Psicoanalisi contro n. 77 – L’uomo della strada

gennaio , 1992

Gli esseri umani da sempre hanno meditato su loro stessi e sulla loro natura e si sono chiesti: «L’uomo, fondamentalmente, è buono o cattivo? L’essenza si esprime attraverso la negatività o la positività?» Debbo riconoscere che già il concetto di essenza è estremamente compromesso; non solo per il suo richiamo esplicito ad Aristotele «to ti en einai», lo stra-abusato «quod quid erat esse». Un substrato che persiste ed anche insiste a fondamento di tutto ciò che esiste. L’essenza è un concetto che si rifà ad un principio tirannico, però l’inconscio sociale della nostra cultura lo ha da secoli assimilato: l’essenza costituisce la nostra essenza; la nostra esistenza si struttura attraverso il concetto di essenza. Sembrerebbe questa un’affermazione solo teorica, un poco astrusa;
ma invece è stata ed è alla base del modo di pensare tanto del parroco di campagna, della donnetta o del contadino, quanto di quello del letterato, dello scienziato o del filosofo. La cultura occidentale ha acquisito i concetti di essenza dell’essenza, di sostanza della sostanza, espressi attraverso una continua tautologia: l’essere è l’essere.
L’essere non è il non essere. L’essere è ciò che è e si contrappone a ciò che è diverso. Frasi apparentemente solo «filosofiche», costitutive però di un pensiero. È difficile distinguere ciò che è costituito da ciò che costituisce.
L’essere non è altro che la consapevolezza dell’essere, o meglio: la consapevolezza della consapevolezza. Molti, anzi, moltissimi anni fa, in Piemonte, mi trovavo spesso in un campo verde ed azzurro, come sono in autunno i prati del Canavese, a parlare con un contadino. Era molto anziano, aveva pantaloni senza età, grandi scarpe di cuoio rinsecchito e una camicia tutta incrostata di pizzi, bianca, linda e profumata: era la camicia del costume canavesano, gli veniva da suo padre, che l’aveva avuta da suo nonno; facendo i calcoli all’indietro si poteva arrivare alla prima metà dell’Ottocento. A lui piaceva parlare e a me ascoltarlo. Mi domandava perché l’albero fosse un albero e le mucche fossero mucche, lo erano perché li chiamavamo così o abbiamo chiamato così quelle cose perché erano ciò che erano? Mi faceva discorsi che mi ricordavano Spinoza. L’essenza è una sola e tutto è una sua manifestazione in forme diverse? lo pensavo ai «modi» dell’essere, ai discorsi filosofici sulla sostanza, che in lui parevano discorsi naturali, imparati al catechismo in età infantile, rafforzati dalla vita, o addirittura pensavo a una sorta di sapere congenito, trasmesso geneticamente. Sapere cosa sia la sostanza non significa necessariamente che la stessa sostanza esista; ma neppure si può ridurre la sostanza a conoscenza della sostanza; la sostanza deve essere e poi venire conosciuta. Sto ragionando ai limiti del ragionabile; forse dico solo sciocchezze. lo ho paura delle affermazioni e sempre mi difendo dicendo anche il contrario. Non so se per onestà o per vigliaccheria.

