difficilmente isolabili, perché frammiste alle razionalizzazioni ipotizzate nel periodo successivo attraverso la narrazione verbale. Non è neppure facile sapere se quello che emerge nei sogni sia riferibile ad esperienze reali o frutto di fantasie, importanti pure queste per l’effetto che hanno sulla formazione dell’individuo. La psicologia e la psicodinamica concordano nell’affermare che nei sogni si esprimono tutte insieme, fantasie ed esperienze realmente vissute dei primi momenti di vita fin nel grembo materno.
Una mia paziente mi raccontava un sogno ricorrente: usciva da una caverna e si trovava in un lago, caratterizzato da due penisole, una alla sua destra e l’altra a sinistra, protese nell’acqua. Sembrava facile anche a lei dire che quell’immagine si riferiva all’uscita dal ventre della madre. Questa donna non aveva mai conosciuto la propria madre, che l’aveva abbandonata, lasciandola al padre pochissimo tempo dopo il parto. Non l’aveva mai più rivista e neppure aveva avuto contatti con la famiglia di lei. Stranamente non era riuscita neppure a rintracciare fotografie che la ritraessero, forse perché il padre le aveva distrutte. Il sogno continuava con lei che si sentiva prigioniera di tutta quell’acqua e veniva presa dall’ansia che la opprimeva fino ad un punto in cui il senso d’oppressione si scioglieva in una benefica sensazione di calore.
Durante il lavoro dell’analisi avvenne un fatto importante: il padre , ormai anziano, le volle parlare. Disse che non le aveva mai voluto dire della madre che era una pazza su cui pesava una diagnosi di schizofrenia. Durante la gravidanza le sue condizioni parevano aver registrato un notevole miglioramento: si erano attenuate le allucinazioni e le crisi deliranti.
Un giorno l’aveva trovata riversa nel letto: aveva partorito una bambina, senza alcuna assistenza. Il padre le aveva trovate entrambe immerse in un lago di sangue e la piccola stava lì inerte tra le gambe della madre da chissà quanto tempo. Aveva cercato soccorso ed era riuscito a salvarle entrambe. Era solo una coincidenza che quel sogno ritornante fosse così significativo?

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Alcuni studiosi hanno teorizzato che nei sogni siano talvolta rappresentate esperienze che non appartengono strettamente all’individuo, ma che sono del gruppo da cui egli ha origine: immagini ed esperienze vissute da lontani progenitori che si sono trasmesse attraverso un meccanismo filogenetico fino al presente. Senza dubbio non è facile distinguere la fantasia dalla realtà, sapere cosa attribuire con precisione al patrimonio genetico e cosa ad una forma incontrollata di pensiero che si coagula in immagini, ma forse non è neppure molto utile per i fini terapeutici che la psicoanalisi persegue. Quello che importa è ciò che si trova nell’inconscio:
quando una fantasia è così persistente e sedimentata agisce come se fosse il frutto di un’esperienza reale nella costruzione e formazione delle caratteristiche individuali. È quindi comunque importante capire come ha agito dentro ed intorno all’individuo; dal momento che l’inconscio non è interamente rinchiuso all’interno della persona, ma la avvolge e media il suo rapporto col mondo. Se non si capiscono anche i messaggi che sono giunti dall’ambiente circostante, non è possibile assolutamente che si capisca la storia individuale di chiunque. Nessuno è solo nel mondo: siamo frutto di quello che ci sta intorno e alle spalle, da cui siamo stati manipolati e che ci ha costituito: la mia storia è anche la storia di tutti gli altri. Il mio inconscio è formato anche dai contenuti dell’inconscio sociale del mio gruppo d’appartenenza.

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Per districarsi e non restare paralizzati, bisogna scegliere un’ipotesi di lavoro sulla base della quale operare. Per quanto la scelta di una metodologia sembri imbrigliare la libertà della ricerca. In realtà ogni scienziato cerca solo ciò che ha deciso di voler trovare, se così non fosse si perderebbe nell’equivalenza delle ipotesi, nell’indifferenza delle scelte. La scelta ovviamente non deve escludere la disponibilità a considerare le altre ipotesi, a considerare criticamente le proprie. Sono indispensabili griglie in cui collocare via via gli elementi che emergono, anche se così facendo si rischia di lasciare per strada spunti che avrebbero potuto portare ad interessanti conclusioni. Il caos è nemico della scienza. La psicoterapia deve essere fondata su saldi principi meta psicologici.
Tutto questo non va inteso come un invito al dogmatismo. Per quanto mi renda conto che il mio può sembrare solo buon senso spicciolo, io dico che bisogna essere cauti, coraggiosi e spudorati allo stesso tempo.

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Non ho risposto alla domanda prima formulata: si può intervenire psicoanaliticamente nella cura del disagio psichico infantile? Ho fatto notare come sia a questo proposito problematico il fatto che i bambini non posseggano pienamente il linguaggio parlato, ho anche prospettato l’ipotesi che per la formazione della coscienza non sia però indispensabile l’acquisizione di tale padronanza del linguaggio verbale. Ci sono le parole dette, ma anche le parole sentite. Non è d’altra parte giusto imporre al bambino fiumi di parole, che potrebbe anche non comprendere, solo perché pensiamo che qualcosa comunque potrebbe restare ed agire. Forse la soluzione è che i bambini possono essere osservati fin dalla prima infanzia e possono essere compresi applicando le categorie della psicoanalisi all’inconscio sociale da cui mutuano il proprio inconscio individuale. Nessun bambino è solo «quel bambino».

Psicoanalisi contro n. 81 – Telefoni azzurri

mercoledì, 1 gennaio 1992

In questo mondo l’equilibrio, psichico e fisico, è quanto mai instabile. E difficile capire e farsi capire.
La coscienza è una debole fiammella, continuamente traballante e tutt’attorno vi sono le tenebre dell’inconscio. Potremmo però anche provare a capovolgere l’immagine consueta ed affermare che la coscienza umana è costituita dalle tenebre; poiché la consapevolezza non è in realtà che «razionalizzazione», cioè stravolgimento delle reali motivazioni che sottostanno all’agire dell’uomo e solo nell’inconscio può in realtà esservi un po’ di luce.
Questo vale anche per la cosiddetta omeostasi. L’organismo umano è sempre in bilico e la disgregazione incomincia fin dai primi palpiti del feto. Tutti, e su questo «tutti» voglio attirare l’attenzione, siamo perennemente in procinto di annegare; per cui ci aggrappiamo a non importa cosa, con il rischio quindi anche di travolgere chi ci si fosse avvicinato per recarci soccorso.
Per un verso, io sono affascinato dalla natura e anche dagli esseri umani. I fiori, gli animali, gli uomini raccontano perennemente una bella favola, che è sempre interessante da ascoltare e da raccontare.
Per un altro verso, io ho però pochissima stima dei miei simili e quindi forse anche di me stesso, sebbene di quest’ultima cosa sia poco convinto.
Quasi tutti mi sembrano inconsapevoli ed inetti, vigliacchi e violenti, ottusi ed incapaci, ferocemente aggrappati al proprio egoismo. Io vorrei non essere così, ma non ne sono sicuro.

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Tutti siamo molto attaccati alla nostra parte di potere, nelle istituzioni, nei gruppi politici e religiosi, nella scuola e nella famiglia. Individui potenti sono esibiti sulle pagine dei rotocalchi e dei quotidiani, parlano attraverso i mezzi di comunicazione radio televisivi, presiedono assemblee che hanno peso decisionale sul resto della società.
Riescono persino ad avere la capacità di intervenire a favore di amici e clienti. Il peso del potere logora, ma anche la frustrazione di chi non ha poteri si rivela distruttiva. Chi ha tanto desiderato raggiungerlo senza esserci riuscito, si trova spesso a condurre una vita meschina e rabbiosa ed ugualmente tenta di opprimere chi percepisce come meno potente di lui. Forse nessun essere umano è completamente privo di qualche forma di potere. Ha un suo potere reale, psicologico ed economico, la madre di famiglia che castra il marito e i figli e gestisce il bilancio famigliare, impone i rituali della vita quotidiana fatti di orari e di abitudini. Ha un suo potere il portiere del caseggiato che misura la propria forza imponendo controlli e negando collaborazioni con arroganza e vigliaccheria, camuffando quelli che sono arbitrari gesti di violenza con l’attaccamento ai doveri di custode di una convivenza condominiale. Il giovane disoccupato straniero esercita il suo potere sul timido automobilista, aggredendolo al semaforo ed imponendogli il suo servizio di lava-vetri o di venditore abusivo. Ha potere la puericultrice religiosa o laica che si occupa dei bambini lasciati negli asili nido e lo ha la maestra di scuola materna ed elementare. Hanno un loro potere le prostitute. Ha un potere talvolta smisurato il compagno di banco. Anche i più queruli e sprovveduti personaggi che si dichiarano assolutamente impotenti hanno in effetti qualche forma di potere da esercitare nel rapporto con gli altri, e lo sanno fare con tenacia e spietatezza. Si riesce sempre a trovare una forma di potere da esercitare sugli altri e non si presta attenzione sufficiente a quell’unica forma non negativa che è il potere che si può avere su se stessi. Ma quale significato può avere saper coordinare pensieri e gesti se non si può poi proiettarli sugli altri, nel mondo circostante? Ciascuno tenta di trovare il modo di esercitare la sua influenza, di manipolare i suoi simili.

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Quella che ho descritto sembrerebbe una situazione catastrofica, ma io penso che sia utile essere consapevoli che il bisogno di potere è ineliminabile in qualunque forma di rapporto interpersonale nel mondo: anzi, l’inconsapevolezza spesso permette di non prendere coscienza di comportamenti veramente delittuosi.
I genitori hanno un grande potere sui figli (ovviamente so benissimo che questi ultimi hanno a loro volta un potere enorme sui genitori di cui diventano veri e propri tiranni), tanto che spesso soffoca il rapporto d’amore che dovrebbe essere alla base del nucleo intimo della famiglia. Si sa che i genitori giustificano quasi tutto con l’insopportabile intercalare, rivolto al figlio o alla figlia di turno: «Lo facciamo per il tuo bene!» Almeno i figli hanno il pregio di non usare così spesso un’espressione del genere; forse non perché siano migliori, ma perché l’inconscio sociale non ha ancora loro trasmesso l’obbligo di ricorrere ad una simile forma di ipocrisia. «Per il tuo bene» è dunque lecito anche il delitto, sono certo lecite le violenze.
Non voglio. affrontare qui il problema delle aggressioni fisiche e criminali sui minori, né riferirmi ad altre forme di sopraffazione, anche psicologica, violente che sono così macroscopiche da essere condannate persino dal giudizio comune. Vorrei invece parlare di una forma particolare di violenza esercitata dai genitori che per qualche ragione ritengono opportuno portare dal terapeuta figli anche non piccolissimi i quali sarebbero comunque in grado di avere con lui un rapporto diretto. In genere i genitori si impongono, entrando d’autorità nello studio in cui si tiene il colloquio, invadendolo con la loro presenza; prevaricando il bambino, parlando in sua vece.
Quasi sempre il bambino ha immediatamente una reazione compiaciuta vedendo il terapeuta, che egli non aveva deciso in alcun modo di consultare, vittimizzato dai genitori. Se poi il malcapitato prova a chiedere di essere lasciato solo a colloquio col ragazzino, i due con aria altezzosa obbediscono, esagerando nel con tempo un atteggiamento di grande disapprovazione, quasi chiedendo al figlio di trattenerli; in effetti molto spesso in precedenza lo si è già intimidito o addirittura spaventato all’idea di quello che potrebbe capitargli a quattr’occhi col «dottore». Questo provoca nei più giovani un grande disorientamento che spesso si traduce in un pianto vero e proprio, in singhiozzi ed invocazione dei genitori, nel tentativo di raggiungerli. Il bambino sa che è oppresso, ma sa anche che gli è stato vietato di avere autonomamente rapporto con quel nuovo personaggio che vede per la prima volta, benevolo ma anche terrifico. La coppia in genere rientra soddisfatta, con l’aria di quelli che l’avevano detto che il bambino non avrebbe accettato di restare solo con un estraneo.
Hanno portato lì il loro figlio anche per affrontare queste sue paure, perché è troppo insicuro, ha troppo bisogno di loro, li cerca continuamente, anche di notte: quando si sveglia bisogna lasciarlo entrare nel letto di mamma e papà. Li si vede, trionfanti, all’ennesima dimostrazione che il figlio è loro e vuole solo loro. Lo hanno portato dallo psicologo, per zittire ogni rimorso, ma lo sanno bene che il bambino non vuole. A questo punto – quando simili cose accadono – io mi chiedo chi sia più malato, se il figlio o i genitori, così angosciati dall’ipotesi che qualcuno possa sottrarre anche in piccola parte il figlio al loro potere assoluto.
La consapevolezza di avere potere sugli altri, la capacità di gestirlo, non deve necessariamente risolversi in un sentimento perverso, ma può dare anche sicurezza. Può essere una conferma dell’utilità del proprio ruolo sociale, il segno di una disponibilità e di una possibilità di orientamento nel mondo e nei rapporti con gli altri.

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Il parassitismo psichico è un fenomeno molto frequente tra i componenti dei gruppi di vario genere e delle stesse famiglie.
Quando all’interno di uno di questi nuclei più o meno ristretti si verifica un caso grave di disturbo psichico, tutti gli altri componenti ristrutturano i loro rapporti e le loro funzioni, elaborando quello che si potrebbe definire un vero e proprio riassestamento del campo delle relazioni reciproche. In questo riassestamento acquisisce un ruolo di nuovo potere il malato, che sfocia in una sua grande capacità di ricatto che ha facile presa sugli altri, quasi sempre prigionieri di rimorsi più o meno fondati, che li trasformano in vittime acquiescenti di una sorta di tirannia della sofferenza, contraria ad ogni buon senso ed incurante di qualsiasi principio di giustizia.
Lo stesso meccanismo si mette in atto sia con il «drogato» sia con lo «psicotico» e la spirale dei ricatti diventa inarrestabile.
Trovare il punto giusto di equilibrio tra la comprensione e il rifiuto di un’acquiescenza incondizionata è molto difficile e richiede comunque un solidità psichica ed una padronanza dei sentimenti d’amore per chi dalla profondità del proprio disagio ci chiede aiuto. L’amore di per sé non è il miglior consigliere, soprattutto se è insidiato da un vittimismo autodistruttivo che esalta i deliri di potenza di chi ci ricatta, chiedendo in nome della sua condizione di «malato». Conosco persone che si sono dedicate, con abnegazione eroica, ad un figlio, un congiunto, un amico sofferenti per una malattia o per una dipendenza più o meno assoluta da sostanze tossiche. Sono persone che hanno sostenuto lotte accanite, coraggiosamente, contro difficoltà addirittura insormontabili, spesso senza riuscire a ottenere veri risultati, ma che qualche volta hanno vinto. Ebbene quasi sempre quando l’obiettivo viene raggiunto, improvvisamente, queste robustissime tempre abituate alla lotta si afflosciano inerti di fronte alla constatazione che la persona per cui hanno lottato ha ora trovato un suo punto di equilibrio. Il contraccolpo è così grande che spesso cadono essi stessi vittime di un disagio. Questo perché hanno l’impressione che la vittoria sia stata ottenuta non da loro, ma dall’intervento di una situazione o di persone esterne; oppure perché tutto d’un colpo si sentono invadere dalla rabbia per aver accettato per anni umiliazioni e sofferenze che hanno compromesso la loro stessa dignità; o anche perché non sono più in grado di riassestarsi in un nuovo equilibrio: prima la loro vita esauriva il suo senso in quella lotta, ora non c’è più la ragione per lottare.

