Psicoanalisi contro n. 79 – Storia e preistoria

gennaio , 1992

Il rapporto con i bambini, per gli adulti, è ad un tempo molto facile e difficilissimo. Facile perché ci si sente spontaneamente disponibili al rapporto con un essere umano che sta iniziando il suo cammino nella vita e che offre un’analoga disponibilità alla relazione, al reciproco rapporto di seduzione. Fin dal primo istante di vita, il feto e addirittura l’embrione, si pongono in relazione non solo con la madre, ma anche col mondo esterno, in modo intenso e dialettica. Non si tratta come si sarebbe propensi a credere di simbiosi, ma proprio di uno scambio tra il mondo che viene percepito e il pulsare vitale di un individuo che si costruisce nella ricerca del rapporto col fuori di sé. Ricordo un fatto che non penso sia attribuibile soltanto ad un mio meccanismo di proiezione. Attendevo in una clinica la nascita di mio nipote, fantasticando su quel personaggio che stava per venire a contatto col mondo e col quale io stesso avrei dovuto in qualche modo entrare in rapporto. Immaginavo di parlargli, mi figuravo di stargli vicino; mi prospettavo tanti scenari possibili. Quello che accadde fu semplicemente questo: quando entrò nella stanza un’infermiera col neonato in braccio io mi avvicinai, protendendo verso di lui un dito a sfiorarlo, la sua mano mi ghermì quel dito stringendolo molto forte. Uno scienziato spiegherebbe subito quel gesto come un riflesso involontario, compiuto nel tentativo di stringere ancora i pugni nella positura per lui abituale nel ventre materno. lo sono sicuro che questa spiegazione non è però sufficiente. Pur tenendo conto delle mie proiezioni e benché non ignori la presenza di quei riflessi, mi rifiuto di esaurire con queste spiegazioni il significato di quel gesto, nel quale sono certo di avere avvertito anche il desiderio di un rapporto. La voglia di percepire il mondo e di farsi percepire. Questa può sembrare una fantasia senza fondamento scientifico; ma perché le intuizioni dovrebbero necessariamente essere senza fondamento? Ho già altre volte espresso il mio rifiuto di una scienza fondata solo sulla registrazione dei fenomeni e sulla statistica numerica. Sebbene riconosca la difficoltà di distinguere le impressioni personali dalle intuizioni suscettibili di sviluppo su basi scientifiche, tuttavia sono convinto, anche in questo caso, di aver ritrovato l’ennesima conferma che l’essere umano nasce e si costruisce fin da subito nella relazione con l’altro da sé, senza la quale non può sussistere neppure per un istante.
La teoria del narcisismo originario è una fantasia ingenua, per quanto comprensibile, della vecchia psicoanalisi. Il narcisismo primario è teoricamente applicabile solo ad una concezione psicologica di stampo aristotelico che preveda la mente umana come una «tabula rasa» su cui sono destinate ad imprimersi le acquisizioni dei contenuti psichici successivi. Ciò deriva dal bisogno di prefigurarsi un inizio, dal quale far partire la vicenda individuale o universale. L’idea di una psiche già dotata al momento della sua nascita di un corredo di informazioni sembrava e sembra ancora a taluni troppo difficile da capire e quindi Inaccettabile.
Una mia amica, in vena di quei bamboleggiamenti pseudo ingenui, di cui troppo spesso molte donne si compiacciono sperando di piacere, mi raccontava della sua assoluta convinzione che le sarebbe bastato tappare per pochi istanti lo zampillo della sorgente da cui al Pian del Re nasce il fiume Po, perché di conseguenza lo stesso fiume restasse a Torino o nel Delta Padano senz’acqua. Dove nasce il Po, dove nascono i fiumi? Probabilmente nascono dalle nuvole, le quali sono frutto dell’evaporazione dell’acqua dei mari che sono alimentati dai fiumi; ma non è vero neppure questo: il mare preesisteva ai fiumi. Un giorno le terre furono divise dalle acque.

