Psicoanalisi contro n. 83 – Il ragno e la mosca

gennaio , 1992

Tutti gli esseri viventi educano, cioè tentano di trasmettere ai piccoli della loro specie informazioni concernenti sia il comportamento «morale», sia le tecniche utili alla sopravvivenza del singolo in rapporto con il gruppo. Molti di questi comportamenti vengono trasmessi geneticamente, però sono rafforzati e talvolta addirittura modificati dall’esempio che gli individui adulti propongono ai loro piccoli. L’etologia racconta che nei macachi e in molti gallinacei il piccolo che ha la possibilità di seguire ed osservare da vicino il comportamento sessuale degli adulti potrà disporre di una gamma di atteggiamenti sessuali più ricca e varia di quanto non sia possibile all’individuo tenuto in isolamento il quale avrà possibilità di espressioni soltanto stereotipe o addirittura incongrue. Le capinere insegnano a volare, gli animali selvatici insegnano le tecniche della caccia, in tutti i gruppi i nuovi membri vengono educati a comportamenti in linea con le esigenze della specie. lo penso che anche le cosiddette «piante» non seguano soltanto meccanismi di reazione a stimoli esterni o interni di tipo biochimico, ma siano capaci di trasmettere messaggi che «educano» in qualche modo gli stessi «virgulti». Dico questo consapevole di quanto spesso e volentieri io ami «antropomorfizzare» la realtà che mi circonda e quindi raccomando a chi legge tutta la cautela possibile in merito a certe mie affermazioni.
Di una cosa sono comunque seriamente e profondamente convinto: che i messaggi educativi di qualunque specie vivente non sono mai soltanto di ordine meccanicistico, innato, stereotipo ed affettivamente indifferente. Non è vero che le rondini hanno «sempre» costruito i loro nidi allo stesso modo, o che il pesce spinarello ha sempre tenuto questo tipo di comportamento aggressivo e ritualizzato. Il che non vale solo per il mio modo un po’ fantasioso di indagare e di esprimermi, ma è stato verificato anche attraverso indagini intelligenti e non preconcette che gli scienziati specialistici hanno svolto sui fossili residui, da cui si trae la documentazione di come anche i comportamenti istintuali siano cambiati in modo più o meno sensibile nel corso dei millenni. Gli antichi evoluzionisti sosterrebbero che si tratta di modificazioni dovute soltanto all’adattamento all’ambiente; i neoevoluzionisti sono oggi propensi a parlare di mutazioni spontanee; io penso che il caso e la necessità si contendano il primato dell’efficacia avuta su queste mutazioni. Caso e necessità sono ciechi; c’è però un terzo principio, che Giorgio Federico Hegel avrebbe chiamato «astuzia della ragione» (e io considero molto importante non ritenere ancora che Hegel sia da considerare «un cane morto»).

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Dunque io credo che, insieme, il caso, la necessità e l’astuzia della ragione guidino tutti gli esseri viventi e quindi anche il comportamento dell’uomo. Gli uomini adulti da sempre hanno cercato di condizionare i figli, appena venuti alla luce, per indurre in loro comportamenti adatti alla struttura sociale predisposta. I valori stanno sopra o sotto questo inevitabile tentativo di plagio? Bisogna infatti prendere atto che ogni forma di educazione è sempre ed assolutamente un fenomeno di plagio. Un educatore o un gruppo di educatori possono pensare di aver scelto determinati valori a fondamento della loro concezione di vivere civile e volere conseguentemente fare il possibile per condizionare i giovani a loro affidati all’uniformità con comportamenti che si rivelino adeguati ad esprimere al meglio quei valori. Ci può anche essere l’atteggiamento pedagogico di chi, dopo aver tentato di enucleare alcuni comportamenti considerati utili alla struttura sociale, abbia deciso di costruire su di essi valori da veicolare come messaggio educativo fondamentale. È persino troppo facile notare l’ingenuità delle due posizioni. L’importante è non aver paura di far riferimento a valori che si fondano su desideri ed accettare contemporaneamente che tali desideri sono in rapporto con categorie di valore.