2

Da sempre si discute intorno al problema della fondamentale bontà o malvagità della natura umana. L’altruismo o l’egoismo. Molti moralisti e psicologi, nei tempi andati, ma anche oggi, sostengono che l’odio, il desiderio di sopraffazione e distruzione dell’altro stiano a fondamento dell’uomo. Qualcuno a queste pulsioni distruttive ha voluto dare un fondamento parzialmente o totalmente metafisico, affermando che senza l’aggressività e la lotta non esisterebbe l’uomo, perché non potrebbe sopravvivere in un mondo così violento e difficile. La società stessa sarebbe strutturata dall’aggressività: i privati vizi si trasformano in pubblici benefizio L’egoismo e il desiderio di potere, di appropriazione e di espropriazione anche della vita stessa aguzzano l’ingegno, rendono possibili mille espedienti che si trasformano in sistemi di organizzazione. L’uomo, per sopraffare il proprio simile costruisce mille astute trappole. Si rende però conto che la sola distruzione significherebbe anche la distruzione per sé; ecco che allora ha escogitato leggi che disciplinino i suoi comportamenti; delegando a determinati organismi il compito di farle rispettare e di esserne garanti. Così quindi si viene a costruire una società «civile», basata non sull’amore reciproco, ma sull’odio e sull’egoismo di tutti. Il singolo individuo però, arriva a comprendere lentamente che, per stare bene, deve far stare bene un poco anche gli altri, a rischio, in caso contrario, di trovarsi a vivere in un deserto. Poiché perseguo l’obiettivo del mio massimo benessere, permetto anche agli altri di cercare il proprio e di goderne, perché in ciò sta la possibilità della mia felicità personale. Quindi gli esseri umani si strutturano e si costituiscono attraverso l’odio. Altri ipotizzano un’alternanza di odio e di amore, che si congiungono e si dividono in continuazione. Costoro pongono la lotta tra i due elementi come fondamento primo. L’amore, per vincere, deve combattere l’odio, odiandolo; questa però è una contraddizione. Se pure le contraddizioni sono ineliminabili pur tuttavia è avventato porle a fondamento del mondo. C’è chi ha tentato di togliersi d’impaccio facendo riferimento ad un avvicendamento temporaneo delle due pulsioni: due principi, due divinità, che si avvicendano nel garantire un progetto comune. L’oscurità del progetto sta nell’accettazione che sia governato da due principi opposti tra loro. Anch’io non riesco a trattenermi dal formulare la mia ipotesi. lo penso che ciò che condiziona di più l’uomo sia la vigliaccheria, che è forse la caratteristica più negata. Intimamente ciascun uomo sceglie il suo modello, però per paura esita a schierarsi e a rivelarsi. Così sceglie qualunquisticamente di ondeggiare tra le due pulsioni di amore e di odio e tra tutte le successive alternative, senza decidere. Il cosiddetto «uomo della strada» è il vigliacco per antonomasia.

3

Ho usato volutamente l’espressione «uomo della strada» per poterla condannare: è una delle espressioni più imbecilli che i presunti intellettuali potessero formulare, vigliaccamente, per definire quelli che sentono come diversi da loro stessi. Giornalisti, filosofi, moralisti, ben pensanti se ne servono per designare una massa che considerano poco meno che carne da macello, cui non viene attribuita una vera capacità di pensare, gente che segue l’andazzo senza sapere perché e che viene immaginata vivere in strada, dove l’ipotetico ricercatore la incontra per sottoporla ai suoi questionari. Procedimenti statistici inattendibili traducono poi gli elementi raccolti in modo acritico e fastidioso in dati ai quali si darà valore di certezze assolute. I dati statistici non possono essere raccolti da giovinetti impreparati e motivati a guadagnare il massimo nel minor tempo possibile e soprattutto non dovrebbero essere ricostruiti in base a risposte fornite da presunti uomini della strada. Il Papa, il Presidente, Il Ministro, il Caldarrostai o possono essere ugualmente sciocchi:
la stupidità prospera nelle università come nelle fabbriche e nei campi; non è mai stato vero che il potere stesse nelle mani dei migliori. Tutti siamo esposti al rischio di una banalità continua e pericolosa. Una società è tanto più banale quanto più si turba e si scandalizza per i presunti anticonformismi e si adagia nell’accettazione di un qualunquismo standardizzato e diffuso.

