Il mio incontro con: il Teatro

Il mio incontro con: il Teatro

Anche per il teatro, la mia “vocazione” risale ai tempi dell’infanzia, quando, con i miei amichetti, soprattutto d’estate, in campagna o al mare ci dedicavamo ai soliti giochi e a quello – orribile – della guerra. Io mettevo in testa il berretto di mio padre, ufficiale dell’esercito regio e brandivo la sua spada pesantissima: l’uno mi stava larghissimo e l’altra la reggevo a stento e facevo il capo. I miei compagni di gioco si ribellavano a questa mia pretesa di voler sempre comandare. Altre volte costruivamo capanne per giocare alla famiglia, insieme con le bambine per fare marito e moglie. Giocando, i bambini fanno teatro ed alcuni di loro sono destinati a non smettere mai, di recitare come di giocare. Il mio piacere segreto era però di farmi prestare dalle mie amiche le loro bambole e bambolotti coi quali mi andavo a nascondere in fondo al granaio o nella pineta dietro la spiaggia.

Da solo iniziavo il mio rituale, incomprensibile agli altri bambini e bambine, abituati ai gesti consueti della pappa, della pipì o del dottore; io, invece addobbavo le bambole con pezzi di stoffa colorati e di una facevo un re, dell’altra un arcivescovo, una regina…….con cui inscenavo, a mio esclusivo uso e consumo, vere e proprie rappresentazioni. Mi vergognavo di doverlo fare con le bambole e con oggetti che rubacchiavo in casa: seggioline e piattini, cappellini e veli, sciarpe e bigiotteria con cui costruivo scene, con l’aiuto anche dell’ago e delle forbici di mia madre e di mia nonna, alquanto perplesse nel vedere sorgere, palazzi ed armature, strascichi e tendaggi tra cui mi muovevo coi miei personaggi, declamando testi improbabili, con un’aria un po’ delirante. Le avventure che costruivo erano sempre più complesse ed anche inquietanti, tanto che, qualche volta, mi spaventavo da solo.

2. Più tardi scoprii i teatrini e le marionette in vendita nei negozi di giocattoli: tutto un mondo era lì a portata di mano. I pezzi che mi servivano li compravo o me li facevo regalare e immagazzinavo così un trovarobato in cui c’era di tutto anche se eterogeneo: piccolissimi mobili e bambole giganti, pupazzi e marionette, burattini di legno e statue da presepio ed era sempre più complicato mettere le cose in relazione tra loro, per cui anche le storie erano sempre più stravaganti.

Poi incominciai ad aggiungere alle storie le musiche, la prima fu quella della principessa Fior di Loto, ed ancora oggi mi ritrovo a canticchiarla ed accennarla sui tasti del pianoforte con un po’ di commozione: ” Piccola Fior di Loto, piccolo fior……piccolo cuor che piangi chiuso laggiù, il tuo castello rosa vuoi riveder, sotto quel sol, presso quel mar….” parole più che ingenue, ma che conservano un significato chiuso in una malinconica melodia in la minore.

3. Credendo di farmi piacere, i miei genitori un giorno mi regalarono il “meccano”: uno scatolone pieno di pezzi di lamiera verdastra, bucherellati, con un corredo di bulloni e rotelline coi quali era possibile costruire meccanismi e macchine ed io ne avevo orrore: mi parevano così mostruosi che finii per usarli nel mio teatro per montare prigioni e macchine di tortura; preferivo invece le costruzioni di legno colorate che mi servivano a costruire palazzi e scaloni, balconi e sale da ballo su cui facevo agire i miei personaggi, silenziosi, ma pieni delle parole che io mi raccontavo. Inventavo e disegnavo storie strampalate dove tutto era mescolato: principesse e animali feroci, saladini e moschettieri, re e marziani, serpenti e ballerine, avanti e indietro per improbabili scenografie traballanti.

4. Più grandicello, ebbi il coraggio e anche l’autorità necessari a coinvolgere i miei compagni di gioco nel ruolo di attori: gli uni più riluttanti gli altri entusiasti, qualcuno con secondi fini, per approfittare dei momenti in cui mettere e togliersi i costumi significava dare un’occhiata e magari sfiorare maliziosamente i corpi degli amici e delle amiche. Si scambiavano risa imbarazzate e maliziose, che mi lasciavano indifferente, tutto preso com’ero a far loro imparare le battute. C’era anche chi prendeva il gioco molto sul serio: una ragazzina un giorno scoppiò in un pianto disperato perché le avevo assegnato una parte troppo triste. Era il mio modo di esercitare il potere sulle persone, oltre che sui personaggi e sugli oggetti, che potevo obbligare a piegarsi ai miei capricci. Forse ancora oggi raccontare storie e rappresentarle sulla scena è un modo di esprimere la volontà di controllare l’andamento delle cose e del mondo, sfuggendo alla realtà, come è possibile, qualche volta, soltanto in sogno e nel teatro.