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Molti potrebbero credere che insegnare modalità esclusivamente tecniche di conoscenza sia in qualche modo moralmente indifferente; ma così non è. Insegnare ad un giovane come si sgozza un agnello, o dargli i primi rudimenti che lo mettano in grado di costruire un ordigno distruttivo di grande potenza sono decisioni che implicano anche scelte morali. Al di là di tutti i sentimentalismi sugli occhi sbarrati dell’agnello terrorizzato, o della retorica sull’orrore delle ferite lasciate dai bombardamenti con ordigni nucleari, resta il fatto che siamo di fronte a due esempi di come due diverse culture considerino lecito uccidere animali per cibarsene, oppure distruggere città e fare strage di donne e bambini per ottenere una vittoria su di un nemico. In entrambi i casi gioca un ruolo la vigliaccheria dei moralisti e degli scienziati che tentano di sottrarsi alle loro responsabilità, gli uni nella presunta inoffensività del pensiero che giudica ma non agisce direttamente per aggredire, gli altri nella pretesa neutralità dell’acquisizione scientifica in sé che non verrebbe necessariamente coinvolta nel possibile cattivo uso delle nuove energie messe a disposizione. I tecnici non si assumono la responsabilità della distruttività degli strumenti che mettono a disposizione degli uni contro gli altri e i moralisti non accettano di aver provocato con la loro istigazione le distruzioni che quelle armi si sono rivelate capaci di procurare. Le responsabilità vengono così generalmente scaricate sul genere umano; come se moralisti e scienziati non ne fossero quindi parte essi stessi. Non dovendoli allora considerare esseri umani a pieno titolo noi potremmo liberarci di loro uccidendoli; ma a chi toccherebbe prendere una simile decisione? Ad altri moralisti o scienziati in possesso dei criteri filosofici e scientifici sulla base dei quali giudicare? Ecco che il cerchio si richiude su se stesso…

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Oggi non è facile dire che cosa sia una famiglia; nei tempi passati gli esseri umani credevano di saperlo; adesso tra contraddizioni ed ambiguità, le famiglie si sfasciano, le coppie si separano, si formano gruppi, si creano solitudini. I figli nascono per caso e si trovano a crescere abbandonati a se stessi, circondati da persone che limitano le loro cure al nutrimento e ad una serie di contributi, come l’alloggio, l’abbigliamento ed una copertura igienico – sanitaria di base. Io non so – forse dovrei dire che non lo so più – che cosa debba essere una famiglia; credo però ancora nell’importanza dell’amore: due o più persone possono unirsi nel segno dell’amore e in nome di questo sentimento decidere di avere figli da amare. Solo così e purché sia così si deve costituire la famiglia degna di questo nome. Se c’è l’amore c’è anche la benedizione di Dio. Purtroppo io sento gravare su me e sull’umanità il peso di un peccato originale, ma so che può essere lavato dall’amore, proprio come l’acqua del fonte battesimale lava dalla colpa di Adamo. La famiglia è ovunque sia riunito un gruppo di persone che si amano, nonostante tutte le contraddizioni, le ambiguità e le cattiverie.