4

Dopo questa, non inutile, digressione sui pericoli del conformismo di cui è portatore il concetto dominante di normalità riferito ad un ipotetico «uomo della strada», vorrei parlare di un ulteriore atteggiamento di fronte al problema di quale possa essere l’essenza della natura umana: quello che la riconosce nell’altruismo. Qui potremmo trovarci, e spesso ci troviamo, di fronte alla più desolante ingenuità: l’uomo nasce buono, il mondo lo costringe a diventare cattivo. Per questo i bambini sono buonissimi, ingenui e spontanei; quello che nell’infanzia sembrerebbe cattiveria, si dice, non è che un aspetto della spontaneità. Così si nega che il bambino desideri uccidere il fratellino che gli è appena nato, voglia far soffrire gli animali che tortura con giochi crudeli, insulti i compagni che per un handicap crede a lui inferiori: il balbuziente, lo zoppo, il troppo miope, lo straniero di un’altra razza. Si tace quando lo si vede disprezzare il più povero, umiliare il più debole, anche sessualmente. Ci si ostina a non trovare tutto ciò in contraddizione con una originaria bontà. Invece la natura umana si presenta nel bambino già corrotta, le difese del narcisismo e del sadomasochismo già sono scattate fin dal ventre materno e su di esse il futuro uomo incomincia a costruire il proprio essere. Sono queste due difese originarie: sadomasochismo e narcisismo schierate entrambe dalla parte del male. Esse costituiscono la coppia di forze primigenie che non ha nulla a che fare col manicheismo che divide il mondo tra le forze del bene e quelle del male; ma che in modo sghembo lo pone in balia di due opposte forze entrambe malvagie, che negano l’altro, oppure lo aggrediscono, che esaltano il sé o lo portano ad autodistruggersi. lo rifiuto però che qui sia il fondamento, voglio credere che vi sia qualcosa prima ancora; per sostenere questa mia convinzione debbo abbandonare la mia paura di scoprirmi e prendere posizione.
lo credo che se l’odio fosse il fondamento dell’essere umano, la vita non avrebbe neppure potuto incominciare ad essere. Dalla morte non è mai potuto nascere nulla. Non credo neppure all’alternanza di amore ed odio, poiché tale alternanza sarebbe successiva all’essere e soltanto come oscillazione non avrebbe potuto produrre vita, non potendosi applicare ad alcun essere. La vita desidera se stessa, prima di tutto, e per essere tale ha bisogno di amarsi. Amare se stessi in quanto vivi non è egoismo. L’amore per la propria vita significa innanzi tutto amore per la vita. La vita è così amata anche negli altri per’ quanto di essi io riconosco essere in me e anche per quanto di me riconosco in loro. La mia fantasia deve pensare gli altri come disponibili e capaci di amarmi, altrimenti non avrei il coraggio di avventurarmi nel gioco della vita. Amare tutto ciò che è costituisce la prima scelta; ma subito questo amore viene contraddetto, provocando in me le reazioni della difesa.

5

Ma credo anche nel diavolo. Molto semplicisticamente, una volta, io affermavo che il paziente, per guarire, si deve innamorare del suo terapeuta e almeno in parte essere da lui riamato. Oggi considero ingenua questa mia affermazione: rimane vera nelle sue linee essenziali; però il rapporto psicoterapeutico è così complesso e articolato che l’intervento dell’analista può e deve avvalersi anche dell’effetto prodotto da sentimenti diversi, che talvolta possono addirittura essere di odio. Questo non significa necessariamente che odio e rifiuto tra paziente e terapeuta siano indispensabili. Semplicemente possono essere questi i sentimenti di cui servirsi, fino a che lo sviluppo positivo del lavoro analitico non permetterà ad entrambi di manifestare quell’amore senza il quale non c’è guarigione.
Certo, se l’avversione di uno o di entrambi non può essere superata il cammino deve essere interrotto; ma è importante in molti casi anche valutare i sentimenti negativi. Un problema analitico grave può crearsi se i sentimenti di insofferenza sbocciano contemporaneamente nei due soggetti della cura; ma anche in questo caso, se l’accortezza dell’analista, il suo amore per il proprio lavoro e l’odio per la malattia sono sufficientemente tenaci, allora è possibile che sappia operare interventi che avvicinino il paziente alla salute. Ho accennato all’amore per il proprio lavoro: un sentimento d’amore deve quindi in qualche modo muovere il terapeuta; ma ho anche parlato dell’odio per la malattia. Può dunque l’odio avere aspetti positivi? lo non penso si provino sentimenti di amore o di odio verso concetti astratti:l’amore per il proprio lavoro è amore per se stessi, per gli altri, per l’umanità. Così l’odio per la malattia è strettamente intriso di avversione per quei malati che ci hanno fatto soffrire, che ci hanno aggredito col loro rifiuto di guarire. L’importante nella miscela di amore ed odio è che il sentimento positivo sia più forte di quello negativo nella cura e che sia così intenso da vincere anche noi stessi e il nostro odio.

