Psicoanalisi contro n. 81 – Telefoni azzurri

gennaio , 1992

In questo mondo l’equilibrio, psichico e fisico, è quanto mai instabile. E difficile capire e farsi capire.
La coscienza è una debole fiammella, continuamente traballante e tutt’attorno vi sono le tenebre dell’inconscio. Potremmo però anche provare a capovolgere l’immagine consueta ed affermare che la coscienza umana è costituita dalle tenebre; poiché la consapevolezza non è in realtà che «razionalizzazione», cioè stravolgimento delle reali motivazioni che sottostanno all’agire dell’uomo e solo nell’inconscio può in realtà esservi un po’ di luce.
Questo vale anche per la cosiddetta omeostasi. L’organismo umano è sempre in bilico e la disgregazione incomincia fin dai primi palpiti del feto. Tutti, e su questo «tutti» voglio attirare l’attenzione, siamo perennemente in procinto di annegare; per cui ci aggrappiamo a non importa cosa, con il rischio quindi anche di travolgere chi ci si fosse avvicinato per recarci soccorso.
Per un verso, io sono affascinato dalla natura e anche dagli esseri umani. I fiori, gli animali, gli uomini raccontano perennemente una bella favola, che è sempre interessante da ascoltare e da raccontare.
Per un altro verso, io ho però pochissima stima dei miei simili e quindi forse anche di me stesso, sebbene di quest’ultima cosa sia poco convinto.
Quasi tutti mi sembrano inconsapevoli ed inetti, vigliacchi e violenti, ottusi ed incapaci, ferocemente aggrappati al proprio egoismo. Io vorrei non essere così, ma non ne sono sicuro.

2

Tutti siamo molto attaccati alla nostra parte di potere, nelle istituzioni, nei gruppi politici e religiosi, nella scuola e nella famiglia. Individui potenti sono esibiti sulle pagine dei rotocalchi e dei quotidiani, parlano attraverso i mezzi di comunicazione radio televisivi, presiedono assemblee che hanno peso decisionale sul resto della società.
Riescono persino ad avere la capacità di intervenire a favore di amici e clienti. Il peso del potere logora, ma anche la frustrazione di chi non ha poteri si rivela distruttiva. Chi ha tanto desiderato raggiungerlo senza esserci riuscito, si trova spesso a condurre una vita meschina e rabbiosa ed ugualmente tenta di opprimere chi percepisce come meno potente di lui. Forse nessun essere umano è completamente privo di qualche forma di potere. Ha un suo potere reale, psicologico ed economico, la madre di famiglia che castra il marito e i figli e gestisce il bilancio famigliare, impone i rituali della vita quotidiana fatti di orari e di abitudini. Ha un suo potere il portiere del caseggiato che misura la propria forza imponendo controlli e negando collaborazioni con arroganza e vigliaccheria, camuffando quelli che sono arbitrari gesti di violenza con l’attaccamento ai doveri di custode di una convivenza condominiale. Il giovane disoccupato straniero esercita il suo potere sul timido automobilista, aggredendolo al semaforo ed imponendogli il suo servizio di lava-vetri o di venditore abusivo. Ha potere la puericultrice religiosa o laica che si occupa dei bambini lasciati negli asili nido e lo ha la maestra di scuola materna ed elementare. Hanno un loro potere le prostitute. Ha un potere talvolta smisurato il compagno di banco. Anche i più queruli e sprovveduti personaggi che si dichiarano assolutamente impotenti hanno in effetti qualche forma di potere da esercitare nel rapporto con gli altri, e lo sanno fare con tenacia e spietatezza. Si riesce sempre a trovare una forma di potere da esercitare sugli altri e non si presta attenzione sufficiente a quell’unica forma non negativa che è il potere che si può avere su se stessi. Ma quale significato può avere saper coordinare pensieri e gesti se non si può poi proiettarli sugli altri, nel mondo circostante? Ciascuno tenta di trovare il modo di esercitare la sua influenza, di manipolare i suoi simili.