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Quando in una famiglia, i parenti, ma soprattutto i genitori, vedono che il bambino o il figlio adolescente, psichicamente o fisicamente colpito da una malattia, guarisce si sentono invasi da una grande depressione, o da un’immotivata irritazione.
L’ambiente famigliare si trasforma in un crogiolo di accuse contro chi è guarito e contro tutti gli altri, in un tentativo di reciproca condanna. Prima la lotta li aveva tenuti uniti, dopo sono incapaci di adattarsi alla nuova situazione che si è venuta a creare. Qualche volta accade persino che gli stessi genitori cerchino più o meno inconsapevolmente di far regredire il figlio alla vecchia situazione di malattia. Ovviamente gli equilibri famigliari costruiti attorno ad una situazione patologica sono gli equilibri di persone malate. E un po’ come in certi problemini di aritmetica elementare: non importa se la malattia è divisa in parti tra i vari membri della famiglia oppure concentrata su di uno solo, ma la quantità di malattia deve rimanere uguale. La sofferenza in sé stessa non è mai desiderata, ma quando non si riesce ad uscire dal perverso gioco della malattia si è tentati di trasformare il dolore che procura in un malvagio piacere.

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Di queste situazioni deve essere sempre consapevole il terapeuta, soprattutto quando ha il delicato compito di avere in cura bambini e bambine sui quali il potere di gestione dei genitori e delle famiglie è grandissimo. Le ingerenze nella terapia con gli adulti, di famigliari, amici, coniugi od amanti pur essendo massiccie e distruttive (ho già detto spesso e non mi stancherò di ripetere quanto trovi riprovevole la determinazione con cui cinicamente si tenta di far crollare in chi si dice di amare la fiducia nel terapeuta che in quel momento dovrebbe invece rappresentare un punto di riferimento, un alleato nella lotta contro la sofferenza, causando veri e propri disastri e spesso facendo ripiombare la situazione clinica agli stadi più gravi); ma sono in qualche modo meno gravi che le ingerenze nella cura dei bambini, anche perché gli adulti hanno spesso la possibilità di recuperare autonome decisioni o di opporsi su di un piano paritetico ai tentativi di sopraffazione, magari con l’aiuto del terapeuta. Per lo psicoterapeuta infantile l’ingerenza dei famigliari nella terapia è un fatto generalizzato ed inevitabile.
Contrastarla con troppa decisione è rischioso, perché può esasperare l’opposizione dei genitori ed indurli a troncare il rapporto terapeutico. Del resto è molto faticoso sostenere l’intrusione di persone che ad ogni fase critica della cura, ad ogni accentuazione di un sintomo, intervengono pesantemente criticando il metodo e mettendo in questione il significato di quel particolare tipo di cura che è la psicoterapia.

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Io cerco di rendere pubbliche più che posso queste mie riflessioni e non mi stanco di ripetermi, nella speranza che servano a far comprendere a qualche genitore, a qualche parente di piccoli pazienti, la grave responsabilità che si assumono nei confronti di questi soggetti particolarmente indifesi e più vittime di altri dell’inconsapevolezza aggressiva che compromette il loro diritto alla salute.
La cultura della nostra società e le leggi che ci governano danno ai genitori molto potere sui figli, finché sono «minori». Io penso che questo principio non sia molto giusto e mi compiaccio nel vedere che fortunatamente, seppure con lentezza, si sta cambiando qualche norma legislativa e sta crollando qualche pregiudizio, nella direzione della concessione di una maggiore libertà dei figli dallo strapotere dei genitori. Purtroppo l’inconscio sociale è ancora molto spaventato all’idea di affrancare troppo apertamente i figli dalla tirannide famigliare, anche perché le vittime sono fortemente consenzienti. Il ribellismo dei piccoli dell’uomo è per ora soddisfatto di alcune vendette perpetrate nell’ombra e si appaga dei privilegi che la condizione di dipendenza garantisce e perpetua così lo stato di cose: i figli di oggi pretenderanno domani lo stesso potere. La modificazione dei contenuti dell’inconscio sociale è una tra le funzioni del lavoro psicoterapeutico, ma non può che avere tempi molto lenti e deve essere condotta con grande cautela, in ogni caso il primo dovere è quello di non danneggiare i piccoli pazienti. Bisogna sapere che le figure genitoriali in ogni caso sono state in qualche modo assorbite dal bambino che in esse si identifica, nelle quali proietta molti desideri. Gioca ad essere un papà o una mamma che sono sempre troppo simili a quei modelli che proprio non dovrebbero essere imitati.

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Una ragazzetta giocava, su di un terrazzo, con una bambola, sontuosamente vestita, con lunghi capelli biondi, animata da congegni che le permettevano tante funzioni:
di parlare, piangere, muoversi, e così via.
Ad un certo punto, credendosi inosservata la bambinetta si alzò in piedi, prese a strapazzare la pupattola, tirandole i capelli strappandole i vestiti, scuotendola, sbattendole la testa contro il parapetto. Era una bambola certamente costosa. Ad un certo punto intervenne la madre, una specie di donnone arcigno che si mise ad urlare:
«Questa bambola l’ho pagata un occhio della testa !» Poi afferrò per i capelli la bambina allo stesso modo in cui quest’ultima aveva poco prima afferrato la bambola. La bambina si mise a piangere, lasciando cadere la bambola sgualcita. Dopo poco la madre smise ed abbandonò allo stesso modo la bambina, rientrando in casa.

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Il terapeuta deve fare attenzione a non mettersi troppo apertamente contro i genitori che, sostenuti dalle norme giuridiche, possono sempre rivalersi accusandolo di aver disatteso agli impegni della «committenza» di cui sono parte attiva loro stessi e non i loro figli, pur se sono questi a soffrire.
Più impegnativo ancora è però il lavoro teso ad abbattere nei bambini i condizionamenti di cui sono stati vittime passive in contesti ambientali e famigliari che hanno lasciato tracce profonde; essi non sono alleati naturali del terapeuta che però deve sforzarsi di tirarli dalla sua parte. Questo anche se talvolta le condizioni di partenza sono così aberranti che i piccoli si appoggiano volentieri fin da subito e allora è possibile che il lavoro sia più facile; ma non ci si deve fare illusioni, prima o poi l’alleanza originaria tra il bambino e i suoi genitori rientrerà in gioco, contro il lavoro del terapeuta che nuovamente sarà visto come nemico dal paziente.

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Uno psicoterapeuta infantile che opera nel centro che io dirigo mi ha raccontato questo terribile ed illuminante episodio. Egli stava cercando di insegnare al suo piccolo paziente a rendersi un pochino più autonomo. Lavorava sull’enuresi notturna, sulla paura del buio, sul rifiuto dello studio, sull’idiosincrasia troppo intensa per molti alimenti e su alcuni rituali ossessivi che lo inducevano a stare troppo rinchiuso tra le mura di casa. Il bambino ben comprendeva, anche senza che il terapeuta glielo avesse esplicitamente detto, che molti di quei rituali e di quelle ‘paure gli derivavano da atteggiamenti ossessivi ed angosciati dei genitori. Stravolgendo alcune frasi dette durante le sedute, il piccolo incominciò ad accusare i suoi genitori di averlo fatto ammalare, mettendo l’accusa sulle labbra del terapeuta. I genitori si infuriarono con costui, lo tempestarono di telefonate offensive, vennero allo studio irosi, minacciando rivalse. Il bambino era soddisfatto e a quel punto decise di mettere in atto l’ultima parte del suo piano di vendetta (verso chi?): incominciò ad inventare di sana pianta frasi ingiuriose contro i genitori attribuendole sempre al terapeuta. Costoro obnubilati evidentemente dall’ira non si rendevano conto dell’eccesso di inverosimiglianza della situazione ed erano diventati a loro volta vittime del ragazzino; tentarono allora di sottrarlo alla terapia. Per fortuna le cose si aggiustarono per la pazienza e l’intelligenza del terapeuta e lo sviluppo successivo permise il buon esito della cura ed anche il chiarimento di tutti i malintesi.

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Nelle righe precedenti ho cercato di chiarire come i genitori di un bambino malato trovino un loro equilibrio nell’esercizio del potere su di lui o nell’abnegazione che la sua condizione particolare impone loro a prezzo di continui sacrifici e per questo spesso non vogliono davvero che egli guarisca. Mi rendo conto che queste mie affermazioni possono gettare una luce sinistra su queste figure perché potrebbero far pensare che il rapporto genitori figli sia solo di sopraffazione o di strumentalizzazione. Certo che non è solo così. Ci sono momenti d’amore grandissimo all’interno delle famiglie, l’abnegazione è spesso segno di grandezza d’animo, la tenerezza è un bene di cui il bambino non può che godere; la ricerca da parte dei genitori della felicità per i figli è anche sincera. Riconosco che le mie analisi sono spesso spietate e quindi ritengo necessario chiarire che non voglio con questo negare il diritto alla speranza di una felicità famigliare. Il mondo in cui chiamiamo, senza il loro consenso, i nostri figli, non è solo malvagio. L’odio, la violenza e la sopraffazione non sono i soli sentimenti di cui gli uomini siano capaci. Il primo palpito dell’essere vivente è un palpito di amore, o meglio è un desiderio di amore.
Chi ha dato vita ad un nuovo essere ha spesso operato una scelta d’amore. Purtroppo quest’amore viene continuamente contraddetto; perciò è importante non darsi tregua e lottare per debellare tutte le istanze che questo amore vorrebbero negare.
Compiacersi di frasi retoriche che esaltano vuotamente un amore tutto esteriore ha nuociuto finora all’uomo; se così non fosse stato non ci sarebbe tutta questa necessità di «telefoni azzurri». Se vogliamo davvero amare e rispettare i nostri figli è indispensabile che illuminiamo quelle zone d’ombra dentro di noi in cui si nasconde l’odio. Dobbiamo rinunciare alle rassicurazioni che possono derivarci dalla sofferenza degli altri. Lentamente dobbiamo abbandonare fantasie e illusioni di potenza, perché potrebbero danneggiare i nostri figli. Dico questo perché ne sono convinto, come scienziato e come uomo.

Psicoanalisi contro n. 82 – Regni del male

mercoledì, 1 gennaio 1992

Il nostro mondo è intriso di male. I tre “regni”, in cui per comodità possiamo qui suddividere la realtà vivente: mondo vegetale, animale ed umano sono continuamente percorsi da lotte, sopraffazioni, espropriazioni, dolore e violenza. La più innocua pianticella dai teneri fiori azzurri o rosa ha modi di affermazione brutali ed aggressivi nei confronti dell’arbusto col quale ha in comune il terreno, tentando di assimilare solo per sé tutte le risorse nutritive, e giunge fino a togliergli l’ossigeno di cui quello ha bisogno per sopravvivere, a sottrargli la luce del sole, coprendolo col proprio fogliame. Potremmo dire, volendo trasporre in quel campo categorie di giudizio psicologiche, che il regno vegetale è caratterizzato dal narcisismo più assoluto: ogni stelo si comporta come se fosse l’unico essere esistente, pretendendo per sé solo tutte le risorse nutritive ed ambientali che gli possano garantire la sopravvivenza nelle migliori condizioni. Non sappiamo se in questa pratica «assassina» nei confronti delle altre forme di vita ci sia anche godimento; io penso di sì. Narcisismo e sadomasochismo sono condizione del vivere in tutte le sue stratificazioni e quindi anche della vita della lattuga, della violetta o del jakaranda di crepuscolare memoria. «Non c’è pace tra gli ulivi». ( La casa in cui mi ritiro ogni settimana per alcuni giorni, cercando di pensare, di scrivere e di rilassarmi, è circondata da ulivi: ho osservato con attenzione amorevole la crescita di quei tronchi ruvidi e contorti. Fortunatamente, per ragioni che il contadino e l’agronomo ben conoscono, ogni albero è piantato ad una distanza sufficientemente grande dall’altro; ma il caso ha fatto da poco nascere tre piccoli ulivi nel vicino boschetto di acacie, uno accanto all’altro. Li ho visti ingaggiare tra loro una lotta mortale, il più debole si è seccato quasi subito, il secondo vivacchia stentatamente, mentre il terzo ha trionfato: le sue foglie d’argento scintillano alla rugiada del mattino. È facile farmi notare un’eccessiva mia tendenza antropomorfizzante; ma resta il fatto che l’ulivo non ha usato la stessa violenza su altre piante che gli stanno intorno, concentrandola su due individui della propria specie, nei confronti dei quali la sua affermazione è stata spietata. Potrei così dire che anche tra le piante il sadomasochismo è presente non meno del narcisismo. Vive con noi un cane al quale ho dato il nome di Ruperto, lo stesso nome del primo vescovo di Salisburgo;
è un pastore maremmano-abruzzese che vanta un albero genealogico da far impallidire il Principe di Galles.
È bellissimo ed inoltre è indicibilmente buono. Ci rotoliamo nei prati e lui mi guarda con occhi teneri e profondamente innamorati; se io mi distraggo, lui con la zampa mi cerca e mi chiede carezze. Giochiamo anche «alla lotta», ci ringhiamo l’un l’altro, ci attacchiamo e poi stanchi ci addormentiamo nell’erba. A me sembra il cane più buono del mondo. Eppure un giorno l’incauto cane del pastore che nel prato vicino pascola il suo gregge osò avvicinarsi troppo a me e al territorio che Ruperto considera proprio. Whisky (così si chiama quel cane) non aveva intenzioni aggressive, cercava solo qualche carezza mia, con timidezza e umiltà, ma non riuscì ad evitare che il mio cane gli si avventasse all’improvviso contro con una furia mai vista in lui prima, addentandogli un orecchio senza più lasciarlo, malgrado i guaiti disperati. Io e i miei amici vedemmo schizzare il sangue dal vortice dei due corpi avvinghiati e qualcuno di noi tentò con tutte le sue energie di far mollare la presa a Ruperto nei cui occhi si leggeva una vera e propria furia assassina, senza riuscirci. Decise da solo quando lasciare la preda. In seguito fu punito con durezza, privato della nostra compagnia e dei nostri giochi; accettò con rassegnazione, ma lasciando chiaramente capire di non essere d’accordo, di sentire offeso il proprio senso della giustizia: lui aveva fatto quello che doveva essere fatto, in obbedienza alla sua legge, misteriosa forse anche per lui oltre che per noi. Un odio antico gli aveva imposto quel comportamento malvagio ed io ne fui addolorato e soffro anche perché il piccolo Whisky ora mi guarda solo di lontano, giustamente offeso anche con me. Io non sono contento di ciò che è accaduto e di aver dovuto constatare di persona che anche nel regno animale l’ingiustizia regna sovrana.
Per quel che riguarda gli esseri umani non c’è bisogno che sia io ad addurre un’infinità di esempi in cui apparirebbe evidente quanto la vigliaccheria e la cattiveria imperino in ogni dove: nelle cupe foreste dell’Africa centrale o nei polverosi e sudici uffici postali d’Italia. È troppo facile sottolineare quanto il rispetto della dignità umana non esista in alcun luogo dell’occidente o dell’oriente.
Ovunque il più forte opprime il più debole; l’arroganza trionfa negli stadi, ma anche nelle scuole e nelle chiese. Può darsi che una rosa ami un’altra rosa, che un elefante sia tenero con un altro ospite della savana, spero che qualche essere umano sia capace di innamorarsi di un suo simile, però l’odio è così preponderante nell’universo e l’amore così incerto!