6
Ho sempre considerato un grave errore far coincidere il cosiddetto «transfert» con l’innamoramento. Il transfert è un elemento che caratterizza qualunque rapporto e che viene solo enfatizzato nel rapporto psicoanalitico e consiste nel trasferire sulla persona con cui si è in relazione sentimenti che si sono provati per figure del passato più o meno recente o del presente. Ricordo uno psicologo che svolgeva, un po’ tronfio e un po’ disorientato, il suo lavoro in un ospedale psichiatrico di tanti anni orsono il quale, con molta soddisfazione, diceva di un ricoverato: «Mi ha dato il transfert». Volendo significare con questo che il suo paziente gli si era estremamente affezionato. Nel suo significato proprio il transfert invece può anche essere caratterizzato da sentimenti di odio, se il ruolo che viene attribuito al terapeuta è quello di una figura per qualche ragione detestata. È un problema che riguarda l’analisi la possibile gestione di questi sentimenti di rancore che salgono fino ad oscurare la mente del paziente; non basta cercare di fargli notare che la persona odiata ed il terapeuta sono due persone diverse, troppo spesso questo invito resta inefficace: la sola soluzione possibile è allora che lo psicoanalista si tolga di dosso i panni della figura rifiutata per assumerne altri. Ogni errore a questo punto sarebbe gravissimo. Bisogna avere una conoscenza sufficientemente profonda del paziente e riuscire a trovare quelle parole e quei gesti che siano capaci di sbloccare il meccanismo di odio su cui si era bloccato, suscitando nuovi interessi. Ugualmente non credo che quelle analisi che trascorrono tutte in un unico sospiro amoroso, senza contrasti, siano segno di una cura più efficace, anzi, sono convinto che nella maggior parte dei casi portino a guarigioni solo apparenti.
E importante che il paziente si scontri anche col terapeuta, scarichi l’odio che ha in sé; che affronti in analisi tutti i propri fantasmi, per quanto remoti, per quanto provenienti magari da meccanismi ereditari (ma questo della trasmissione genetica di alcuni contenuti non è un argomento che posso ora trattare qui).

7

Il bisogno d’amore è originario, il sentimento amoroso costituisce ogni uomo. Eros fa muovere il mondo, egli è il creatore dell’universo. Proprio il carattere divino di Eros ci proibisce di parlarne con linguaggi convenzionali, in parte infatti è anche indicibile. Dire che basta l’amore può essere una banalità pronunciata per non pensare. Importante è compromettersi e non scegliere soluzioni che si possano facilmente tradurre in frasi fatte, troppo plausibili, che fermano all’inizio di quello che dovrebbe essere un lungo cammino di ricerca.
Si dice (ed anche a me pare che sia così) che la depressione sia causata da una smisurata richiesta d’amore. L’aggettivo «smisurata» è in parte illuminante, ma non riesce a dare l’idea del disorientamento che si può provare davanti ad alcune forme depressive. Non è raro vedere che persone intensamente amate dagli altri cadono in uno stato di rabbiosa cupezza. Chiedono ed ottengono sempre di più, eppure non vedono placare in sé la disperazione per quanto amore ricevano. Anzi si sveglia in loro un odio così violento e distruttivo che spesso fa paura ed orrore. Indubbiamente si vede che soffrono, ma usano la loro sofferenza per colpevolizzare tutto e tutti. Per essere credibile questa colpevolizzazione universale si traveste spesso da sentimento di colpa personale. I Dopo aver chiesto ed ottenuto sempre più, I mettono gli altri alla prova. Pretendono in modo evidente di non essere più amati. Non mi è chiaro che cosa determini all’origine un tale disastro psichico e filosofico.