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Nel meccanismo istintuale dell’essere umano è presente il suo bisogno della relazione col mondo; sembra quindi ovvio dedurre che ogni individuo cerchi di entrare in apporto con l’esterno fin da subito. I rapporti intersoggettivi però, per quanto necessari e spontanei, sono anche irti di difficoltà. Le incomprensioni e i fraintendimenti nelle relazioni umane sono continui ed inevitabili. Il bambino presenta inoltre una caratteristica sua specifica di indecifrabilità: comunica con grande intensità, ma i suoi messaggi sono molto difficili da decifrare per chi li riceve. Nel corso della vita, gradualmente, le parole si sostituiscono poi ai gesti e la comunicazione verbale viene a prevalere su quella mimica anche più di quanto sarebbe necessario, portando nuova confusione là dove si era creduto di intervenire per chiarire. Le parole forse hanno preso troppo posto nella vita degli uomini: le convenzioni del linguaggio verbale hanno l’inconveniente di irrigidire e rattrappire la ricchezza della comunicazione, semplificandola in modo eccessivo, però permettono l’illusione di avere codici comuni che consentono l’accesso al pensiero dell’altro.
Un gruppo sociale , abbastanza omogeneo per quel che concerne l’uso di una sintassi linguistica, è in grado di operare fra i suoi componenti uno scambio fitto di opinioni e di giudizi e con buona probabilità questa comprensione è sufficientemente non equivoca. Le parole ordinate in una sintassi, una grammatica e una morfologia, circolano tra gli individui, sono diffuse dai mezzi di comunicazione di massa, diventano patrimonio culturale comune e soddisfanno anche alle esigenze di comunicazione più intime. Tutto questo è vero anche se soltanto un decimo approssimativamente di quello che viene inteso da chi riceve il messaggio è contenuto nell’intenzione di chi lo trasmette. A questo proposito posso riferire un’esperienza personale. lo parlo molto spesso in pubblico e scrivo ancor più spesso, per cui sono molti ad avermi ascoltato o ad aver letto qualche mio testo. Accade quindi abbastanza sovente che mi vengano riferite le impressioni che da questa frequentazione sono ricavate, anche di seconda o terza mano. Ebbene quasi mai ho la soddisfazione di ritrovarvi quello che io ho detto, o meglio: ho creduto di aver detto. Quasi sempre chi mi ha ascoltato o letto ha ricostruito dentro di sè quello che ha creduto essere il mio pensiero. Le ragioni sono molte: narcisismo, presunzione, pigrizia, mie ed altrui, addirittura il disinteresse per gli interlocutori potenziali. Questo malgrado il mio dichiarato proposito di parlare nel modo più chiaro possibile e nonostante a volte dica ciò che penso fin troppo chiaramente. Lo stesso problema mi pongo talvolta a proposito della musica che scrivo: quanto viene travisata, malgrado abbia scelto anche musicalmente di parlare chiaro al maggior numero possibile di persone. In realtà accade che io mi senta molto meno incompreso come musicista, forse perché il linguaggio musicale è meno vincolante di quello verbale.

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Il bambino quindi, pur nella semplicità dei suoi messaggi, è doppiamente frainteso: una volta per quella quota di fraintendimento implicita in ogni rapporto di comunicazione ed una seconda volta perché i suoi messaggi sono particolarmente difficili da capire per gli adulti. Non vengano le mamme, specialmente italiane, a ripetermi il loro solito slogan per cui l’amore materno supera ogni difficoltà e capisce fino in fondo anche quello che non viene detto. Non basta tutto l’amore delle madri e la loro disponibilità a capire davvero: nel mio mestiere di psicoanalista ho avuto modo di imbattermi con le conseguenze di troppi fraintendimenti delle buone mamme italiane e non solo. In parte, certo, per colpa delle madri, ma spesso anche perché i figli hanno voluto deliberatamente che non si capisse davvero tutto di loro.

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Gli adulti credono di migliorare il livello di comprensione coi bambini scimmiottando i loro moduli linguistici in modo ridicolo ed umiliante. Accade così di vedere omoni o donnone cinguettanti di fronte ad un pargolo, usando il birignao, sprecando diminutivi e vezzeggiativi, emettendo suoni onomatopeici: cip-cip, bao-bao, glu-glu e così via. Spesso i piccoli cadono vittime di questi bamboleggiamenti idioti e li fanno propri, magari perfidamente lieti di riscontrare negli adulti tanta stupidità; più spesso però compiacendosene in I modo acritico; non è infatti vero che il l mondo infantile sia meno inquinato di quello degli adulti. Fanno da contraltare ( a quelli che ho appena descritto alcuni é individui adulti i quali si credono in diritto di rivolgersi ai bambini proprio come si rivolgerebbero ad un professore universitario o ad un economista. Usano un linguaggio forbito e compassato, articolato in un periodare sintatticamente complesso; non indulgono a bamboleggiamenti di sorta. Spiegano sempre tutto in modo esauriente, secondo «verità» e «giustizia». Forniscono delucidazioni complete sulla sessualità come sul movimento degli astri.
I bambini rimangono in genere esterrefatti: sbarrano lo sguardo su questi loro interlocutori, di volta in volta annoiati o sopraffatti dall’ilarità, a seconda che si sentano più o meno lusingati dal sentirsi presi tanto sul serio. La giustificazione morale di chi si comporta in questo modo è che il bambino non è un essere inferiore, ma che ha il diritto di essere considerato un piccolo adulto al quale rivolgersi in modo paritario e al quale garantire totale diritto di espressione. lo sono pienamente d’accordo sul diritto paritario del bambino che non considero per nulla inferiore, però sono convinto che abbia anche il diritto ad un suo proprio specifico comportamento anche linguistico, così come l’hanno gli esseri umani in ogni diversa fase del loro sviluppo genetico e culturale. Anche questa sua specificità deve essere rispettata, sebbene mi renda conto che a sua volta non può sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente sociale in cui si sviluppa. È difficile districarsi; proprio per questo è facilissimo commettere errori ogni volta che si entra in un rapporto diretto od indiretto con l’altro, ed ancor più facile se l’altro è un bambino.