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In questa realtà dunque in cui l’odio, la lotta e la sopraffazione sembrano avere l’assoluta preminenza che senso può avere voler parlare di altruismo e di amore? Non significherebbe nascondersi dietro ad una inveterata cattiva coscienza? Non è meglio accettare la verità di fatto anche se così sgradevole? L’egoismo trasforma ogni essere umano in una belva che vuole sbranare e sopraffare l’altro, alla ricerca sempre e solo del proprio vantaggio. Tutti vogliamo vivere, ma la vita di ciascuno si afferma a spese di ogni altro: «Mors tua, vita mea.» Io non credo nella validità apodittica di queste frasi che la tradizione ha ormai incistato nel nostro inconscio sociale; però non posso fare a meno di verificare, magari con disperazione, che quell’ambiguo proverbio latino possiede una sua terribile validità: vivere vuoI dire uccidere.
Una tra le mie convinzioni più profonde, che continuo a sbandierare (e l’ho fatto anche quando il farlo costava un prezzo molto alto) è quella che l’aborto sia un gesto omicida, malvagio ed empio: nessuna coppia ha il diritto di uccidere per recuperare una presunta tranquillità turbata da un concepimento conseguente ad un gesto inesperto; nessuna donna ha il diritto di sentire ciò che sta germogliando nel suo ventre come sua esclusiva proprietà, al punto di poter decidere di stroncarlo. I figli non sono proprietà dei genitori: è questa una verità profonda contro la quale non si dovrebbe mai andare. La piccola vita dell’embrione anche nella fase iniziale in cui è composto da due minuscole semi-cellule tenta disperatamente di affermare il suo diritto alla sopravvivenza, questo diritto deve essere sempre rispettato, soprattutto dal padre e dalla madre. Io sono più che favorevole a tutte le tecniche contraccettive (purché non siano aborti mascherati). Il rapporto sessuale deve essere un gesto libero ed entusiastico, i corpi debbono potersi penetrare ed avvolgere come le anime, si deve esaltare la bellezza fisica ed apprezzare tutta la sessualità nel rispetto e nell’amore per l’altro. Triste è solo la sessualità che diventa strumento di sopraffazione e mezzo di distruzione, senza gioia e senza il piacere di vivere. Io credo nella vita e nella sessualità, voglio rispettare l’una in tutte le sue forme e conoscere la seconda in tutta la sua ricchezza; la mia è una scelta morale e una scelta politica.

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Se però io fossi coerente e tenessi conto delle considerazioni che avevo fatto all’inizio di queste righe dovrei essere assolutamente favorevole al cosiddetto «aborto»; dovrei anche sostenere il capitalismo più sfrenato e il razzismo più ottuso, dovrei accettare lo sfruttamento, la sopraffazione e la violenza; dovrei dire che è giusto sopprimere una vita che ancora non è autonoma, se la sua sopravvivenza disturba quella di uno o di entrambi gli individui che l’hanno generata; dovrei dire che è giusto che qualcuno viva in modo che la sua miseria mi garantisca un serbatoio di manodopera a basso costo o l’acquisto a prezzi di rapina di materie prime che migliorino la qualità della mia vita. Potrei anche, dopo, parlare di amore, altruismo, collaborazione, di generosità al fine di convincere gli altri, di ottenere la loro fiducia, per determinare il mio successo in politica. Non è un mistero che mafiosi, camorristi e malavitosi assumano abiti rispettabili, appaiano tra i sostenitori della legalità ufficiale, abbiano posti d’onore ai funerali di Stato, siano tra coloro che porgono le condoglianze alle vittime della loro stessa violenza.
Forse bisognerebbe accettare apertamente e spudoratamente la logica della lotta sempre e contro tutti; sforzarsi di essere “lione e golpe” come suggeriva Machiavelli al suo Principe; in apparenza fingere di essere dalla parte del bene e operare nascostamente il male a proprio vantaggio. Ma se il gioco degli inganni viene apertamente ammesso allora viene meno la sua ragion d’essere e questo non è compatibile con l’ordine universale delle cose. D’altro canto a che serve essere consapevoli del male se non c’è possibilità di fare una scelta diversa?

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Nonostante tutto io ho la presunzione di aver fatto la mia scelta morale e scientifica. Moralmente penso sia di fondamentale importanza credere nell’amore ed operare altruisticamente, pur nella consapevolezza che anche queste convinzioni si radicano sulla ricerca del proprio personale piacere e che partecipano in qualche modo dell’egoismo universale. lo voglio prima di tutto essere felice; ma non voglio che la mia felicità sia costruita sull’infelicità di altri. Sono un essere umano che vuole essere rispettato e per questo soffro quando vedo vilipesa in me e negli altri la dignità umana. La vecchia formula kantiana che sembra oggi obsoleta è per me ancora profondamente valida: «Opera in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo» (Cfr. Kant, Critica della Ragion pratica) Io ritengo però di radicare questo imperativo nel più profondo significato esistenziale: il mio rispetto per l’umanità che è in me e negli altri non vuole essere astratto e tanto meno formale, so infatti che può contribuire a rendere felice me e gli altri. Non ho paura che la mia esaltazione del piacere mi faccia giudicare epicureo, sensista od edonista, perché sempre antepongo il rispetto per gli altri e quello per me medesimo. Amo gli altri e voglio essere amato. Questa è probabilmente una scelta assurda che già hanno fatto alcuni antichi filosofi elleni e che ha fatto un certo Gesù di Nazareth. Io credo nell’importanza dell’amore universale, anche se so che è continuamente contraddetto.
Sono certo un ingenuo, ma questo è un mio orgoglio.

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La mia scelta dell’amore, come impulso originario è anche scientifica. So benissimo che ogni scelta che uno scienziato viene operando si radica sempre anche nei suoi desideri e nelle sue fantasie. Poco tempo fa ho avuto modo di seguire alla radio una discussione molto interessante, non tanto per gli argomenti che dibatteva, ma per la posizione dei partecipanti. Si parlava delle medicine «alternative» e si contrapponevano ai più diversi tipi di «guaritori» i medici ufficiali dell’occidente, con tanto di laurea e specializzazioni, conoscenza dei prontuari, capacità assoluta di decifrazione di quei fogliettini informativi che accompagnano quasi tutte le confezioni di medicinali. Costoro però apparivano così tronfi ed ignoranti nei confronti della loro stessa scienza di cui dimostravano di ignorare la storia da risultare assai poco attendibili. Dal canto loro i rappresentanti della medicina alternativa apparivano quasi teneri nella totale sprovvedutezza, inesperti ed ignari dei principi su cui affermavano di basare il loro intervento, tanto che si poteva tutt’al più apprezzare una certa maggiore disponibilità verso le esigenze umane dei loro pazienti cui si accostavano, magari solo per timidezza od insicurezza, con maggiore rispetto di quanto non facciano i medici tradizionali. Ad un certo momento si inserirono nel dibattito un uomo e una donna raccontando ciascuno una propria esperienza. Entrambi avevano sofferto di patologie gravissime che la medicina tradizionale non era riuscita a curare e che erano state debellate da terapie alternative. A quel punto i medici in studio si irritarono profondamente giungendo a dire la cosa più idiota ed antiscientifica che potesse loro venire in mente, affermando che si contrapponevano alle loro argomentazioni due «aneddoti» che non rendevano conto della ragioni che avevano determinato la scomparsa di quei sintomi patologici. Non si rendevano conto i nostri dottori che qualunque ricerca scientifica ha bisogno anche di basarsi su osservazioni empiriche dalle quali solo in seconda istanza possono essere dedotte o indotte cifre statistiche.
Le percentuali di efficacia di qualunque intervento terapeutico nascono dalla risoluzione di casi singoli, di «aneddoti», proprio simili a quelli appena narrati. La statistica quando è scienza onesta e non inventa i suoi dati, codifica esperienze empiriche raggruppate poi secondo parametri standardizzati.
Io non voglio essere un Pilato vigliacco e quindi dirò che tra la medicina occidentale violenta e strumentalizzata dalle multinazionali chimico-farmaceutiche e le medicine alternative così evanescenti, esoteriche e poco verificabili io scelgo un diverso modo di gestire entrambe.
Tutti i ricercatori scientifici dovrebbero fare su di sé un lavoro terapeutico attraverso la psicoanalisi che permetta loro di acquistare almeno un poco della necessaria consapevolezza indispensabile in un lavoro come quello della ricerca, nel quale troppo facilmente si perdono di vista le motivazioni di partenza e gli scopi finali.
La ricerca e la sperimentazione sono però fondamentali per il procedere di qualunque conoscenza e non c’è possibilità di crescita per nessuna alternativa che sfrutti esoterismo ed ignoranza per operare interventi terapeutici di cui non si possano esplicitare i principi, i metodi e gli effetti.

Psicoanalisi contro n. 83 – Il ragno e la mosca

mercoledì, 1 gennaio 1992

Tutti gli esseri viventi educano, cioè tentano di trasmettere ai piccoli della loro specie informazioni concernenti sia il comportamento «morale», sia le tecniche utili alla sopravvivenza del singolo in rapporto con il gruppo. Molti di questi comportamenti vengono trasmessi geneticamente, però sono rafforzati e talvolta addirittura modificati dall’esempio che gli individui adulti propongono ai loro piccoli. L’etologia racconta che nei macachi e in molti gallinacei il piccolo che ha la possibilità di seguire ed osservare da vicino il comportamento sessuale degli adulti potrà disporre di una gamma di atteggiamenti sessuali più ricca e varia di quanto non sia possibile all’individuo tenuto in isolamento il quale avrà possibilità di espressioni soltanto stereotipe o addirittura incongrue. Le capinere insegnano a volare, gli animali selvatici insegnano le tecniche della caccia, in tutti i gruppi i nuovi membri vengono educati a comportamenti in linea con le esigenze della specie. lo penso che anche le cosiddette «piante» non seguano soltanto meccanismi di reazione a stimoli esterni o interni di tipo biochimico, ma siano capaci di trasmettere messaggi che «educano» in qualche modo gli stessi «virgulti». Dico questo consapevole di quanto spesso e volentieri io ami «antropomorfizzare» la realtà che mi circonda e quindi raccomando a chi legge tutta la cautela possibile in merito a certe mie affermazioni.
Di una cosa sono comunque seriamente e profondamente convinto: che i messaggi educativi di qualunque specie vivente non sono mai soltanto di ordine meccanicistico, innato, stereotipo ed affettivamente indifferente. Non è vero che le rondini hanno «sempre» costruito i loro nidi allo stesso modo, o che il pesce spinarello ha sempre tenuto questo tipo di comportamento aggressivo e ritualizzato. Il che non vale solo per il mio modo un po’ fantasioso di indagare e di esprimermi, ma è stato verificato anche attraverso indagini intelligenti e non preconcette che gli scienziati specialistici hanno svolto sui fossili residui, da cui si trae la documentazione di come anche i comportamenti istintuali siano cambiati in modo più o meno sensibile nel corso dei millenni. Gli antichi evoluzionisti sosterrebbero che si tratta di modificazioni dovute soltanto all’adattamento all’ambiente; i neoevoluzionisti sono oggi propensi a parlare di mutazioni spontanee; io penso che il caso e la necessità si contendano il primato dell’efficacia avuta su queste mutazioni. Caso e necessità sono ciechi; c’è però un terzo principio, che Giorgio Federico Hegel avrebbe chiamato «astuzia della ragione» (e io considero molto importante non ritenere ancora che Hegel sia da considerare «un cane morto»).

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Dunque io credo che, insieme, il caso, la necessità e l’astuzia della ragione guidino tutti gli esseri viventi e quindi anche il comportamento dell’uomo. Gli uomini adulti da sempre hanno cercato di condizionare i figli, appena venuti alla luce, per indurre in loro comportamenti adatti alla struttura sociale predisposta. I valori stanno sopra o sotto questo inevitabile tentativo di plagio? Bisogna infatti prendere atto che ogni forma di educazione è sempre ed assolutamente un fenomeno di plagio. Un educatore o un gruppo di educatori possono pensare di aver scelto determinati valori a fondamento della loro concezione di vivere civile e volere conseguentemente fare il possibile per condizionare i giovani a loro affidati all’uniformità con comportamenti che si rivelino adeguati ad esprimere al meglio quei valori. Ci può anche essere l’atteggiamento pedagogico di chi, dopo aver tentato di enucleare alcuni comportamenti considerati utili alla struttura sociale, abbia deciso di costruire su di essi valori da veicolare come messaggio educativo fondamentale. È persino troppo facile notare l’ingenuità delle due posizioni. L’importante è non aver paura di far riferimento a valori che si fondano su desideri ed accettare contemporaneamente che tali desideri sono in rapporto con categorie di valore.

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Molti potrebbero credere che insegnare modalità esclusivamente tecniche di conoscenza sia in qualche modo moralmente indifferente; ma così non è. Insegnare ad un giovane come si sgozza un agnello, o dargli i primi rudimenti che lo mettano in grado di costruire un ordigno distruttivo di grande potenza sono decisioni che implicano anche scelte morali. Al di là di tutti i sentimentalismi sugli occhi sbarrati dell’agnello terrorizzato, o della retorica sull’orrore delle ferite lasciate dai bombardamenti con ordigni nucleari, resta il fatto che siamo di fronte a due esempi di come due diverse culture considerino lecito uccidere animali per cibarsene, oppure distruggere città e fare strage di donne e bambini per ottenere una vittoria su di un nemico. In entrambi i casi gioca un ruolo la vigliaccheria dei moralisti e degli scienziati che tentano di sottrarsi alle loro responsabilità, gli uni nella presunta inoffensività del pensiero che giudica ma non agisce direttamente per aggredire, gli altri nella pretesa neutralità dell’acquisizione scientifica in sé che non verrebbe necessariamente coinvolta nel possibile cattivo uso delle nuove energie messe a disposizione. I tecnici non si assumono la responsabilità della distruttività degli strumenti che mettono a disposizione degli uni contro gli altri e i moralisti non accettano di aver provocato con la loro istigazione le distruzioni che quelle armi si sono rivelate capaci di procurare. Le responsabilità vengono così generalmente scaricate sul genere umano; come se moralisti e scienziati non ne fossero quindi parte essi stessi. Non dovendoli allora considerare esseri umani a pieno titolo noi potremmo liberarci di loro uccidendoli; ma a chi toccherebbe prendere una simile decisione? Ad altri moralisti o scienziati in possesso dei criteri filosofici e scientifici sulla base dei quali giudicare? Ecco che il cerchio si richiude su se stesso…

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Oggi non è facile dire che cosa sia una famiglia; nei tempi passati gli esseri umani credevano di saperlo; adesso tra contraddizioni ed ambiguità, le famiglie si sfasciano, le coppie si separano, si formano gruppi, si creano solitudini. I figli nascono per caso e si trovano a crescere abbandonati a se stessi, circondati da persone che limitano le loro cure al nutrimento e ad una serie di contributi, come l’alloggio, l’abbigliamento ed una copertura igienico – sanitaria di base. Io non so – forse dovrei dire che non lo so più – che cosa debba essere una famiglia; credo però ancora nell’importanza dell’amore: due o più persone possono unirsi nel segno dell’amore e in nome di questo sentimento decidere di avere figli da amare. Solo così e purché sia così si deve costituire la famiglia degna di questo nome. Se c’è l’amore c’è anche la benedizione di Dio. Purtroppo io sento gravare su me e sull’umanità il peso di un peccato originale, ma so che può essere lavato dall’amore, proprio come l’acqua del fonte battesimale lava dalla colpa di Adamo. La famiglia è ovunque sia riunito un gruppo di persone che si amano, nonostante tutte le contraddizioni, le ambiguità e le cattiverie.