3

Quella che ho descritto sembrerebbe una situazione catastrofica, ma io penso che sia utile essere consapevoli che il bisogno di potere è ineliminabile in qualunque forma di rapporto interpersonale nel mondo: anzi, l’inconsapevolezza spesso permette di non prendere coscienza di comportamenti veramente delittuosi.
I genitori hanno un grande potere sui figli (ovviamente so benissimo che questi ultimi hanno a loro volta un potere enorme sui genitori di cui diventano veri e propri tiranni), tanto che spesso soffoca il rapporto d’amore che dovrebbe essere alla base del nucleo intimo della famiglia. Si sa che i genitori giustificano quasi tutto con l’insopportabile intercalare, rivolto al figlio o alla figlia di turno: «Lo facciamo per il tuo bene!» Almeno i figli hanno il pregio di non usare così spesso un’espressione del genere; forse non perché siano migliori, ma perché l’inconscio sociale non ha ancora loro trasmesso l’obbligo di ricorrere ad una simile forma di ipocrisia. «Per il tuo bene» è dunque lecito anche il delitto, sono certo lecite le violenze.
Non voglio. affrontare qui il problema delle aggressioni fisiche e criminali sui minori, né riferirmi ad altre forme di sopraffazione, anche psicologica, violente che sono così macroscopiche da essere condannate persino dal giudizio comune. Vorrei invece parlare di una forma particolare di violenza esercitata dai genitori che per qualche ragione ritengono opportuno portare dal terapeuta figli anche non piccolissimi i quali sarebbero comunque in grado di avere con lui un rapporto diretto. In genere i genitori si impongono, entrando d’autorità nello studio in cui si tiene il colloquio, invadendolo con la loro presenza; prevaricando il bambino, parlando in sua vece.
Quasi sempre il bambino ha immediatamente una reazione compiaciuta vedendo il terapeuta, che egli non aveva deciso in alcun modo di consultare, vittimizzato dai genitori. Se poi il malcapitato prova a chiedere di essere lasciato solo a colloquio col ragazzino, i due con aria altezzosa obbediscono, esagerando nel con tempo un atteggiamento di grande disapprovazione, quasi chiedendo al figlio di trattenerli; in effetti molto spesso in precedenza lo si è già intimidito o addirittura spaventato all’idea di quello che potrebbe capitargli a quattr’occhi col «dottore». Questo provoca nei più giovani un grande disorientamento che spesso si traduce in un pianto vero e proprio, in singhiozzi ed invocazione dei genitori, nel tentativo di raggiungerli. Il bambino sa che è oppresso, ma sa anche che gli è stato vietato di avere autonomamente rapporto con quel nuovo personaggio che vede per la prima volta, benevolo ma anche terrifico. La coppia in genere rientra soddisfatta, con l’aria di quelli che l’avevano detto che il bambino non avrebbe accettato di restare solo con un estraneo.
Hanno portato lì il loro figlio anche per affrontare queste sue paure, perché è troppo insicuro, ha troppo bisogno di loro, li cerca continuamente, anche di notte: quando si sveglia bisogna lasciarlo entrare nel letto di mamma e papà. Li si vede, trionfanti, all’ennesima dimostrazione che il figlio è loro e vuole solo loro. Lo hanno portato dallo psicologo, per zittire ogni rimorso, ma lo sanno bene che il bambino non vuole. A questo punto – quando simili cose accadono – io mi chiedo chi sia più malato, se il figlio o i genitori, così angosciati dall’ipotesi che qualcuno possa sottrarre anche in piccola parte il figlio al loro potere assoluto.
La consapevolezza di avere potere sugli altri, la capacità di gestirlo, non deve necessariamente risolversi in un sentimento perverso, ma può dare anche sicurezza. Può essere una conferma dell’utilità del proprio ruolo sociale, il segno di una disponibilità e di una possibilità di orientamento nel mondo e nei rapporti con gli altri.