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I figli che però in qualunque modo vengono al mondo, anche se non hanno chiesto di venirci, debbono essere in ogni caso educati. Bisogna insegnare loro la padronanza di tecniche specifiche di sopravvivenza e di comportamento, ma allo stesso tempo bisogna dare loro strumenti di conoscenza e di giudizio sulle strutture della società in cui si trovano ad agire. Indubbiamente chi educa è costretto a compromettersi, trasmettendo, insieme con le nozioni di base, anche i propri criteri fondamentali di bene e di male. E questa una tremenda responsabilità. Noi tutti siamo così poco sicuri del nostro giudizio sul bene e sul male che ci sentiamo a disagio quando dobbiamo assumerci la responsabilità di trasmetterlo ad altri che subiranno così, implicitamente ed esplicitamente, un nostro condizionamento, dal momento che sono inevitabilmente esposti al plagio. Nella religione come nella politica, nella scuola come nel sindacato, ovunque vengono proclamati principi di bene e di male, di giustizia ed ingiustizia. Le costituzioni degli stati nazionali vorrebbero fondare su questi principi il complesso delle norme giuridiche che governano la vita dei cittadini. Persino lo Stato italiano ancora si regge su una costituzione nata nell’immediato ultimo dopo guerra, quando il Paese emergeva stordito dal delirio e dalla distruzione dei regimi nazifascisti; ma i principi che la fondavano e tuttora la fondano sono stati determinati da un gruppo di garanti che in nome di tutto un popolo si arrogava il diritto e si assumeva il carico di stabilire i nuovi principi fondamentali per la vita di tutto lo stato. Questo avveniva mentre fuori dalle stanze della Costituente i poeti poetavano, i musicisti componevano, i registi neorealisti giravano i loro chilometri di pellicola; mentre le città italiane erano «liberate» da giovanottoni americani in camionetta che buttavano tavolette di cioccolato e rotoli di am-lire a signorine e ragazzini che si prostituivano contenti del nuovo benessere che si annunciava, sola nota di entusiasmo e di amore gridata con gioia in campi di pomodori e giardini di limoni, tra un amplesso e una masturbazione.

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Esplicitamente, volendolo, io ho enunciato un mio credo morale e quindi un principio che io ritengo giusto diffondere con l’educazione. Questo principio precede l’insegnamento di qualunque nozione tecnologica: io credo che sia sano e pedagogicamente utile il rapporto fisico tra gli individui, quella forma di amore che porta gli esseri umani ad avere con piacere contatti con il corpo degli altri, dello stesso sesso o di sesso diverso, anche se penso che oggi la sessualità eterosessuale sia troppo ambigua e compromessa dalla volgarità consumistica, più ancora, almeno per il momento, di quella omosessuale. Comunque ogni forma di sessualità illuminata dall’amore ha per me un valore fondamentale di poetica purezza. Certo la masturbazione offerta per una manciata di quattrini, come quella cui ho fatto riferimento prima resta un atto di prostituzione, però ho voluto partire di lì per dichiarare quanto valore intrinseco io veda sempre congiunto almeno potenzialmente alla sessualità.

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Voglio ora riferire un caso clinico, breve e schematico, retorico e anche squallido, come forse lo sono tutti. Qualche tempo fa venne da me un cineasta sufficientemente ricco e sufficientemente americano. Era venuto in Italia, appunto, con l’orda degli alleati: jeep e sigarette, cioccolato e sorrisi. Ora non era più giovane e abitava a Roma in una bella casa del centro, senza più mogli, coi figli sparsi lontano per il mondo. Era abbastanza ricco per permettersi di passare le belle mattine di sole sul suo terrazzo innaffiando rose, gerani e non ti scordar di me. Era un funzionario di produzione, beveva molto whisky ed era vestito come usava tanti anni fa, quando gli americani in Italia contavano molto. Mi parlò di sé, della sua angoscia, del suo mal di stomaco; della sua difficoltà a prendere gli ascensori e della sua incapacità di attraversare le piazze o i grandi spazi aperti.
Tra le molte cose che mi raccontò ci fu un episodio che riferì con una dolcezza infinita, con la voce mutata, tenera e morbida, in cui l’inflessione anglofona si coloriva di sfumature campane e laziali. Proprio tra i limoni e i pomodori si svolgeva l’episodio che mi narrò. Era arrivato a Napoli in seguito allo sbarco alleato e in una città per lui sconvolgente, piena di sole, di colori accesi e di profumi sconosciuti aveva visto un ragazzetto bruno avvicinarglisi e senza quasi rendersene conto si era trovato in compagnia di una persona dolcissima e allo stesso tempo espertissima che gli aveva offerto un’esperienza che non aveva più potuto dimenticare: «… quello che non tollero è l’idea che quel ragazzo fosse solo una puttana. Vorrei che la psicoanalisi mi aiutasse a cambiare il passato, che mi rendesse capace di credere che quel momento meraviglioso sia stato un momento di amore.» Gli risposi in tutta sincerità e convinzione: «Ma quello è stato un bellissimo gesto d’amore.» Replicò: «Eppure io l’ho pagato.» Saggi unsi solamente: «Quel ragazzo aveva tutto il diritto di farsi pagare, ma ciononostante quello fu un gesto di purissimo amore.»