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I figli che però in qualunque modo vengono al mondo, anche se non hanno chiesto di venirci, debbono essere in ogni caso educati. Bisogna insegnare loro la padronanza di tecniche specifiche di sopravvivenza e di comportamento, ma allo stesso tempo bisogna dare loro strumenti di conoscenza e di giudizio sulle strutture della società in cui si trovano ad agire. Indubbiamente chi educa è costretto a compromettersi, trasmettendo, insieme con le nozioni di base, anche i propri criteri fondamentali di bene e di male. E questa una tremenda responsabilità. Noi tutti siamo così poco sicuri del nostro giudizio sul bene e sul male che ci sentiamo a disagio quando dobbiamo assumerci la responsabilità di trasmetterlo ad altri che subiranno così, implicitamente ed esplicitamente, un nostro condizionamento, dal momento che sono inevitabilmente esposti al plagio. Nella religione come nella politica, nella scuola come nel sindacato, ovunque vengono proclamati principi di bene e di male, di giustizia ed ingiustizia. Le costituzioni degli stati nazionali vorrebbero fondare su questi principi il complesso delle norme giuridiche che governano la vita dei cittadini. Persino lo Stato italiano ancora si regge su una costituzione nata nell’immediato ultimo dopo guerra, quando il Paese emergeva stordito dal delirio e dalla distruzione dei regimi nazifascisti; ma i principi che la fondavano e tuttora la fondano sono stati determinati da un gruppo di garanti che in nome di tutto un popolo si arrogava il diritto e si assumeva il carico di stabilire i nuovi principi fondamentali per la vita di tutto lo stato. Questo avveniva mentre fuori dalle stanze della Costituente i poeti poetavano, i musicisti componevano, i registi neorealisti giravano i loro chilometri di pellicola; mentre le città italiane erano «liberate» da giovanottoni americani in camionetta che buttavano tavolette di cioccolato e rotoli di am-lire a signorine e ragazzini che si prostituivano contenti del nuovo benessere che si annunciava, sola nota di entusiasmo e di amore gridata con gioia in campi di pomodori e giardini di limoni, tra un amplesso e una masturbazione.

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Esplicitamente, volendolo, io ho enunciato un mio credo morale e quindi un principio che io ritengo giusto diffondere con l’educazione. Questo principio precede l’insegnamento di qualunque nozione tecnologica: io credo che sia sano e pedagogicamente utile il rapporto fisico tra gli individui, quella forma di amore che porta gli esseri umani ad avere con piacere contatti con il corpo degli altri, dello stesso sesso o di sesso diverso, anche se penso che oggi la sessualità eterosessuale sia troppo ambigua e compromessa dalla volgarità consumistica, più ancora, almeno per il momento, di quella omosessuale. Comunque ogni forma di sessualità illuminata dall’amore ha per me un valore fondamentale di poetica purezza. Certo la masturbazione offerta per una manciata di quattrini, come quella cui ho fatto riferimento prima resta un atto di prostituzione, però ho voluto partire di lì per dichiarare quanto valore intrinseco io veda sempre congiunto almeno potenzialmente alla sessualità.

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Voglio ora riferire un caso clinico, breve e schematico, retorico e anche squallido, come forse lo sono tutti. Qualche tempo fa venne da me un cineasta sufficientemente ricco e sufficientemente americano. Era venuto in Italia, appunto, con l’orda degli alleati: jeep e sigarette, cioccolato e sorrisi. Ora non era più giovane e abitava a Roma in una bella casa del centro, senza più mogli, coi figli sparsi lontano per il mondo. Era abbastanza ricco per permettersi di passare le belle mattine di sole sul suo terrazzo innaffiando rose, gerani e non ti scordar di me. Era un funzionario di produzione, beveva molto whisky ed era vestito come usava tanti anni fa, quando gli americani in Italia contavano molto. Mi parlò di sé, della sua angoscia, del suo mal di stomaco; della sua difficoltà a prendere gli ascensori e della sua incapacità di attraversare le piazze o i grandi spazi aperti.
Tra le molte cose che mi raccontò ci fu un episodio che riferì con una dolcezza infinita, con la voce mutata, tenera e morbida, in cui l’inflessione anglofona si coloriva di sfumature campane e laziali. Proprio tra i limoni e i pomodori si svolgeva l’episodio che mi narrò. Era arrivato a Napoli in seguito allo sbarco alleato e in una città per lui sconvolgente, piena di sole, di colori accesi e di profumi sconosciuti aveva visto un ragazzetto bruno avvicinarglisi e senza quasi rendersene conto si era trovato in compagnia di una persona dolcissima e allo stesso tempo espertissima che gli aveva offerto un’esperienza che non aveva più potuto dimenticare: «… quello che non tollero è l’idea che quel ragazzo fosse solo una puttana. Vorrei che la psicoanalisi mi aiutasse a cambiare il passato, che mi rendesse capace di credere che quel momento meraviglioso sia stato un momento di amore.» Gli risposi in tutta sincerità e convinzione: «Ma quello è stato un bellissimo gesto d’amore.» Replicò: «Eppure io l’ho pagato.» Saggi unsi solamente: «Quel ragazzo aveva tutto il diritto di farsi pagare, ma ciononostante quello fu un gesto di purissimo amore.»

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So di stravolgere tutta la morale su cui si basa la società in cui vivo, di andare col mio giudizio contro l’inconscio che mi sovrasta e che è dentro di me. Lo so che non bisogna pagare i ragazzini in cambio della loro disponibilità ai giochi sessuali, ma il fatto di non essere stato capace di condannare quell’uomo o di esprimere un giudizio negativo sull’episodio mi riporta alla necessità di dichiarare apertamente quali debbono essere secondo me i principi su cui si deve basare un’educazione.
Lasciamo, per un momento, da parte il problema delle acquisizioni tecnico-pratiche: le case si devono costruire, non si può vivere senza i piatti e nemmeno senza televisione; forse è meno indispensabile costruire armi e si potrebbe anche fare a meno di farmaci tanto efficaci quanto distruttivi.
Insegnare ad un bambino come nasce un fagiolo è comunque il primo passo verso quel sapere che lo metterà poi in grado di costruire una bomba atomica: mentre il primo passo è auspicabile, potrebbe essere meglio inibire i successivi.
Passiamo dunque a trattare di quegli insegnamenti che comunemente vengono chiamati «morali».

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Io parlo molto spesso della profonda cattiveria degli esseri viventi: la tenera pianticella tenta di sottrarre aria e sole a quella che le sta accanto, fino a soffocarla.
Così i parassiti si abbarbicano sui grandi organismi e li uccidono.
Visti al microscopio batteri e virus appaiono come animali mostruosi, articolati e strutturati, pronti all’aggressione di cellule e tessuti. Tutti gli esseri viventi che vogliono vivere a prezzo di altre vite, anche della nostra.
Gli esseri umani hanno approntato difese farmacologiche e vaccini che distruggono a milioni questi agenti pur di salvare la vita di un solo uomo. Io che mi reputo rispettoso di ogni forma vivente: del tenero radicchio o del pauroso leone, dello svedese e del pigmeo, so però che non avrei nessuna esitazione a distruggere milioni di vite, anche umane, pur di salvare la vita di quelli che amo.
Di questa colpa ho orrore e chiedo perdono alla Divinità, e allo stesso tempo accuso Dio di avermi costretto a scelte così empie.
Io vorrei amare e sono costretto a lottare per una logica di sopravvivenza che mi obbliga a sceglier tra la mia vita e quella degli altri.
La vita di chi amo richiede il sacrificio di migliaia di altri esseri viventi. Io ho scelto di lottare contro l’aborto. So benissimo che è una scelta ambigua, come è ambigua e repellente la scelta di quegli abortisti che hanno deciso di privilegiare la vita di uno smilzo gruppo di ragazzini, ordinati e ben tenuti, attaccati ad un benessere che coincide con lo squallore dell’egoismo. Resta la mia grande ansia davanti alle gravi mancanze di rispetto cui vanno incontro le vite che ho voluto salvare. Con disperazione allora chiedo alla Divinità ancora una volta il perché di tante contraddizioni. L’assurdità sembra essere una condizione ineliminabile della vita umana: per questo io che ho scelto l’amore mi sento costretto all’odio.

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Cosa debbono allora insegnare gli educatori, nella famiglia e nella comunità: l’amore o l’odio? Io credo che l’amore sia la scelta primaria, un bisogno originario; allo stesso tempo so che l’odio ci condiziona tutti. La viola mammola, la biscia, il pavone e l’uomo vivono nella reciproca sopraffazione. Ieri ho visto un ragno, grigio e azzurro, con grandi zampe pelose, arcuate e flessibili, acquattato su di una ragnatela lucente, vibrante come un’arpa suonata da una Musa, aspettava al varco un insetto. Poche cose avevo visto di più belle di quello spettacolo del ragno apparentemente assopito posato sulla sua tela scintillante ai raggi del sole: una mosca incappò nella trappola e subito iniziò una danza disperata.
Più si dibatteva la malcapitata e più si invischiava. Il ragno le si avvicinò: le lunghe zampe pelose parvero offrirle un abbraccio che la finì. Chi aveva ragione, quale vita doveva trionfare: quella del ragno o quella della mosca? Da che parte stavano la Giustizia e l’Amore? Restava ondeggiante nel vento una ragnatela che io contemplavo. L’estetistica compiacenza è sufficiente a salvare l’universo?

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Viene talvolta nel mio studio un ragazzo quindicenne. Fa precedere il suo arrivo da una telefonata che giunge da un paesino della campagna laziale dove vive. Ha bisogno del mio aiuto e mi ama intensamente. Anch’io sento di amarlo. Mi raccontò questo sogno che, giustamente, egli definì un incubo: «Mi trovavo in un palazzo, assurdo, perché era composto da un’unica stanza, immensa, altissima e larghissima. Insieme con me c’erano alcuni amici miei e tante altre persone, mi sembra che fossero tutti maschi. Era in corso una guerra terribile, in terra si trovavano armi di tutti i tipi, antiche e moderne, coltelli, asce, spade, ma anche fucili e pistole. Dovevamo tutti lottare gli uni contro gli altri, per farci del male e forse anche per ucciderci a vicenda. Io avevo tanta paura. C’era però un momento di pausa, per il pasto. Allora suonava una campanella e tutti andavamo a tavola.
Non so cosa mangiassimo. Io cercai di fuggire e arrivai nella casa di un mio parente, uno zio, molto mite e comprensivo. Voleva accogliermi ed ospitarmi, ma non riusciva ad aprire la porta di casa. Io bussavo, bussavo. Ad un certo punto arrivarono due carabinieri che mi presero e mi riportarono nel palazzo da cui ero fuggito. Io avevo paura, tanto che dissi a me stesso: adesso mi debbo svegliare. E mi svegliai.» Quelli che si intendono di psicoanalisi avranno capito tutti i riferimenti sessuali contenuti nel racconto, i desideri perversi e meno perversi simbolizzati in questa lotta disperata ed entusiasmante. Mi limitai a dirgli: «Il sogno lo hai fatto tu. Dentro di te c’è una guerra terribile. Perché volere la guerra, quando forse sarebbe meglio … » Qui mi interruppi. So di essere stato compreso.
Cosa debbo insegnare io nel mio doppio ruolo di educatore e terapeuta: l’amore o la violenza? L’amore significa anche rispetto dell’altro, rinuncia alla sopraffazione, disponibilità e comprensione. La violenza vuol dire lottare contro l’altro per vincerlo, per espropriarlo, abbatterlo e distruggerlo. Tutti gli educatori sanno che sarebbe bella una vita di amore e rispetto reciproco. Tutti noi, educatori, terapeuti, uomini e donne, sappiamo quanto sia doloroso essere delicati, emotivi, quanti rimorsi questa sensibilità procuri.
Insegnare a non provare rimorso vuol però dire scegliere la via della distruzione dell’altro. Il terapeuta insegna a superare la sofferenza del rimorso.
Chi ha ragione: l’educatore o il terapeuta? Si deve insegnare il principio morale della giustizia anche se va contro il diritto di non soffrire dell’uomo? Il ragno vuole succhiare la mosca e non ha alternative se vuole sopravvivere. L’educatore deve insegnare a costruire tele scintillanti e pericolose come trappole mortali e il terapeuta deve liberare l’uomo dal rimorso che gliene deriva? Si può liberare il ragno dalla colpa di essere tale e di vivere conformemente alla propria natura? È giusto liberare l’uomo dalla sofferenza che gli viene dal rimorso di essere nemico mortale del proprio simile? L’educatore e il terapeuta sono in contraddizione reciproca?
La morale e la natura sono inconciliabili? La salute e l’educazione sono linee divergenti?

Psicoanalisi contro n. 85 – Con dignità e poesia

mercoledì, 1 gennaio 1992

I l linguaggio umano è sempre molto figurato e fantasioso: si dice che i dialetti soprattutto siano ricchi di espressioni appropriatamente pungenti, che riescono, con pochi suoni, a descrivere, con arguzia, acume e profondità, concetti, situazioni e stati d’animo complessi. Questa prerogativa non è però esclusiva dei dialetti: anche le lingue nazionali, se pur talvolta appaiono paludate e rigide, hanno tuttavia la capacità di esprimere, con brevi allocuzioni significative e giri di frase pertinenti, pensieri molto articolati. Il fatto è che la lingua parlata, nazionale o dialettale, semplice o colta riesce spesso a rendere significati che vanno oltre il senso letterale delle singole parole. Il «significante», cioè quel flatus vocis che starebbe a fondamento di tutti i vari significati che gli si affollano intorno, probabilmente è un punto limite; quindi le parole e le espressioni linguistiche non soltanto alludono e rimandano a qualche cosa che sta oltre, ma anche rinviano al significato, spostandolo sempre un po’. Si dice qualcosa per voler dire anche qualcos’altro. A volte si coglie chiaramente la funzione di certe espressioni linguistiche bizzarre, che dicono per non dire, nascondono e disvelano allo stesso tempo.
Vorrei qui soffermarmi su alcune espressioni che la nostra cultura del senso comune usa per esprimere e nascondere concetti diversi intorno all’avvenimento fondamentale della «nascita». Nell’Italia del nord, del centro e del sud ci si riferisce alla donna che ha appena partorito il figlio dicendo che ha «comperato» un bambino o una bambina. E un’espressione usata colloquialmente anche davanti ai ragazzini e quindi potrebbe sembrare un modo di adombrare una realtà che non può essere apertamente detta poiché ha una sua relazione con la sessualità: una forma di pudore.
Questo non basta però a formulare un’ipotesi sulle ragioni che hanno spinto ad usare proprio il verbo «comperare».
Inoltre gli adulti usano la stessa espressione molto spesso anche quando parlano tra di loro, quando si suppone che nessuno degli interlocutori quindi possa essere turbato dalla delicatezza dell’argomento. Ci sono altri modi di dire la stessa cosa: che si è trovato il bambino sotto un cavolo, o anche sotto un cespuglio di rose, immagine questa molto più poetica, ove non si consideri che così dicendo si fantastica il neonato in una posizione molto rischiosa per la sua incolumità: avvolto tra le spine. In tutta Italia, e non solo, si dice inoltre che i bambini li porti la cicogna, e l’immagine del pennuto imperversa sui cartoncini di partecipazione spediti per dare a parenti ed amici la lieta novella e sulle insegne al neon dei negozi specializzati in articoli per neonati.