4

Il parassitismo psichico è un fenomeno molto frequente tra i componenti dei gruppi di vario genere e delle stesse famiglie.
Quando all’interno di uno di questi nuclei più o meno ristretti si verifica un caso grave di disturbo psichico, tutti gli altri componenti ristrutturano i loro rapporti e le loro funzioni, elaborando quello che si potrebbe definire un vero e proprio riassestamento del campo delle relazioni reciproche. In questo riassestamento acquisisce un ruolo di nuovo potere il malato, che sfocia in una sua grande capacità di ricatto che ha facile presa sugli altri, quasi sempre prigionieri di rimorsi più o meno fondati, che li trasformano in vittime acquiescenti di una sorta di tirannia della sofferenza, contraria ad ogni buon senso ed incurante di qualsiasi principio di giustizia.
Lo stesso meccanismo si mette in atto sia con il «drogato» sia con lo «psicotico» e la spirale dei ricatti diventa inarrestabile.
Trovare il punto giusto di equilibrio tra la comprensione e il rifiuto di un’acquiescenza incondizionata è molto difficile e richiede comunque un solidità psichica ed una padronanza dei sentimenti d’amore per chi dalla profondità del proprio disagio ci chiede aiuto. L’amore di per sé non è il miglior consigliere, soprattutto se è insidiato da un vittimismo autodistruttivo che esalta i deliri di potenza di chi ci ricatta, chiedendo in nome della sua condizione di «malato». Conosco persone che si sono dedicate, con abnegazione eroica, ad un figlio, un congiunto, un amico sofferenti per una malattia o per una dipendenza più o meno assoluta da sostanze tossiche. Sono persone che hanno sostenuto lotte accanite, coraggiosamente, contro difficoltà addirittura insormontabili, spesso senza riuscire a ottenere veri risultati, ma che qualche volta hanno vinto. Ebbene quasi sempre quando l’obiettivo viene raggiunto, improvvisamente, queste robustissime tempre abituate alla lotta si afflosciano inerti di fronte alla constatazione che la persona per cui hanno lottato ha ora trovato un suo punto di equilibrio. Il contraccolpo è così grande che spesso cadono essi stessi vittime di un disagio. Questo perché hanno l’impressione che la vittoria sia stata ottenuta non da loro, ma dall’intervento di una situazione o di persone esterne; oppure perché tutto d’un colpo si sentono invadere dalla rabbia per aver accettato per anni umiliazioni e sofferenze che hanno compromesso la loro stessa dignità; o anche perché non sono più in grado di riassestarsi in un nuovo equilibrio: prima la loro vita esauriva il suo senso in quella lotta, ora non c’è più la ragione per lottare.

5

Quando in una famiglia, i parenti, ma soprattutto i genitori, vedono che il bambino o il figlio adolescente, psichicamente o fisicamente colpito da una malattia, guarisce si sentono invasi da una grande depressione, o da un’immotivata irritazione.
L’ambiente famigliare si trasforma in un crogiolo di accuse contro chi è guarito e contro tutti gli altri, in un tentativo di reciproca condanna. Prima la lotta li aveva tenuti uniti, dopo sono incapaci di adattarsi alla nuova situazione che si è venuta a creare. Qualche volta accade persino che gli stessi genitori cerchino più o meno inconsapevolmente di far regredire il figlio alla vecchia situazione di malattia. Ovviamente gli equilibri famigliari costruiti attorno ad una situazione patologica sono gli equilibri di persone malate. E un po’ come in certi problemini di aritmetica elementare: non importa se la malattia è divisa in parti tra i vari membri della famiglia oppure concentrata su di uno solo, ma la quantità di malattia deve rimanere uguale. La sofferenza in sé stessa non è mai desiderata, ma quando non si riesce ad uscire dal perverso gioco della malattia si è tentati di trasformare il dolore che procura in un malvagio piacere.