8

Tempo fa venne da me una signora non più giovane, distrutta dalla depressione; si era cosparsa di profumo per coprire il cattivo odore che sapeva di emanare. Era stata una bella donna, ora non desiderava più niente: i figli grandi non avevano più bisogno di lei; ora che lei e il marito avrebbero potuto vivere una vita comoda e tranquilla, permettendosi quei lussi di una maturità opulenta, lui era stanco e lei si sentiva disperata. Non aveva più voglia di occuparsi della casa, prendeva medicine che la rendevano torpida e sonnolenta tutto il giorno, senza vincere l’ansia che la divorava; aveva anche smesso di curare il proprio corpo, non si lavava neppure più.
I figli, compreso quello che viveva lontano, la circondavano di mille premure, il marito era totalmente e devotamente a sua disposizione in ogni momento e per ogni cosa: «Ma io li odio tutti e vorrei distruggerli, insieme con me stessa. Sento un odio così violento dentro di me che mi spacca in due». Era evidente la sua sofferenza, ma non meno evidente era la sua perfida volontà di far male agli altri. Quando i figli mi telefonarono percepii nelle loro voci esasperazione e una rabbia profonda per quello che era diventata la loro madre. Volevano che io me ne facessi carico, erano stanchi di subire i suoi insulti e le sue violenze. Il marito mi si presentò un giorno: un uomo dolce e intelligente, ancora sinceramente innamorato. A me sembrava inverosimile che persistesse amore in lui e cercai di capire in che modo volesse ingannarmi; non potevo credere che qualcuno amasse quell’essere così irritante e laido.
Comprensibilmente ora all’amore si univano sentimenti di fastidio, insofferenza, ma erano secondari. Mi disse che per stanchezza pensava qualche volta di andarsene. Passò qualche tempo senza che la rivedessi. Un giorno ricapitò all’improvviso nel mio studio:
sorridente, elegante, bella e profumata, pareva avere quindici anni di meno. Serena e pacata mi disse: «Ora sto bene: mio marito se ne è andato; i miei figli hanno smesso di farsi vedere. Mi sono sentita rinascere, è stata una liberazione, finalmente potermene stare sola. Il loro amore mi opprimeva». Rimasi sbalordito, ma anche pensieroso. La signora mi chiedeva ora un’analisi e mi disse che la soluzione le era forse venuta da una frase da me detta a suo tempo al marito: «Fate scambi usando monete diverse: lei dà amore in cambio di odio; dovrebbe provare ad odiare, ma non ci riuscirà.» Quell’uomo probabilmente non ci era riuscito ed ora in qualche parte del mondo continuava ad amare quella donna narcisista e sadomasochista, pazza, quindi. Andarsene era stato il suo modo di fingere l’odio.
La donna si era liberata di un amore che non riusciva a reggere perché non lo contraccambiava e questo le aumentava il rimorso. O invece il suo bisogno d’amore era superiore a qualunque possibilità di soddisfazione, per ragioni ereditarie o per condizionamenti dell’inconscio sociale? Libera dall’amore vivrà solo nell’odio? È preda definitiva del proprio narcisismo e del proprio sadomasochismo oppure ha avuto soddisfazione vedendosi amata al di là di quanto è umanamente auspicabile? Sta di fatto che non ha più nessuno su cui vendicarsi, nessuno da far soffrire. Non ha risolto di certo i suoi problemi, tanto è vero che mi ha chiesto un’analisi. Forse qualcosa riuscirò a scoprire nel lavoro che ci aspetta; sono però sicuro che il mio dovere è di dare il mio contributo perché gli esseri umani riacquistino la loro capacità di amare e di farsi amare. L’odio è distruttivo anche perché è tanto intrecciato con l’amore.