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So di stravolgere tutta la morale su cui si basa la società in cui vivo, di andare col mio giudizio contro l’inconscio che mi sovrasta e che è dentro di me. Lo so che non bisogna pagare i ragazzini in cambio della loro disponibilità ai giochi sessuali, ma il fatto di non essere stato capace di condannare quell’uomo o di esprimere un giudizio negativo sull’episodio mi riporta alla necessità di dichiarare apertamente quali debbono essere secondo me i principi su cui si deve basare un’educazione.
Lasciamo, per un momento, da parte il problema delle acquisizioni tecnico-pratiche: le case si devono costruire, non si può vivere senza i piatti e nemmeno senza televisione; forse è meno indispensabile costruire armi e si potrebbe anche fare a meno di farmaci tanto efficaci quanto distruttivi.
Insegnare ad un bambino come nasce un fagiolo è comunque il primo passo verso quel sapere che lo metterà poi in grado di costruire una bomba atomica: mentre il primo passo è auspicabile, potrebbe essere meglio inibire i successivi.
Passiamo dunque a trattare di quegli insegnamenti che comunemente vengono chiamati «morali».

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Io parlo molto spesso della profonda cattiveria degli esseri viventi: la tenera pianticella tenta di sottrarre aria e sole a quella che le sta accanto, fino a soffocarla.
Così i parassiti si abbarbicano sui grandi organismi e li uccidono.
Visti al microscopio batteri e virus appaiono come animali mostruosi, articolati e strutturati, pronti all’aggressione di cellule e tessuti. Tutti gli esseri viventi che vogliono vivere a prezzo di altre vite, anche della nostra.
Gli esseri umani hanno approntato difese farmacologiche e vaccini che distruggono a milioni questi agenti pur di salvare la vita di un solo uomo. Io che mi reputo rispettoso di ogni forma vivente: del tenero radicchio o del pauroso leone, dello svedese e del pigmeo, so però che non avrei nessuna esitazione a distruggere milioni di vite, anche umane, pur di salvare la vita di quelli che amo.
Di questa colpa ho orrore e chiedo perdono alla Divinità, e allo stesso tempo accuso Dio di avermi costretto a scelte così empie.
Io vorrei amare e sono costretto a lottare per una logica di sopravvivenza che mi obbliga a sceglier tra la mia vita e quella degli altri.
La vita di chi amo richiede il sacrificio di migliaia di altri esseri viventi. Io ho scelto di lottare contro l’aborto. So benissimo che è una scelta ambigua, come è ambigua e repellente la scelta di quegli abortisti che hanno deciso di privilegiare la vita di uno smilzo gruppo di ragazzini, ordinati e ben tenuti, attaccati ad un benessere che coincide con lo squallore dell’egoismo. Resta la mia grande ansia davanti alle gravi mancanze di rispetto cui vanno incontro le vite che ho voluto salvare. Con disperazione allora chiedo alla Divinità ancora una volta il perché di tante contraddizioni. L’assurdità sembra essere una condizione ineliminabile della vita umana: per questo io che ho scelto l’amore mi sento costretto all’odio.