6

Di queste situazioni deve essere sempre consapevole il terapeuta, soprattutto quando ha il delicato compito di avere in cura bambini e bambine sui quali il potere di gestione dei genitori e delle famiglie è grandissimo. Le ingerenze nella terapia con gli adulti, di famigliari, amici, coniugi od amanti pur essendo massiccie e distruttive (ho già detto spesso e non mi stancherò di ripetere quanto trovi riprovevole la determinazione con cui cinicamente si tenta di far crollare in chi si dice di amare la fiducia nel terapeuta che in quel momento dovrebbe invece rappresentare un punto di riferimento, un alleato nella lotta contro la sofferenza, causando veri e propri disastri e spesso facendo ripiombare la situazione clinica agli stadi più gravi); ma sono in qualche modo meno gravi che le ingerenze nella cura dei bambini, anche perché gli adulti hanno spesso la possibilità di recuperare autonome decisioni o di opporsi su di un piano paritetico ai tentativi di sopraffazione, magari con l’aiuto del terapeuta. Per lo psicoterapeuta infantile l’ingerenza dei famigliari nella terapia è un fatto generalizzato ed inevitabile.
Contrastarla con troppa decisione è rischioso, perché può esasperare l’opposizione dei genitori ed indurli a troncare il rapporto terapeutico. Del resto è molto faticoso sostenere l’intrusione di persone che ad ogni fase critica della cura, ad ogni accentuazione di un sintomo, intervengono pesantemente criticando il metodo e mettendo in questione il significato di quel particolare tipo di cura che è la psicoterapia.

7

Io cerco di rendere pubbliche più che posso queste mie riflessioni e non mi stanco di ripetermi, nella speranza che servano a far comprendere a qualche genitore, a qualche parente di piccoli pazienti, la grave responsabilità che si assumono nei confronti di questi soggetti particolarmente indifesi e più vittime di altri dell’inconsapevolezza aggressiva che compromette il loro diritto alla salute.
La cultura della nostra società e le leggi che ci governano danno ai genitori molto potere sui figli, finché sono «minori». Io penso che questo principio non sia molto giusto e mi compiaccio nel vedere che fortunatamente, seppure con lentezza, si sta cambiando qualche norma legislativa e sta crollando qualche pregiudizio, nella direzione della concessione di una maggiore libertà dei figli dallo strapotere dei genitori. Purtroppo l’inconscio sociale è ancora molto spaventato all’idea di affrancare troppo apertamente i figli dalla tirannide famigliare, anche perché le vittime sono fortemente consenzienti. Il ribellismo dei piccoli dell’uomo è per ora soddisfatto di alcune vendette perpetrate nell’ombra e si appaga dei privilegi che la condizione di dipendenza garantisce e perpetua così lo stato di cose: i figli di oggi pretenderanno domani lo stesso potere. La modificazione dei contenuti dell’inconscio sociale è una tra le funzioni del lavoro psicoterapeutico, ma non può che avere tempi molto lenti e deve essere condotta con grande cautela, in ogni caso il primo dovere è quello di non danneggiare i piccoli pazienti. Bisogna sapere che le figure genitoriali in ogni caso sono state in qualche modo assorbite dal bambino che in esse si identifica, nelle quali proietta molti desideri. Gioca ad essere un papà o una mamma che sono sempre troppo simili a quei modelli che proprio non dovrebbero essere imitati.

8

Una ragazzetta giocava, su di un terrazzo, con una bambola, sontuosamente vestita, con lunghi capelli biondi, animata da congegni che le permettevano tante funzioni:
di parlare, piangere, muoversi, e così via.
Ad un certo punto, credendosi inosservata la bambinetta si alzò in piedi, prese a strapazzare la pupattola, tirandole i capelli strappandole i vestiti, scuotendola, sbattendole la testa contro il parapetto. Era una bambola certamente costosa. Ad un certo punto intervenne la madre, una specie di donnone arcigno che si mise ad urlare:
«Questa bambola l’ho pagata un occhio della testa !» Poi afferrò per i capelli la bambina allo stesso modo in cui quest’ultima aveva poco prima afferrato la bambola. La bambina si mise a piangere, lasciando cadere la bambola sgualcita. Dopo poco la madre smise ed abbandonò allo stesso modo la bambina, rientrando in casa.

9

Il terapeuta deve fare attenzione a non mettersi troppo apertamente contro i genitori che, sostenuti dalle norme giuridiche, possono sempre rivalersi accusandolo di aver disatteso agli impegni della «committenza» di cui sono parte attiva loro stessi e non i loro figli, pur se sono questi a soffrire.
Più impegnativo ancora è però il lavoro teso ad abbattere nei bambini i condizionamenti di cui sono stati vittime passive in contesti ambientali e famigliari che hanno lasciato tracce profonde; essi non sono alleati naturali del terapeuta che però deve sforzarsi di tirarli dalla sua parte. Questo anche se talvolta le condizioni di partenza sono così aberranti che i piccoli si appoggiano volentieri fin da subito e allora è possibile che il lavoro sia più facile; ma non ci si deve fare illusioni, prima o poi l’alleanza originaria tra il bambino e i suoi genitori rientrerà in gioco, contro il lavoro del terapeuta che nuovamente sarà visto come nemico dal paziente.