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Ho scelto questi modi di dire molto diffusi, che non richiedono neppure sforzi di ricerca etnolinguistica, grazie alla quale forse si potrebbero trovare espressioni altrettanto o magari anche più significative, proprio perché sono patrimonio comune di tutti ed appartengono all’esperienza più quotidiana. Non molto tempo fa il figlio decenne di un mio conoscente, mi disse con un certo sussiego, ma rivelando anche molto buon senso. che egli trovava molto brutta l’ espressione «comperare un bambino»; perché gli ricordava certi episodi di cronaca nera relativi al commercio di neonati da parte di zingari o di altri che rubano e vendono bambini altrui. Il ragazzino era molto consapevole del meccanismo «scientifico» della nascita, per cui si compiaceva di parlare con orgogliosa saccenza di argomenti che per i suoi coetanei sono ancora «delicati». Proseguì poi la conversazione con piglio orgoglioso dicendomi che far credere ai bambini che i neonati sono stati comperati dai genitori, non solo rafforzava l’idea che i bambini fossero oggetto di commercio, ma anche che di conseguenza i ricchi potessero permettersi bambini più belli e più intelligenti dei poveri. Queste osservazioni mi colpirono e un po’ sconcertato gli risposi che anche a me non piaceva quel modo di dire e che trovavo le sue osservazioni abbastanza giuste. Tenni per me l’ulteriore riflessione che feci a proposito della conoscenza tutta tecnica ed asettica che il piccolo ostentava circa il meccanismo della nascita, dal concepimento al parto e che mi dava un notevole fastidio. Mi infastidiva la apparente lucidità con cui egli si stava forse difendendo da chissà quali ansie e paure. Pensai anche che forse erano invece problemi tutti miei. Col tempo ritornai a pensare però a quella conversazione e a domandarmi il senso di tante «metafore» popolari intorno alla nascita. Pur senza voler andare alla ricerca del significato simbolico del baratto, del grande uccello che regge nel becco il neonato, dell’allusione al genitale maschile contenuta nella parola stessa «cavolo» o a quello femminile nella parola «rosa» e via fantasticando, bisogna ammettere che questi rozzi modi di dire, quasi scherzosi e di dubbio gusto, oltre a voler nascondere eufemisticamente con immagini e leggende un fatto considerato scabroso, rappresentano tuttavia anche un tentativo di distorcere la realtà e di espropriare la donna di una sua prerogativa fondamentale. Io ho più volte richiamato l’attenzione sull’equivoco corrente per cui le donne sono da una parte della cultura attuale ancora considerate «generatrici» della vita; sebbene questo concetto ancora domini nell’inconscio sociale tuttavia è importante a mio avviso riconoscere con precisione i rispettivi ruoli del maschio e della femmina nella procreazione. Resta comunque innegabile che, dal momento del concepimento in poi, la donna ha un suo modo peculiare di relazione con la vita che sta maturando nel suo grembo, una vita che ha una propria autonomia, ma che non è disgiunta da quella della madre. I sogni, le fantasie, le paure proprie dell’embrione e del feto, sono anche frutto dell’interazione col corpo della madre e, suo tramite, col mondo. Il genitore ed il resto del gruppo sociale coinvolto hanno però il dovere di collaborare a questa gestazione, partecipandovi a pieno titolo e con tutte le responsabilità ad essa connesse. Il nascituro non vive solo in simbiosi con la madre, ma anche in relazione con l’ambiente che circonda entrambi. Tutti hanno il dovere di rispettare la vita che si va formando, prima di tutti la madre, che in ogni caso non può e non deve mai considerarsi «padrona» della creatura che porta in grembo. L’essere umano appena concepito non può essere considerato proprietà di qualcuno; gli si deve riconoscere subito la pienezza dei diritti umani, a meno che non si voglia sostenere una qualche legittimazione della schiavitù.

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Voglio comunque mettere in guardia dal subdolo tentativo di espropriazione perpetrato dai modi di dire del linguaggio comune, che vorrebbero negare alla donna il significato tutto speciale di una condizione particolare e di un periodo della sua vita, liquidandolo con la favoletta di una passeggiata fatta un giorno al negozio, all’orto, in giardino o sul tetto di casa a prendere possesso di un bambino bello e fatto. Con una battuta si cancellano mesi di sublime trepidazione, di gioie e dolori, di sogni e di lotta non solo della madre, che pure è soggetto principale, ma anche del padre, che se non è un mascalzone, tutto questo ha diviso con la sua compagna. Ben di più che il gesto di estrarre dal portafogli un fascio di biglietti di banca per comperare il loro bambino.
Perché si è scelto di mentire sulla nascita degli esseri umani raccontando così squallide storielle? Io so che anche la scienza racconta tante storie ingannatrici e poco verosimili, però penso che non si debba mai scadere nel cattivo gusto, inoltre quasi sempre anche in campo scientifico, le soluzioni più vere sono le più eleganti.

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Vorrei subito dire esplicitamente quello che penso a proposito delle «fole» che si raccontano ai bambini in questo e in altri settori. Mi piacciono le fiabe, è bello colorire il mondo di grandi e piccini con storie fantastiche, più o meno verosimili; ma so anche che molte di queste favole solo apparentemente innocue veicolano invece messaggi malvagi di morte e distruzione. I bambini assorbono tutto, applicano quanto apprendono nei giochi e lo ritrovano nei sogni. L’effetto delle cattive fiabe permea il nostro inconscio sociale, non siamo in grado di annullarlo del tutto, ma possiamo contenerlo in parte. Non però grazie all’azione di squallide formule scientifiche: non per esempio opponendo ai cavoli e alle cicogne l’obbligo di conoscere a memoria la fisiologia del concepimento e del parto.
La scienza deve sapere recuperare la sostanza poetica di cui è fatta: infatti ovunque ci sia un tentativo di capire e raccontare l’origine delle misteriose forze che governano l’universo c’è poesia. Il mondo è pieno di poesia, proprio come è pieno di Dei. Pur essendo quindi favorevole alle fiabe che esprimono poesia diffido di molte favole pseudo-poetiche, proprio come diffido della pseudo-scienza che pretende di essere obbiettiva ed è in realtà un’altra favola malvagia. C’è tutto un mondo fiabesco, avventuroso e fantastico, popolato di re e di regine, di robot e di mondi extrastellari, di gnomi e di rospi parlanti che deve essere proposto dagli adulti ai bambini attraverso le favole, con tenerezza, affetto e poetica partecipazione. Questo mondo deve opporsi a quello della volgarità e del cattivo gusto. Mi ricordo ora di una tremenda critica che un’insegnante elementare fece ad una mia commedia per bambini, andata in scena qualche tempo fa, dicendo che in essa era rappresentato anche il male, di cui ai bambini non si dovrebbe mai parlare.
Dopo aver detto che io non credo che debbano esistere commedie per bambini ed altre per adulti, ma commedie che adulti e bambini possano apprezzare allo stesso modo, mi ribellai contro un concetto di educazione in base al quale ai bambini si sarebbero dovute propinare solo zuccherose favolette e mi dichiarai soddisfatto di aver mostrato ai suoi scolaretti che anche il mondo delle fiabe non era fatto solo di insulse e smielate caricature senza rapporto con la realtà. Anche questo fraintendimento è causa della progressiva perdita del ruolo educativo da parte della scuola e degli insegnanti, soppiantati da una pluralità di stimoli, buoni e cattivi, molto più incisivi e pertinenti delle prediche in classe. Non è educativo inventare un mondo falso ed improbabile, privo oltre tutto di poesia, perché non c’è poesia senza verità, fatto solo di belle anime e buoni quanto falsi sentimenti. L’educatore può e deve parlare di tutto, si può raccontare la storia di un drago o di un elicottero, con fantastica stravaganza, purché si sappia costruire un mondo plausibile in cui bene e male hanno il loro giusto posto. Ignorare un aspetto tra questi significa violentare chi si vorrebbe educare e rappresenta un gesto di vigliaccheria. La voce vibrante di sdegno di quella insegnante ipocrita non la dimenticherò mai più.

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Poesia e verità sono i principi ai quali deve essere informato ogni insegnamento, dalle elementari all’università, ma anche prima e oltre. La dignità umana deve essere rispettata in tutti. Capisco di sembrare e forse di essere retorico, ma preferisco essere chiaro: si parla molto di ecologia, si vorrebbe disinquinare la natura avvelenata, si arriva a parlare di ecologia acustica a difesa del sistema nervoso contro i frastuoni che ne pregiudicano l’integrità, ma non si è capaci neppure di evitare l’inquinamento delle coscienze dei bambini, i componenti più indifesi del nostro gruppo sociale. L’informazione scientifica corretta deve essere a base dell’ educazione, fin dai primissimi momenti di vita del piccolo essere umano, essa ha una funzione formativa non meno della cosiddetta cultura umanistica. Non è vero che prima si debba dare al bambino esclusivamente un’educazione somministrata attraverso fiabe e canzoni e solo dopo si possa passare all’informazione precisa e su basi scientifiche. Se non ci si preoccupa di dare subito informazioni precise e scientificamente corrette, l’uomo stesso sarà inquinato e di conseguenza non potrà che riprodurre nel mondo nuovo inquinamento.
Tutto è pieno di Dei: la scienza è una poetica e divina formatrice, non una sequela di nozioni aride, sempre smentite dalle acquisizioni successive.
Dove voglio arrivare con questi miei discorsi?

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Ho voluto stigmatizzare come con quattro fole, devianti rispetto alla verità, umilianti per gli adulti e fuorvianti per i bambini, entrate nel linguaggio d’uso comune, si siano espropriati gli esseri umani della grandezza poetica connessa alla nascita di una nuova vita. I bambini ne sono vittime in particolar modo, poiché si nasconde la poesia della verità intorno alla loro stessa nascita, trasformandola in un episodio qualunque, col pretesto di difendere un pudore che non ha ragione di essere. Le fantasie infantili superano di gran lunga ogni comune senso del pudore imposto dagli adulti.
Capisco che non è possibile avere rapporti con altri individui che prima o poi non incappino in qualche infortunio, in qualche errore, e particolarmente difficile è il rapporto coi bambini; ma sono convinto che la scelta migliore sia di rivolgersi loro con sincera semplicità, preoccupati soprattutto di rispettarli come esseri umani. Forse gli «esperti», a cui tanto sento purtroppo di assomigliare, sono più dannosi che utili: i precetti che pretendiamo di imporre disturbano più di quanto aiutino, ispirano insicurezza; ma non per questo è permesso rinunciare al lavoro di ricerca e di osservazione, poiché sarebbe gesto di viltà.

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Ammetto di essermi arrogato il diritto di imporre precetti, di essere presuntuosamente convinto di saper leggere la psiche di bambini e di adulti. Spero però che quello che faccio serva a me e agli altri ad orientarci nel mondo, a capirci l’un l’altro; spero di non essere dogmatico. Ho paura quando mi chiamano come «esperto» ad esprimere giudizi su qualche avvenimento clamoroso, perché ho paura che il mio tentativo di capire possa essere frainteso ed io scambiato per qualcuno che intenda imporre la sua verità. Molti di quelli che come me sono considerati gli «esperti» mi danno quell’impressione e mi fanno vergognare di appartenere alla categoria. Quello che diciamo noi «esperti» può tutt’al più essere uno stimolo offerto con umiltà agli altri perché insieme riusciamo a capire un poco di quello che ci succede intorno. Sarebbe bene che tutti gli esseri umani, nessuno escluso, fossero «esperti» di qualcosa: non si sarebbe costretti a demandare così tanto ai tecnici e si soffrirebbero meno espropriazioni della dignità umana.

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È molto triste constatare che la nostra società non ha saputo trovare che queste due squallide strade per raccontare ai bambini la storia delle nascite: una fatta di piccole volgari fandonie e l’altra di tecnicistica aridità. Ci sono stati, è vero, anche miti di grande significato filosofico e poetico, che hanno descritto magnificamente il mistero della nascita dell’uomo. Ho anche sentito padri e madri raccontare con molta tenerezza ai loro figli come e perché sono venuti al mondo loro stessi o come e perché sta per venire al mondo un loro fratellino. Non ho però forse mai sentito raccontare in modo poetico e convincente il meccanismo dell’accoppiamento sessuale, della gestazione e del parto. Questo ancora in un momento in cui si fa un gran parlare di educazione sessuale. Di fatto il sesso non può essere collegato così indissolubilmente alla procreazione come si continua a fare.
Anche per questo la vergogna della sessualità dominante nell’inconscio sociale ha reso impossibile raccontare limpidamente e distintamente i due procedimenti: della sessualità e della riproduzione. Le stesse religioni non sono in proposito così aride e fredde da misconoscere l’importanza dell’amore tanto è vero che lo pongono come condizione indispensabile all’origine del concepimento di una nuova vita. Più limitata si è rivelata la concezione della prima psicoanalisi quando ha qualificato come «normale» e non perverso soltanto l’accoppiamento genitale tra due persone di sesso opposto. Per fortuna Freud aveva in sé una grande capacità poetica ed è stato capace di travalicare questo schema da lui stesso imposto ed ha parlato con entusiasmo delle infinite possibilità della sessualità umana, con tutti i suoi capovolgimenti, giochi e fantasie, anche se li ha dovuti, per convenienza, bollare come perversioni. Resta un grande merito della psicoanalisi comunque, avere anche in seguito ribadito che la sessualità non coincide e non si esaurisce con la funzione procreativa, ma tutt’al più la seconda si appoggia alla prima, la quale dal canto suo la trascende.

