79 & 80 – Gennaio ‘92

gennaio , 1992

A coloro che, con frettoloso fastidio, liquidano il giudizio sulle posizioni filosofiche e politiche del pensiero gindriano, qualificandole come espressione di «catto comunismo» (brutta sintesi di cattolicesimo comunista), sfugge forse l’altra caratteristica dell’atteggiamento gindriano in ogni campo: la sua marginalità. Non siamo mai stati esaltatori compiaciuti di alcun tipo di auto-emarginazione, anche perché consapevoli di quanto spesso sia indice di impotenza; ma allo stesso tempo abbiamo sempre perseguito con lucidità il rifiuto di essere organici ai partiti politici e ai sistemi culturali. La marginalità che ne consegue non è quindi né totalmente perseguita, né completamente rinnegata. Una marginalità che pur non esaltando come valore assoluto ci sentiamo tuttavia responsabilmente di rivendicare tra le nostre caratteristiche. In particolare, il pensiero gindriano ha sempre rifiutato il riduttivismo materialista del comunismo ed è clamorosamente eccentrico rispetto alla morale cattolica del negativismo sessuale. Quest’ultima considerazione diventa particolarmente ingombrante se si pensa che alla base del pensiero gindriano, come alla base della dottrina evangelica, sta il concetto di amore. Se l’amore cristiano si esprime però traducendosi universalisticamente in carità, quello gindriano invoca, al contrario, un Eros reintegrato altrettanto universalisticamente nel suo diritto al piacere sessuale. A questo punto è necessario dichiarare che l’accettazione razionale che, in ultima analisi, Eros sia il solo principio della vita e la sua ricerca l’unica modalità accettabile di realizzazione dell’esistente non è riuscita a liberare l’uomo dall’ipoteca di un assurdo che tutti ci sovrasta e ci opprime, lasciandoci prede di un panico tanto più distruttivo quanto più ineludibile. Almeno così viene da pensare riflettendo sul destino dell’uomo. Infatti il risultato di una simile riflessione non può che essere il ritrovamento della sola fine certa per ogni essere vivente. «Vivere per la morte» però è solo una formula filosofica che non libera dalla disperazione.

Più consolatoria, almeno a prima vista, può sembrare la scelta di vivere in attesa di un ‘altra vita, confortata, quella, dal requisito dell’eternità. Così che anche l’amore per assolvere appieno la sua funzione deve trovare la capacità di proiettarsi oltre il limite di una vita mortale. Il binomio di Eros e Thanatos può così acquisire un nuovo significato: l’amore, che è la condizione necessaria di ogni vita possibile, supera la sua inevitabile sconfitta ponendo il suo oggetto nel regno della assoluta certezza. A questo punto basterà il delirio della possibilità assoluta a liberare l’uomo dal panico dell’assurdo? Le religioni del mondo hanno fatto del delirio della trascendenza la forza vincente contro la morte. Il panico al contrario è il segno palese della sconfitta della ragione. Sta forse qui la spiegazione del dissidio pressoché universale tra religioni e sessualità? O la sessualità stessa non è compatibile tanto con la natura di Eros, quanto con quella di Thanatos? Lo psicoanalista perde la sfida col prete?

Entrambi hanno creduto di riconoscere nell’amore l’ineliminabile bisogno di tutto ciò che vuole vivere; ma l’amore per la persona finita e la soddisfazione della pulsione sessuale sono destinati allo scacco. Innanzi tutto perché non vanno oltre la soglia, e poi perché l’atto sessuale è la ripetuta parodia della morte stessa. Così amare la morte, camuffata da vita eterna, può diventare il delirio che ci libera dal panico al quale l’assurdità dell’esistere ci condanna?