10

Uno psicoterapeuta infantile che opera nel centro che io dirigo mi ha raccontato questo terribile ed illuminante episodio. Egli stava cercando di insegnare al suo piccolo paziente a rendersi un pochino più autonomo. Lavorava sull’enuresi notturna, sulla paura del buio, sul rifiuto dello studio, sull’idiosincrasia troppo intensa per molti alimenti e su alcuni rituali ossessivi che lo inducevano a stare troppo rinchiuso tra le mura di casa. Il bambino ben comprendeva, anche senza che il terapeuta glielo avesse esplicitamente detto, che molti di quei rituali e di quelle ‘paure gli derivavano da atteggiamenti ossessivi ed angosciati dei genitori. Stravolgendo alcune frasi dette durante le sedute, il piccolo incominciò ad accusare i suoi genitori di averlo fatto ammalare, mettendo l’accusa sulle labbra del terapeuta. I genitori si infuriarono con costui, lo tempestarono di telefonate offensive, vennero allo studio irosi, minacciando rivalse. Il bambino era soddisfatto e a quel punto decise di mettere in atto l’ultima parte del suo piano di vendetta (verso chi?): incominciò ad inventare di sana pianta frasi ingiuriose contro i genitori attribuendole sempre al terapeuta. Costoro obnubilati evidentemente dall’ira non si rendevano conto dell’eccesso di inverosimiglianza della situazione ed erano diventati a loro volta vittime del ragazzino; tentarono allora di sottrarlo alla terapia. Per fortuna le cose si aggiustarono per la pazienza e l’intelligenza del terapeuta e lo sviluppo successivo permise il buon esito della cura ed anche il chiarimento di tutti i malintesi.

11

Nelle righe precedenti ho cercato di chiarire come i genitori di un bambino malato trovino un loro equilibrio nell’esercizio del potere su di lui o nell’abnegazione che la sua condizione particolare impone loro a prezzo di continui sacrifici e per questo spesso non vogliono davvero che egli guarisca. Mi rendo conto che queste mie affermazioni possono gettare una luce sinistra su queste figure perché potrebbero far pensare che il rapporto genitori figli sia solo di sopraffazione o di strumentalizzazione. Certo che non è solo così. Ci sono momenti d’amore grandissimo all’interno delle famiglie, l’abnegazione è spesso segno di grandezza d’animo, la tenerezza è un bene di cui il bambino non può che godere; la ricerca da parte dei genitori della felicità per i figli è anche sincera. Riconosco che le mie analisi sono spesso spietate e quindi ritengo necessario chiarire che non voglio con questo negare il diritto alla speranza di una felicità famigliare. Il mondo in cui chiamiamo, senza il loro consenso, i nostri figli, non è solo malvagio. L’odio, la violenza e la sopraffazione non sono i soli sentimenti di cui gli uomini siano capaci. Il primo palpito dell’essere vivente è un palpito di amore, o meglio è un desiderio di amore.
Chi ha dato vita ad un nuovo essere ha spesso operato una scelta d’amore. Purtroppo quest’amore viene continuamente contraddetto; perciò è importante non darsi tregua e lottare per debellare tutte le istanze che questo amore vorrebbero negare.
Compiacersi di frasi retoriche che esaltano vuotamente un amore tutto esteriore ha nuociuto finora all’uomo; se così non fosse stato non ci sarebbe tutta questa necessità di «telefoni azzurri». Se vogliamo davvero amare e rispettare i nostri figli è indispensabile che illuminiamo quelle zone d’ombra dentro di noi in cui si nasconde l’odio. Dobbiamo rinunciare alle rassicurazioni che possono derivarci dalla sofferenza degli altri. Lentamente dobbiamo abbandonare fantasie e illusioni di potenza, perché potrebbero danneggiare i nostri figli. Dico questo perché ne sono convinto, come scienziato e come uomo.