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Oggi i pretesi educatori sessuali danno tutt’al più informazioni sul coito ed in minima parte forniscono elementi sulla fisiologia della riproduzione. Io so che è quasi impossibile dare un’educazione sessuale, ma è anche sbagliato. Meglio sarebbe parlare di educazione all’amore, ma raramente è accaduto che ci riuscissero i pedagoghi. Ci sono sempre riusciti meglio i poeti e i filosofi, gli artisti e i profeti, coloro che hanno avuto un ruolo di trascinatori di anime. In assenza di tali figure sarebbe stato meglio fermarsi ai tempi in cui i libri di scienze delle nostre scuole descrivevano un essere umano con minuzia dalla testa all’ombelico e poi tornavano a parlare degli arti inferiori. Nessuno è stato ancora in grado di colmare con dignità e poesia quel vuoto.

Psicoanalisi contro n. 86 – Difficili equilibri

mercoledì, 1 gennaio 1992

Tutti o quasi hanno sognato di trovarsi nudi o in atteggiamenti sconvenienti in luoghi pubblici: piazze o teatri molto affollati. Spesso tali sogni hanno come colorito emotivo un forte sentimento di vergogna, di imbarazzo per la situazione, a cui si tenta di porre rimedio coprendo con le mani le parti esposte o cercando maldestramente riparo. Non credo che nei sogni i simboli abbiano significati univoci, e neppure credo che le situazioni oniriche si riferiscano per tutti alla stessa realtà, che cambia da persona a persona e varia col mutare delle circostanze; per questo è importante lavorare su ogni sogno per coglierne i contenuti peculiari. Da molti anni mi sento rivolgere la stessa domanda su di un sogno o su di un particolare dello stesso: «Che cosa vuol dire?» Talvolta mi diverte l’ingenuità con cui mi si interroga e talvolta mi irrita tanto che sono tentato di dare risposte deliranti che lasciano esterrefatti i miei interlocutori. Qualche volta qualcuno capisce e ride con me, il più delle volte ci si irrigidisce con rabbia.
E vero però che molto spesso le immagini oniriche fanno riferimento ad elementi dell’inconscio sociale ed hanno quindi una certa decifrabilità relativamente generalizzabile (anche se in ogni caso vanno considerati elementi specifici della situazione particolare riferiti all’individuo), per cui senza pretendere di dare interpretazioni dogmatiche si può tuttavia attribuire ai sogni significati validi per tutto un gruppo socio-culturale. Tornando quindi al sogno frequente di ritrovarsi nudi o in condizioni imbarazzanti di fronte ad un pubblico, non è azzardato dire che lì si trova celato un desiderio esibizionistico, sia di natura direttamente sessuale, sia anche di altro tipo. È questo un genere di sogni che sono ricorrenti anche in chi non ha un senso del pudore tradizionale, ma che pure ha un proprio senso della riservatezza sessuale o intellettuale, come succede ad esempio a me, che se per un verso manifesto grande spudoratezza, per un altro sono molto geloso di una mia intimità sessuale e psichica. Sono tante le persone che hanno un forte desiderio esibizionistico direttamente legato alla sessualità, anche quando la cosa sembrerebbe improbabile: ricordo un’anziana nobildonna piemontese che era invecchiata nel più rigoroso perbenismo e nel pieno timor di Dio, la quale ostentava la sua pudicizia di vecchia «signorina», eccessiva anche per i suoi tempi. Quando sopravvenne uno stato confusionale piuttosto vicino ad una sindrome di demenza senile, l’anziana pulzella esplose letteralmente travolta da un bisogno scatenato di esibizionismo sessuale, che esprimeva con un turpiloquio di terribile volgarità, con una spudoratezza aggressiva che la spingeva a mostrarsi nuda o seminuda per casa, dove veniva a stento trattenuta dai famigliari, oggetto di insulti terribili per il loro tentativo di indurla ad atteggiamenti meno sconvenienti o di limitarne gli effetti almeno alle mura domestiche. È facile dire che quella era la reazione ad una repressione eccessiva che ella in ossequio alle regole del proprio ambiente aveva operato su di sé per tutta la vita. L’esibizionista è anche quel tipo singolare le cui imprese appaiono a volte nelle cronache dei giornali il quale pure riflette un caso estremamente problematico di conflitto col senso del pudore, che lo spinge a terrorizzare con la propria nudità uno sguardo dal quale non avrebbe forse il coraggio di lasciarsi scrutare in una situazione non imposta da lui stesso. Appare evidente che il pudore e l’esibizionismo sono tra loro strettamente legati e si radicano nei più profondi contenuti dell’inconscio sociale. Ciò che scandalizza, turba, o diverte in un ambiente o in un’area geografica lascia indifferenti altrove e si potrebbe tracciare una mappa del pudore nel mondo, sincronica e diacronica, ma sempre i due elementi della riservatezza e dell’esibizionismo resterebbero connessi tra loro. Non è neppure vero che il cammino sia stato sempre verso la permissività ed in ogni caso non è facile affermare che sia possibile al riguardo un comportamento sufficientemente equilibrato da esimere dal turbamento, consapevole od inconsapevole. Rimane il fatto che ciascuno di noi ha bisogno di soddisfare entrambe le pulsioni, coltivando sia il piacere di nascondersi, sia quello di esibirsi; il difficile è riuscire a farlo salvaguardando in noi stessi e negli altri la dignità umana. E importante rispettare il pudore e nello stesso tempo essere tolleranti; la violenza può essere terribile sia imponendo, sia proibendo manifestazioni sessuali di qualunque tipo. Giochi intricatissimi di esibizione e di pudore strutturano i rapporti tra i sessi: per il senso comune cui fa riferimento la nostra cultura, se una donna va in giro con abiti provocanti e un trucco vistoso, si tende a giudicare con meno severità un tentativo di aggressione, mentre è vero invece che la donna in questione ha tutto il diritto di scegliere il proprio modo di apparire senza per questo dover subire attentati alla propria persona. Così una coppia che decida di scegliere l’interno di un’automobile per abbandonarsi ad intime effusioni ha il diritto di non essere disturbata, neppure dalla polizia, ove la scelta del luogo non costituisca evidente provocazione pubblica o intralcio al traffico. E importante rispettare le aree che gruppi di uomini e donne hanno scelto per praticare il nudismo integrale, come è importante non imporre la vista del nudo a chi non lo abbia scelto, cosa quasi altrettanto violenta che l’imposizione del fumo in luoghi pubblici.

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Un aspetto del pudore riguarda il rapporto coi bambini. Ho già detto altrove quanto io trovi ridicoli gli adulti che si rivolgono ai più piccoli, con orrendi birignao, e come altrettanto disapprovi coloro che si rivolgono ai bambini con l’imperturbata prosopopea con la quale terrebbero un discorso accademico; ho pure criticato il vezzo di raccontare favolette sciocche e bugie inutili intorno alla sessualità o alla procreazione. L’educazione sessuale è in genere nient’altro che una fredda ed impropria sintesi di alcuni meccanismi fisiologici che ricostruiscono male un percorso che va dal coito al parto. Io so che l’educazione al sesso dovrebbe esser anche educazione all’amore, poiché i due elementi non possono essere considerati disgiuntamente. Il problema che si pone è quello se sia possibile e in che modo educare senza coinvolgere ed essere coinvolti in rapporti fisici che in questo momento il buon senso non può nemmeno prendere in considerazione. Forse in una società diversa dalla nostra, magari in futuro, i divieti e i tabù nei confronti del rapporto sessuale con i bambini cesseranno di avere ragion d’essere; ma oggi ci troviamo in una realtà in cui la sola ipotesi astratta ci terrorizza, e poco serve dire che tanto orrore nasconde certo un desiderio anche troppo intenso. Tanto è vero che esplodono molto spesso casi di pedofilia sempre ributtanti per la componente di sopraffazione violenta, fisica e morale, di esseri che per quanto disponibili, sono però ignari. La effettiva disponibilità infantile al rapporto sessuale con gli adulti non può in ogni caso oggi giustificarne la pratica effettiva, proprio per le conseguenze dirompenti che in ogni caso un tale evento avrebbe sui piccoli. Questo complica quindi ulteriormente ogni progetto di educazione sessuale; ma non bisogna lasciarsi scoraggiare e bisogna insistere alla ricerca di una via sana all’educazione sessuale dei più giovani.

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Per tornare al tema iniziale, vorrei cercare di esaminare i problemi che comportano l’esibizionismo e il voyeurismo dei bambini.
Tutti abbiamo una vita fantastica più o meno ricca, e anche quelli che affermano di non fantasticare in realtà hanno la testa piena di immagini di tutti i tipi, lecite ed illecite, accettate e rifiutate dalla coscienza. I bambini hanno dal canto loro una fantasia fervidissima che è attiva già nell’embrione e nel feto. Sarebbe interessante poter indagare sui contenuti fantastici del periodo pre-natale; ma pur limitandosi all’osservazione infantile non si può fare a meno di convincersi che siamo in presenza di fantasie molto articolate e ricche, più strutturate di quanto si immaginerebbe. Il bambino molto piccolo non riesce a comunicarle verbalmente, però riesce ad esprimerle attraverso una gestualità che non sfugge ad un’osservazione approfondita. La sessualità infantile è intensa e variegata: Freud diceva che il bambino è un perverso polimorfo, che desidera tutto quello che l’immaginario del gruppo sociale gli ha trasmesso come desiderabile. Per cui è anche esibizionista e non c’è purezza nell’ostentazione senza vergogna del proprio corpo. Solo l’ipocrisia degli adulti che gli impone un cliché di purezza, lo priva della malizia che invece c’è. Fin da subito il neonato manifesta desideri di contatto sessuale, ma fin da subito c’è anche la differenziazione tra chi ostenta e chi nasconde i segni di una sessualità ben presente comunque. Il gioco con cui spesso si maschera questo desiderio sessuale accomuna maschi e femmine e non li risparmia neppure dall’oscenità, se pure d’imitazione, assorbita cioè dal mondo adulto. Io non credo si debba troppo indulgere nel compiacere certi giochi imitativi che sono la parodia di volgarità che l’inconscio sociale ha già loro trasmesso.
Del resto la frustrazione è in qualche misura giusta, quando serve ad insegnare la discriminazione tra ciò che è la propria libertà e il rispetto dell’altro. Come comportarsi dunque coi bambini? Molti padri e madri hanno scelto la strada della massima libertà di condotta: si mostrano nudi ai figli e fanno insieme il bagno o giocano senza inibizioni apparenti, accettando contatti fisici anche molto intimi. Altri scelgono invece la strada del totale riserbo. In ogni caso io penso si debba tenere conto delle esigenze di tutti, anche di chi, adulto o bambino, pretende il rispetto della propria riservatezza. Certo io penso sia più sano un aperto modo di venire incontro alle richieste infantili, all’interno del rispetto di quella dignità che appartiene agli uni e agli altri, senza chiusure, ma senza imporre o subire prevaricazioni di sorta. Un segnale allarmante di quanta potenziale violenza ci sia nel rapporto sessuale tra genitori e figli è quello che viene da una frase ricorrente delle madri che davanti ad un eccessivo pudore dei figli ribattono seccamente: «Ma io sono tua madre, ti ho fatto io, perciò ho tutti i diritti di guardarti!» E questa un’ affermazione di possesso che nessun essere umano può vantare su di un suo simile. Il ridicolo è che questa stessa frase si sente dire da donne che a suo tempo sono andate sulle piazze ad affermare i loro diritti al grido di: «Io sono mia!» Affermazione giustissima, ma che deve valere oggi anche per i loro figli.

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Si pone quindi il problema del rispetto del pudore infantile. Ci sono situazioni in cui il bambino sente il bisogno particolare di nascondersi: esige il rispetto della sua sfera privata, anche fisica, e bisogna assolutamente concederglielo, perché il contrario sarebbe una violenza che metterebbe in pericolo il suo equilibrio psichico. Salvo preoccuparsi quando si abbia il dubbio che, questa ritrosia sia eccessiva e sia a sua volta già un sintomo di un disagio. Dobbiamo a questo proposito in parte accettare di fare riferimento al costume del gruppo sociale in cui il bambino sta crescendo, anche se ogni tentativo di intervento deve essere molto ponderato e in ogni caso estremamente delicato e rispettoso. Bisogna prima di tutto cercare di capire quali sono le possibili motivazioni di un pudore eccessivo. Può essere il rifiuto di darsi, conseguente ad un periodo di permanenza in ospedale, dove la manipolazione e la passività sono state eccessivamente pesanti o, una risposta a qualche situazione analoga. Possono instaurarsi delle sindromi di autismo anche grave in bambini oppressi da famiglie eccessivamente invadenti e irrispettose della intimità sessuale dei figli più piccoli, che si sottraggono sottraendosi al mondo e a se stessi, costretti poi a ferirsi a sangue per riuscire ancora a percepire brandelli di sé.
Come si capirà sono equilibri difficili da raggiungere quelli di un corretto rapporto con la sessualità infantile, l’errore è inevitabile e frequente, anche perché gli adulti hanno le loro ansie, i loro desideri e le loro aggressività anche nei confronti dei bambini. Se i bambini colgono queste debolezze sanno diventare tirannici, violenti e stupratori veri e propri a loro volta. Si apre a questo punto un discorso molto importante che non affronterò qui, riservandolo per un altro momento e riguarda il riconoscimento dei diritti e doveri dell’infanzia anche da un punto di vista giuridico: sono disgustato da esperienze ripetute di padri e madri che lottano tra loro col corredo di avvocati e tribunali per strapparsi l’un l’altro di mano i figli, trasformati in vittime di un gioco perverso e tragico. Aver strappato il figlio al padre o alla madre diventa il motivo d’orgoglio, una vittoria ottenuta; ma quasi mai qualcuno si preoccupa di sapere con chi il bambino vorrebbe realmente stare. Certo, con quel genitore di cui più subisce i condizionamenti; ma chi di noi non sceglie in base ai condizionamenti che gli vengono da qualche parte o da qualcuno? E importante invece imparare a rispettare i desideri dei bambini anche piccolissimi, dopo essersi sforzati di capirli.
Se ci possono essere ragioni valide che richiedono la distruzione di una famiglia, non ci sono comunque mai ragioni valide per usare i figli come merce di scambio, terra di conquista. Deve continuare ad essere l’amore il solo movente della decisione sull’affidamento del bambino, e non l’odio per il coniuge respinto. Mi auguro che presto ovunque leggi più oculate concederanno ai minori i diritti che loro appartengono, compreso il diritto di scelta.

81 – Febbraio ‘92

mercoledì, 1 gennaio 1992

Il lavoro dello storico pone gli studiosi di questa complessa disciplina in condizioni simili e opposte a quelle dei veggenti di dantesca memoria, molto sensibili e consapevoli di quello che avvenne nel più lontano passato, rischiano di prendere colossali abbagli se la loro indagine si limita ai tempi corti, pertinenza ancora della cronaca. Oggi l’ansia della spiegazione in termini di spicciola politica elettoralistica sembra avere travolto le barriere prudenziali nelle quali usa trattenersi in genere la speculazione scientifica. Così viene riproposta a posteriori come sconvolgente novità una quantità di rivelazioni che non rivelano un bel niente. Chi non sia per sua sfortuna nato proprio ieri quale turbamento infatti dovrebbe nell’intimo provare sentendo dire che Togliatti perseguì una politica di spietato realismo, tentando di barcamenarsi tra l’ingiustificabilità di un ‘impresa come quella della spedizione italiana dell’Armir a fianco dell’esercito nazista e l’ancor più ingiustificata repressione stalinista dei disfatti resti dell’esercito fascista? Qualcuno c e forse che non abbia per via diretta oppure indiretta conosciuto il complicato traffico di protezioni ed impunità passato attraverso lo Stato vaticano costretto anche dalla ragion politica, oltre che da una programmatica missione universalistica di salvezza, a sottrarre ebrei ai carnefici nazisti e prede naziste all’efficienza giustiziatrice post-bellica?