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Cosa debbono allora insegnare gli educatori, nella famiglia e nella comunità: l’amore o l’odio? Io credo che l’amore sia la scelta primaria, un bisogno originario; allo stesso tempo so che l’odio ci condiziona tutti. La viola mammola, la biscia, il pavone e l’uomo vivono nella reciproca sopraffazione. Ieri ho visto un ragno, grigio e azzurro, con grandi zampe pelose, arcuate e flessibili, acquattato su di una ragnatela lucente, vibrante come un’arpa suonata da una Musa, aspettava al varco un insetto. Poche cose avevo visto di più belle di quello spettacolo del ragno apparentemente assopito posato sulla sua tela scintillante ai raggi del sole: una mosca incappò nella trappola e subito iniziò una danza disperata.
Più si dibatteva la malcapitata e più si invischiava. Il ragno le si avvicinò: le lunghe zampe pelose parvero offrirle un abbraccio che la finì. Chi aveva ragione, quale vita doveva trionfare: quella del ragno o quella della mosca? Da che parte stavano la Giustizia e l’Amore? Restava ondeggiante nel vento una ragnatela che io contemplavo. L’estetistica compiacenza è sufficiente a salvare l’universo?

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Viene talvolta nel mio studio un ragazzo quindicenne. Fa precedere il suo arrivo da una telefonata che giunge da un paesino della campagna laziale dove vive. Ha bisogno del mio aiuto e mi ama intensamente. Anch’io sento di amarlo. Mi raccontò questo sogno che, giustamente, egli definì un incubo: «Mi trovavo in un palazzo, assurdo, perché era composto da un’unica stanza, immensa, altissima e larghissima. Insieme con me c’erano alcuni amici miei e tante altre persone, mi sembra che fossero tutti maschi. Era in corso una guerra terribile, in terra si trovavano armi di tutti i tipi, antiche e moderne, coltelli, asce, spade, ma anche fucili e pistole. Dovevamo tutti lottare gli uni contro gli altri, per farci del male e forse anche per ucciderci a vicenda. Io avevo tanta paura. C’era però un momento di pausa, per il pasto. Allora suonava una campanella e tutti andavamo a tavola.
Non so cosa mangiassimo. Io cercai di fuggire e arrivai nella casa di un mio parente, uno zio, molto mite e comprensivo. Voleva accogliermi ed ospitarmi, ma non riusciva ad aprire la porta di casa. Io bussavo, bussavo. Ad un certo punto arrivarono due carabinieri che mi presero e mi riportarono nel palazzo da cui ero fuggito. Io avevo paura, tanto che dissi a me stesso: adesso mi debbo svegliare. E mi svegliai.» Quelli che si intendono di psicoanalisi avranno capito tutti i riferimenti sessuali contenuti nel racconto, i desideri perversi e meno perversi simbolizzati in questa lotta disperata ed entusiasmante. Mi limitai a dirgli: «Il sogno lo hai fatto tu. Dentro di te c’è una guerra terribile. Perché volere la guerra, quando forse sarebbe meglio … » Qui mi interruppi. So di essere stato compreso.
Cosa debbo insegnare io nel mio doppio ruolo di educatore e terapeuta: l’amore o la violenza? L’amore significa anche rispetto dell’altro, rinuncia alla sopraffazione, disponibilità e comprensione. La violenza vuol dire lottare contro l’altro per vincerlo, per espropriarlo, abbatterlo e distruggerlo. Tutti gli educatori sanno che sarebbe bella una vita di amore e rispetto reciproco. Tutti noi, educatori, terapeuti, uomini e donne, sappiamo quanto sia doloroso essere delicati, emotivi, quanti rimorsi questa sensibilità procuri.
Insegnare a non provare rimorso vuol però dire scegliere la via della distruzione dell’altro. Il terapeuta insegna a superare la sofferenza del rimorso.
Chi ha ragione: l’educatore o il terapeuta? Si deve insegnare il principio morale della giustizia anche se va contro il diritto di non soffrire dell’uomo? Il ragno vuole succhiare la mosca e non ha alternative se vuole sopravvivere. L’educatore deve insegnare a costruire tele scintillanti e pericolose come trappole mortali e il terapeuta deve liberare l’uomo dal rimorso che gliene deriva? Si può liberare il ragno dalla colpa di essere tale e di vivere conformemente alla propria natura? È giusto liberare l’uomo dalla sofferenza che gli viene dal rimorso di essere nemico mortale del proprio simile? L’educatore e il terapeuta sono in contraddizione reciproca?
La morale e la natura sono inconciliabili? La salute e l’educazione sono linee divergenti?