Qualcuno può legittimamente oggi sussultare scoprendo che Chamberlain e Stalin patteggiarono in tempi e modi specifici con /’incombente strapotere di Hitler? C’è bisogno di un prodotto cinematografico di più o meno convincente qualità per farci sospettare che il presidente Kennedy fu eliminato da macchinazioni complesse che coinvolgevano l’opposizione e la malavita organizzata? Si possono giustificare titoli a tutta pagina che insinuino una possibile concordanza in chiave anti-comunista del presidente americano Reagan e del capo spirituale della Chiesa Cattolica? Tutto questo ben poco ha a che fare con il dovere dell’accertamento delle verità storiche, ma è evidentemente collegato ad un uso strettamente contingente dell’emotività dell’elettorato. Non per questo però si potranno accusare di faziosità i partiti, che appunto, in quanto fazioni, nell’estorsione del consenso a qualunque costo trovano una ragion d’essere a fianco di molte altre. Caso mai è da riconsiderare la legittimità del comportamento di quelle fonti di informazione che si qualificano come «indipendenti». Oggi pare definitivamente fuori discussione la possibilità che i fatti, del passato come del presente, possano essere distinti dalle opinioni, anzi sono proprio queste ultime che determinano l’ottica attraverso la quale ogni realtà viene letta. Se, come è probabile, solo un candido velleitarismo potrebbe sperare di rivendicare una non ipotizzabile oggettività dell’informazione, si dovrebbe almeno poter pretendere di sapere quali interessi siano effettivamente serviti con coerenza da un ‘informazione che è necessariamente schierata con questa o quella parte. Non è neppure detto che l’esplicitarsi delle intenzioni renda necessariamente meno efficace il potere della persuasione: si pensi a questo proposito al grande successo degli schieramenti integralisti del passato e del presente. Il fatto è che ci siamo tutti assestati in un atteggiamento vigliacco di rifiuto delle responsabilità: anche per questo la storia l’hanno sempre scritta, più o meno precipitosamente, i vincitori. Ci sarebbe solo da riflettere forse sul fatto che tutto quel che è stato scritto è stato anche cancellato intingendo di volta in volta nell’inchiostro della nostra acquiescenza o servendosi di noi come cancellini.

79 & 80 – Gennaio ‘92

mercoledì, 1 gennaio 1992

A coloro che, con frettoloso fastidio, liquidano il giudizio sulle posizioni filosofiche e politiche del pensiero gindriano, qualificandole come espressione di «catto comunismo» (brutta sintesi di cattolicesimo comunista), sfugge forse l’altra caratteristica dell’atteggiamento gindriano in ogni campo: la sua marginalità. Non siamo mai stati esaltatori compiaciuti di alcun tipo di auto-emarginazione, anche perché consapevoli di quanto spesso sia indice di impotenza; ma allo stesso tempo abbiamo sempre perseguito con lucidità il rifiuto di essere organici ai partiti politici e ai sistemi culturali. La marginalità che ne consegue non è quindi né totalmente perseguita, né completamente rinnegata. Una marginalità che pur non esaltando come valore assoluto ci sentiamo tuttavia responsabilmente di rivendicare tra le nostre caratteristiche. In particolare, il pensiero gindriano ha sempre rifiutato il riduttivismo materialista del comunismo ed è clamorosamente eccentrico rispetto alla morale cattolica del negativismo sessuale. Quest’ultima considerazione diventa particolarmente ingombrante se si pensa che alla base del pensiero gindriano, come alla base della dottrina evangelica, sta il concetto di amore. Se l’amore cristiano si esprime però traducendosi universalisticamente in carità, quello gindriano invoca, al contrario, un Eros reintegrato altrettanto universalisticamente nel suo diritto al piacere sessuale. A questo punto è necessario dichiarare che l’accettazione razionale che, in ultima analisi, Eros sia il solo principio della vita e la sua ricerca l’unica modalità accettabile di realizzazione dell’esistente non è riuscita a liberare l’uomo dall’ipoteca di un assurdo che tutti ci sovrasta e ci opprime, lasciandoci prede di un panico tanto più distruttivo quanto più ineludibile. Almeno così viene da pensare riflettendo sul destino dell’uomo. Infatti il risultato di una simile riflessione non può che essere il ritrovamento della sola fine certa per ogni essere vivente. «Vivere per la morte» però è solo una formula filosofica che non libera dalla disperazione.

Più consolatoria, almeno a prima vista, può sembrare la scelta di vivere in attesa di un ‘altra vita, confortata, quella, dal requisito dell’eternità. Così che anche l’amore per assolvere appieno la sua funzione deve trovare la capacità di proiettarsi oltre il limite di una vita mortale. Il binomio di Eros e Thanatos può così acquisire un nuovo significato: l’amore, che è la condizione necessaria di ogni vita possibile, supera la sua inevitabile sconfitta ponendo il suo oggetto nel regno della assoluta certezza. A questo punto basterà il delirio della possibilità assoluta a liberare l’uomo dal panico dell’assurdo? Le religioni del mondo hanno fatto del delirio della trascendenza la forza vincente contro la morte. Il panico al contrario è il segno palese della sconfitta della ragione. Sta forse qui la spiegazione del dissidio pressoché universale tra religioni e sessualità? O la sessualità stessa non è compatibile tanto con la natura di Eros, quanto con quella di Thanatos? Lo psicoanalista perde la sfida col prete?

Entrambi hanno creduto di riconoscere nell’amore l’ineliminabile bisogno di tutto ciò che vuole vivere; ma l’amore per la persona finita e la soddisfazione della pulsione sessuale sono destinati allo scacco. Innanzi tutto perché non vanno oltre la soglia, e poi perché l’atto sessuale è la ripetuta parodia della morte stessa. Così amare la morte, camuffata da vita eterna, può diventare il delirio che ci libera dal panico al quale l’assurdità dell’esistere ci condanna?

Psicoanalisi contro n. 87 – La passeggiata in giardino

mercoledì, 1 gennaio 1992

Se, per un verso, è corretto osservare l’infanzia con un atteggiamento che ne rispetti la specificità, per un altro verso, considerare i bambini troppo diversi dagli adulti è molto rischioso. Bisogna innanzi tutto essere consapevoli che, fin dai suoi primi istanti di vita, l’essere umano ha piena dignità e che questa dignità deve essere rispettata e difesa. Eccessive discriminazioni possono trasformarsi in ghettizzazioni che espropriano. Anche insistere troppo sui concetti di spontaneità, purezza, ingenuità dei bambini può essere pericoloso, proprio quanto lo è esaltare il mito del «buon selvaggio», che, dopo secoli, resta a fondamento di molti aspetti del razzismo. Attribuire ad un gruppo di persone caratteristiche eccessive di bontà, schiettezza, semplicità significa distinguerlo dagli altri, isolarlo, stabilendo una frattura artificiale ed artificiosa di diversità. Bisogna quindi ribadire che i bambini sono persone nella pienezza dei diritti, e che il fatto che sia necessario gestirli in parte ed educarli non ci autorizza a pensare che non siamo tenuti ad un comportamento rispettoso nei loro confronti. Questo sebbene non ci si debba nascondere che esistono condizioni di dipendenza psico-fisica che non ci permettono di riprodurre tale e quale lo schema di comportamento relazionale al quale ci conformiamo nei rapporti con gli adulti. lo ho sempre guardato con molta diffidenza alla psichiatria infantile e alla psicoanalisi applicata all’infanzia. Contesto per esempio dal punto di vista scientifico, ma anche pedagogico e morale, tecniche come quella montessoriana che relega i bambini in universi particolari, dove tutto è a misura di gnomo, nell’illusione di riuscire così a stimolare artificialmente le loro facoltà sensoriali e mentali nell’impatto con modelli in scala. In questo modo i bambini non vengono preparati all’inserimento nel mondo quale è, ma in queste «case di tolleranza» gli educatori fingono un mondo compiacente, che finirà per indurre una sorta di delirio quando l’impatto con la realtà sarà non più procrastinabile. Nella mia esperienza clinica ritengo di aver rintracciato spesso in individui adulti, fortemente caratterizzati da disturbi di tipo narcisistico, o con sintomi di depressione grave, elementi patogeni derivanti inequivocabilmente da una educazione montessoriana. Io penso che i bambini debbano essere messi a confronto con il mondo degli adulti, debbano imparare a trovarvi il loro posto ed anche in parte a controllarlo. Indubbiamente bisogna porsi il problema di conoscere il bambino, rendersi conto di quanto la sua personalità sia condizionata dal momento evolutivo che sta attraversando e quanto invece egli sia costretto ad essere ciò che il gruppo sociale si aspetta che sia. Se mutano gli stimoli ambientali, mutano anche le personalità infantili che ci troviamo di fronte. Comunque non dobbiamo dimenticare che il bambino è la risultante di almeno tre componenti fondamentali che contribuiscono a costituirlo: l’ereditarietà istintuale e genetica, la storia individuale, i condizionamenti dell’inconscio sociale. Capire questo non vuol dire accettare acriticamente, ma significa anche porsi dialetticamente rispetto all’altro: confondere troppo l’io e il tu rischia di disorganizzare le strutture psichiche di chiunque e in special modo quelle in via di formazione. D’altra parte, finché siamo nel mondo e ci muoviamo accettando di ricevere ed inviare stimoli di qualunque genere, dobbiamo cercare di orientarci. Nei rapporti coi bambini, specialmente, bisognerebbe comunque sforzarsi di ridurre la prevaricazione; ma ciò non significa rifugiarsi in una neutralità indifferente, che è anch’essa dannosa. La mia è sempre un’esortazione all’equilibrio, sono però consapevole di quanto sia difficilmente raggiungibile. Il mio obiettivo è di dare alle persone strumenti per comprendere la situazione esistenziale e psichica dell’infanzia, per questo mi sforzo, insieme ai miei collaboratori, di mettere a punto metodi e strumenti utili all’intervento pedagogico e terapeutico. Allo stesso tempo mi sforzo di non enfatizzare troppo la particolarità della condizione infantile: il bambino non è un mostro né un «buon selvaggio» e se di lui si può anche dire con Sigmund Freud, che è un «perverso polimorfo», è tuttavia sbagliato permettere che una tale definizione lo imprigioni.
La psicoanalisi e la psicopedagogia dovrebbero insegnare che tutti gli esseri umani sono perversi polimorfi e molte delle licenziosità che vediamo agite dai bambini le ritroviamo non solo nelle fantasie, ma anche nel comportamento degli adulti, che solo a fatica però riescono ad ammetterlo.

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Ora voglio fare un’altra considerazione che solo apparentemente sembrerà allontanarsi dal discorso fin qui fatto. Spero che tutti quelli che affrontano i problemi connessi al disagio mentale grave siano ormai liberi dai luoghi comuni di un recente passato che vedeva nella follia una condizione di libertà creativa. La realtà della sofferenza dovrebbe averci tutti liberati da certe illusioni demagogiche e ingenuamente pseudo-poetiche: la malattia mentale è distruttiva ed impoverisce la creatività delle persone, che finiscono col subire una sorta di schiavitù senza speranza. Tempo fa parlavo con una persona che aveva conosciuto tale condizione da cui solo con lentezza era uscita, riappropriandosi di se stessa e del mondo, riacquisendo poi una sua capacità artistica di comunicazione, finalmente libera dalle angosce della pazzia. Nel corso della nostra conversazione la riudii pronunciare frasi piuttosto convenzionali, dalle quali sembrava trasparire una sorta di nostalgia per lo spunto creativo in condizioni particolari di follia, in aggiunta a considerazioni generiche sulla pazzia in generale, che non si può evitare, ma che non si vuole ammettere e via banalizzando. Mi infastidiva quel genere di chiacchiere e riuscii a riportare la conversazione su altri argomenti; ma con mio stupore, proprio quando io stesso mi ero scordato di quelle sciocche considerazioni, il mio interlocutore vi tornò sopra cambiando completamente tono: « La pazzia è terribile, mi costa fatica riconoscerlo, ma non vorrei mai più sentirmi espropriato come allora, per questo voglio scordarmene o illudermi che fosse diverso.» Dopo quella frase riprese a conversare come se niente fosse. Aveva cercato quasi con disperazione di salvare qualcosa di un’esperienza che gli era appartenuta; ma la ripetizione di quelle formule, abusate da una psichiatria falsamente liberatoria e stantia, ora non gli bastava più, le aveva sentite false nel momento stesso in cui le aveva pronunciate e un bisogno di sincerità lo aveva spinto a sconfessare se stesso. Sotto riuscivo a percepire la voglia di insistere e forse avrei dovuto avere il coraggio di aiutarlo a rendere esplicite riflessioni che lo tormentavano, ma era subentrato in me un pudore che voleva ad ogni costo rispettare quella che percepivo come una realtà troppo dolorosa per lui. Io spesso mi domando quanto i miei comportamenti siano condizionati da un atteggiamento terapeutico anche involontario, quanto sia ormai capace di reagire come un uomo qualunque; forse dovrei rassegnarmi a questo ruolo terapeutico che non mi abbandona più; per contro, allo stesso tempo, sono rassegnato ad essere personalmente partecipe delle storie terapeutiche in cui mi trovo coinvolto, incapace di un vero distacco «professionale».

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Dopo tanti anni dunque di frequentazione della follia e delle sue vittime, debbo dichiarare che poca poesia ho avuto modo di incontrare ed invece tanta disperazione.
Poesia è possibile trovarne in ogni situazione esistenziale, se qualcuno è disposto ad affrontare una realtà anche durissima con amore per gli altri e per sé; ma si tratta di ben altro che di quegli stereotipi ripetuti e violenti che l’inconscio sociale impone a chi incarna il ruolo del pazzo. Stereotipati sono anche i moduli della follia: quasi sempre prevale la fantasia delirante di organizzazioni segrete di controllo, che impongono gesti o inviano messaggi, voci che incitano alla violenza contro se stessi o contro altri; poi anche strani rapporti con divinità onnipotenti. Deliranti ossessioni di trame di tutti contro tutti, con intervento di apparecchiature di controllo e trasmissione del pensiero, che avvolgono l’io annichilendolo. Solo raramente si esce da questi moduli e quando ciò avviene il rischio è di restare troppo facilmente affascinati da un genere di delirio che colpisce per la sua singolarità ed insinua il dubbio. Quello che voglio dire è che la follia molto spesso è il sintomo di una degenerazione che colpisce, appiattendole, realtà drammatiche anche molto ricche e spesso il dubbio viene se giudicare quella ricchezza emozionale già un sintomo della malattia o riconoscerla invece come l’ultimo tentativo di ribellarsi al male. Di fatto bisogna avere il coraggio di affrontare il delirio senza compiacimenti intellettualistici e capire bene quando la gabbia del narcisismo e del sado-masochismo sovrapposti si è chiusa imprigionando una mente che non è più libera.

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A questo punto vorrei unire i due discorsi fin qui condotti, affrontando il problema del disagio mentale grave nel bambino.
Un tempo si tentava di negare l’ipotesi nosografica di una vera e propria follia in soggetti molto giovani; si preferiva dire che non era possibile affermarlo con sicurezza o che era troppo difficile formulare diagnosi precise. Il bambino sembrava ancora troppo immerso nella sfera dell’inconscio e si insinuava che con facilità fosse possibile ingannarsi, ritenendo manifestazioni psicotiche quei comportamenti che invece sarebbero da attribuire allo sforzo di adattamento del bambino all’ambiente e ai suoi tentativi di appropriarsene.

Alcuni ricercatori hanno tentato di distinguere le anomalie di origine neurologica, oggettivamente riscontrabili, dal disagio psichico vero e proprio, difficilmente isolabile dal contesto comportamentale ed ambientale. Partendo poi dallo studio dell’autismo infantile, riscontrabile spesso in forme gravi e distruttive, quella prima distinzione perse di significato. Certo, i tipi di disagio sono diversi ed anche nel bambino ci sono quelle patologie che riguardano più da vicino l’aspetto organicistico e quelle che sembrano più di ordine psichico o mentale che dir si voglia. Queste ultime si sono venute però sempre più evidenziando per la loro gravità. Si sono impegnati nel tentativo di lettura e spiegazione in particolare quei teorici delle fasi dello sviluppo, tentando di stabilire un rapporto tra l’età e i comportamenti adeguati in mancanza dei quali si può parlare di disturbo patologico. Sappiamo bene che i bambini, come gli adulti, sono in parte anche un’invenzione del gruppo sociale, per cui il loro comportamento deve di fatto corrispondere alle aspettative della società in cui crescono e se non ci riescono vengono in qualche modo considerati malati. Si è tentato di allontanare il problema della malattia mentale infantile parlando di disturbi del carattere, di disadattamento; ma questo non è bastato a spiegare scompensi gravissimi e deliri irreversibili. Purtroppo la psicologia evolutiva, filo genetica od epigenetica, con il suo bisogno di fissare percorsi, predeterminare tappe e stabilire compiti, costruire schemi e compilare tabelle ha finito col danneggiare i bambini. Soprattutto la diffusione indiscriminata dei test ha intorpidito la mente di pedagoghi e psicologi, troppo facilmente alla ricerca di risposte standardizzabili e decodificabili in base a parametri preordinati. I disastri provocati sono stati tanti, principalmente a causa dei madornali errori diagnostici, ma non si è trovata finora una valida alternativa. L’unica possibilità mi pare sia quella di diminuire l’importanza dei test, limitandosi a prenderli in considerazione per un loro valore orientativo di massima ed insistendo invece sull’ osservazione diretta, sforzandosi di capire «sul campo» la sostanza di fenomeni troppo complessi e specifici per essere generalizzati in schemi. Galileo diceva che gli aristotelici del suo tempo vivevano in un mondo di carta ed erano incapaci di affrontare direttamente la realtà. Lo stesso vale oggi per molti psicologi sperimentali che restano prigionieri di un mondo di carta, indifferenti alla realtà vitale e continuamente mutante in mezzo alla quale vivono. Oggi il bambino e l’adolescente non sono più solo le astrazioni descritte nei trattati e nemmeno invenzioni poetiche, ma esseri umani che da poco si sono affacciati in questo complesso mondo. La psicoanalisi, che tanta importanza ha dato all’infanzia e in particolare alla primissima infanzia, si è poi trovata, malgrado tutto, molto a disagio quando ha dovuto affrontare metapsicologicamente e terapeuticamente i problemi infantili. Melanie Klein e Anna Preud hanno però aperto una strada quanto mai ricca di prospettive per il lavoro successivo, proprio col coraggio dimostrato nell’affrontare direttamente la psiche del bambino; facendo uso di grandi capacità intuitive e molto deducendo dal comportamento degli adulti. Anche grazie a loro la follia dei bambini si è rivelata come un fenomeno grave e non più trascurabile.

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Ho detto che le vittime adulte della follia subiscono anche le conseguenze di un impoverimento spirituale che le priva di creatività e di poesia, facendole sprofondare nell’ovvietà e nella banalità degli stereotipi più squallidi. Ho anche sostenuto che, nonostante si debbano prendere tutte le cautele necessarie, non è più negabile l’ipotesi della follia infantile. A questo punto mi trovo nella necessità di aggiungere qualcosa che mi turba ed anche mi disturba: nella mia lunghissima pratica terapeutica diretta o di supervisione, mi sono trovato ad affrontare più volte casi di analisi con bambini ed adolescenti; eppure debbo riconoscere, con mio stupore, che quasi mai in tutti questi casi ho ritrovato la squallida banalità acquiescente che ho invece riscontrato quasi sempre nel trattamento degli adulti. Per quanto grave fosse il disturbo, di allucinazioni, delirio ed impulsi aggressivi ed autodistruttivi, per quanto rigida fosse la sovrapposizione delle difese narcisistiche e sadomasochistiche, pur tuttavia ho quasi sempre dovuto rilevare il permanere di una ricchezza di fantasia interiore, spesso poetica ed originale. Questo malgrado la sofferenza di creature che vivono immerse in condizioni di angoscia indescrivibile, che appena riescono ad esprimere, più o meno indirettamente, nei sogni, nei giochi, nei disegni.

Mi sono posto la domanda se nel bambino la follia non sia così distruttiva come nell’adulto e se in questo caso si possa ancora legittimamente parlare di follia; ma subito dopo mi sono chiesto se diversificare così tanto la nosografia infantile da quella dell’età adulta non significhi nuovamente differenziare troppo il bambino dall’uomo, ghettizzandolo un’altra volta.

Da una parte mi pare di osservare che la perdita del senso di realtà e la sofferenza siano innegabilmente sintomi patologici che hanno la stessa sostanza in bambini ed adulti; ma d’altra parte non posso negare una specificità della follia infantile, che mi pone interrogativi metodologici, nella teoria e nella prassi terapeutica, quasi irrisolvibili.

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Una bambina di cinque anni, travolta da un’angoscia straziante, risucchiata in un mondo fantastico di morte e di paura, racconta i suoi sogni e i suoi deliri al terapeuta, con una ricchezza di linguaggio che evita ogni stereotipia. Disegna un giorno su di un foglio di carta quelli che per lei sono i mondi: disegna sul foglio in alto la casa del cielo, al centro la casa dei morti ed in basso la casa delle tende e dei rifiuti. Il terapeuta prende quel foglio e continua per un anno il suo lavoro con la bambina, finché un giorno la bambina ripete il suo gioco: disegna ora sul foglio di carta una geografia mutata: in alto c’è il mondo degli uomini a fianco di quello dei bambini, in basso si affiancano il mondo delle donne e quello delle vocali. Ora la bambina che gli sta di fronte è più serena, i fantasmi peggiori sono scomparsi dalle sue fantasie e dai suoi disegni, la guarigione sembra possibile e allo stesso tempo ci si può rallegrare perché la piccola non ha mai perso la sua capacità poetica.

Un adolescente tormentato da rimorsi e da meccanismi autopunitivi rifiuta poco a poco di mangiare, fino a ridursi al digiuno quasi assoluto. Quel poco cibo che assume ritiene di doverlo «bruciare» subito imponendosi sforzi fisici assurdi, come l’autoimporsi di restare sempre in piedi, senza sedersi o sdraiarsi. Progressivamente si immerge sempre più in un mondo parascientifico in cui trova posto solo un interesse compulsivo per la fisica e l’astronomia, con un rifiuto sempre più evidente di quello che potremmo chiamare il mondo di questa terra. Lentamente si avvolge anche in un linguaggio stereotipato che usa solo termini presi dai testi in cui vive immerso. La fissazione per il cielo e per le stelle diviene sempre più totale ed egli passa notti intere a esplorare il cielo fantasticando di arrivare fin lassù dove gli avevano detto, quando era piccolo, che era finito il nonno morto. Piano, piano il terapeuta lo segue per lunghi giorni, fino a quando un giorno, trasalendo suo malgrado, lo vede sedersi.

Un bambino di sei anni di origine greca incomincia a sviluppare uno strano delirio: confusione tra l’io e il tu, tra il maschio e la femmina. Sembra vittima di una ripetizione coatta di gesti e parole dissennate; ma piano, piano si vede delinearsi una vera e propria mitologia, che egli va rappresentando: parla di Dèi, di miti che ripesca in profondità ignote, ma che riesce a rappresentarsi con impressionante coerenza: il mito dell’androgino e poi quello del maschio e della femmina originari. La sua terapeuta ed io ripercorriamo in supervisione i passaggi di quel percorso rabbrividendo: trovo la conferma di quanto vado teorizzando da anni, la storia che racconta è quella che io stesso cerco di raccontare, ma quanta poesia nelle sue parole! Ora egli sta uscendo da quella sorta di «selva oscura» ed io temo per quel che avverrà della sua ricchezza spirituale a contatto con le banalità della vita «normale» che noi gli proponiamo. E’ giusto cercare di guarire questi ragazzi, perché niente giustifica la sofferenza che provano nel delirio da cui sono avvolti, ma quanto è importante che concediamo loro il rispetto e l’amore a cui hanno diritto, nel tentativo di restituirli sani, ma non vinti al loro futuro.


Leggendo le righe che ho appena scritto mi ribello a me stesso: non voglio distinguere così tanto il mondo dei piccoli da quello dei grandi. Non voglio dire che il loro è migliore del nostro, violento e meschino. Ci sono ancora troppe cose che devo spiegarmi, con l’aiuto della scienza o della poesia; ma la spiegazione non deve coincidere con la tesi che il bambino è un buon selvaggio.
I casi che ho descritto, senza affrontarli tecnicamente con gli strumenti della mia scienza psicoanalitica, sono solo il resoconto di tre diverse storie esistenziali colte ai loro esordi, che io e chi lavora con me abbiamo trovato poeticamente significative. Quello che vorrei riuscire a far percepire è la loro poeticità senza stereotipi, la rivelazione di linguaggi ricchi di neologismi, la complessità dei giochi costruiti nelle stanze della terapia. Io ho provato a far giocare pazienti adulti molto disturbati, mettendo a loro disposizione ogni sorta di strumenti: non hanno rifiutato il gioco, ma in esso hanno ossessivamente ripetuto pochi gesti senza fantasia, riferiti soltanto al loro delirio, in una noia che mi ha disgustato prima ancora di disgustarli. I più non hanno accettato di disegnare e quando lo hanno fatto i risultati grafici si sono rivelati minimi, con una dimostrazione paurosa di povertà ideativa. Io sostengo che l’arte non è mai espressione di follia: un pazzo può comporre una musica o dipingere un quadro o scrivere una poesia, ma se le opere sono valide significa che le ha prodotte in una pausa del male, sono cioè il segno di quanto di sano ancora è celato in lui. Per Lucrezio si è parlato di intervallum insaniae lo stesso vale per tutti gli altri pazzi che creano capolavori artistici: nel momento in cui il male recede, ecco che lo spirito dell’uomo torna a rivelarsi capace di comunicare.
Completamente diverso sembra essere invece il processo nei bambini, come se nella loro follia continuasse a vivere una quantità massiccia di quella poesia che è salute.

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Aveva sette anni, era un bel maschietto, biondo, dal bel corpo e due occhi che inquietavano, lo avevano diagnosticato autistico: passava il suo tempo sdraiato a manipolarsi i genitali o ripetendo sempre gli stessi cinque gesti: batteva la testa contro il muro, grattava il pavimento con le unghie, mordeva quello che arrivava a tiro, uomini o cose, ciondolava la testa in gesto di diniego e si tappava le orecchie. Fu difficilissimo entrare in contatto con lui: passava per lo più il tempo della «seduta» sdraiato sul materasso, con le mani nei calzoncini o ripeteva uno dei suoi gesti; una volta restò sul muro una macchia di sangue, il terapeuta non era riuscito a trattenerlo e lui si era scaraventato contro la parete nel disperato tentativo di trovare finalmente se stesso. Non parlava e non rispondeva alle domande, a casa mangiava con voracità e, a detta dei genitori, anche con gusto; sembrava non interessarsi a nulla. Se il terapeuta cercava di toccarlo gli azzannava la mano fino a fargli male. Gli occhi restavano vividi e mobilissimi, allora il terapeuta incominciò a seguire quello sguardo parlandogli nello stesso tempo, dicendogli che c’erano gli altri e che c’era anche lui, lo sguardo del bambino errava all’intorno ed una volta parve fissare un po’ più insistentemente del solito la porta della stanza; dopo un poco fu chiaro che il suo sguardo ritornava con insistenza sempre verso la porta. Un giorno il terapeuta prese una decisione repentina e si alzò, lo prese per mano, apri la porta e gli disse: «Vuoi fare una passeggiata con me?» Il bambino accennò col capo di sì e i due andarono nel giardino. Di lì si può dire sia iniziato un lungo e lento processo di guarigione.

9

Anche questa volta non voglio parlare delle interpretazioni che tentammo di elaborare sul caso: perché anche questa volta vorrei mettere in evidenza la particolarità dei comportamenti e delle fantasie infantili. Mi si potrebbe far ammettere a questo punto che secondo me l’unico tipo di follia infantile è l’ autismo, perché ogni volta si riproduce quello che è lo schema della pazzia nell’adulto: schematicità, ripetitività, rifiuto della comunicazione e del contatto con l’altro, distruttività e autodistruttività. Eppure non sono convinto che sia proprio così: l’autismo non è l’unica forma di follia del bambino. Ci sono altre manifestazioni in cui è evidente la sovrapposizione delle difese narcisistiche e sadomasochistiche; altri tipi di allucinazioni, deliri e soprattutto angosce. Forme in cui il mondo non è solo negato, ma talvolta percepito fantasticamente attraverso la sovrapposizione dei tempi e dei luoghi, mentre si corrode il ritmo ordinato del fluire della vita e delle percezioni, in un crescendo di disperazione. La diversità tra la follia dei bambini e quella degli adulti deriva forse in parte anche dal nostro modo di leggere l’infanzia, forse nei confronti dei bambini siamo meno pronti a cogliere gli stereotipi che non perdoniamo agli adulti, perché nella nostra idea di bambino è insita la voglia di vederli migliori di noi. Forse potrei aggiungere che i bambini sono a contatto più diretto con l’inconscio e ne serbano la grande ricchezza, la loro contiguità maggiore della nostra con l’inconscio sociale del passato che ancora riverbera su di loro esperienze remote che nell’ età adulta svaniscono per il bisogno di appropriarsi del presente. Potrei dire ancora che i meccanismi istintuali del bambino sono più mobili, meno irrigiditi dall’educazione, che permane in lui la capacità acquisita nella vita intrauterina di una grande facilità di scambio tra l’io e il tu. Le ipotesi insomma potrebbero essere molte, l’importante è stare attenti a non distruggere la grande ricchezza poetica dell’età infantile, accompagnando verso la guarigione senza forzare verso una normalità acquiescente e qualunquistica, senza perdere la grande ricchezza fantastica che la caratterizza. Guarire non deve mai essere banalizzare.