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Un giorno mi accadde di sentire una psicoterapeuta kleiniana raccontare, con grande senso dell’ironia, un episodio accadutole. Mentre nel suo studio professionale osservava un bambinetto che giocava con i trenini e pupazzetti lei lo osservava e parlava senza interruzione, cercando di interpretare correttamente ogni gesto del piccolo e di comunicargliene il significato: «Questo è il treno buono, che si scontra con quello cattivo. Tu vorresti distruggere tutto per esprimere la tua aggressività; forse per questo mi hai chiesto la scatola ( di fiammiferi…» La buona signora si sentiva tranquilla, forte della propria superiorità culturale e del proprio ruolo clinico; convinta dell’utilità di dire tutto quanto al bambino, che, anche se non avesse capito razionalmente, tuttavia, almeno subliminalmente, avrebbe forse percepito alcuni messaggi. Restò quindi stupita quando il bimbetto, interrompendo i suoi giochi e guardandola con benevola commiserazione le disse: «Devi stare attenta a parlare così davanti ai grandi, perché se ti sentono pensano che sei stupida.» Quel bambino aveva capito davvero molto più della terapeuta, oppure la sua era soltanto una difesa da quello che non voleva accettare?

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Sembrerebbe conseguente quindi auspicare che nel rapporto coi bambini si faccia ricorso ad un linguaggio verbale intermedio: allo stesso tempo abbastanza semplice, ma preciso, in grado di servire da stimolo, senza lederne la dignità. In realtà il concetto di «bambino» è un concetto astratto che dovrebbe designare l’essere umano nei suoi primi anni di vita, ma l’evoluzione ha una diversa velocità a seconda delle singole situazioni e i parametri di giudizio sono molto variabili; tutti elementi di cui ogni volta è indispensabile tener conto per impostare un rapporto corretto. Ci si trova sempre di fronte al bambino che noi stessi abbiamo costruito, con le caratteristiche che gli abbiamo voluto attribuire. Anche in questo campo, l’oggettività è impossibile: il bambino è anche la descrizione di un bambino operata da una determinata ottica culturale, in funzione di specifiche intenzioni pedagogiche. Ciò vale per qualunque ordine di concetti riferiti all’essere umano: ad esempio si diventa vecchi quando si corrisponde alla descrizione che il gruppo sociale di appartenenza fa della vecchiaia, secondo criteri di produttività, o di fecondità, o altri ancora. Pochi
sono coloro, vecchi o bambini che riescono a sottrarsi alla catalogazione che i gruppi sociali impongono ai loro membri, e per questi si potrebbero ipotizzare linee di sviluppo descrivibili in un altro modo.

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È possibile affrontare il disagio psichico di un bambino, anche molto piccolo, usando strumenti psicoanalitici?
La cura psicoanalitica presuppone tra i suoi elementi anche la presa di coscienza.
Come si può pretendere che questo avvenga da parte di qualcuno la cui coscienza è solo in via di formazione? Si potrebbe molto sbrigativamente replicare che la coscienza per l’essere umano coincide con la consapevolezza che egli ha di sé, quando cioé diventa autocosciente.
In genere si fa coincidere questo momento col passaggio dall’uso della terza persona singolare, riferito a se stesso, all’uso del pronome «io». A me non pare così sicuro che tale cambiamento coincida con la coscienza di sé. La riflessione su di sé e la percezione del sé può già essere molto intensa prima che intervenga un cambiamento che mi sembra più che altro legato alle convenzioni della parola.
Un po’ allo stesso modo si è deciso che l’essere umano non fosse consapevole di sé fino a quando non incominciò a raccontare la propria storia, percependo la come tempo passato, e si è denominato tutto il periodo antecedente come «preistoria». L’individuo e la specie, allo stesso modo, riescono a raccontare solo in parte il loro passato, dietro al quale si intravedono però le tracce di un’esperienza vissuta. A volte può soccorrere il racconto fatto da altri o l’osservazione per analogia di altri individui o popoli.

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Nell’inconscio si ritrovano tracce delle primissime esperienze di vita, addirittura ricordi, sensazioni, fantasie legate al periodo pre-natale, difficilmente isolabili, perché frammiste alle razionalizzazioni ipotizzate nel periodo successivo attraverso la narrazione verbale. Non è neppure facile sapere se quello che emerge nei sogni sia riferibile ad esperienze reali o frutto di fantasie, importanti pure queste per l’effetto che hanno sulla formazione dell’individuo. La psicologia e la psicodinamica concordano nell’affermare che nei sogni si esprimono tutte insieme, fantasie ed esperienze realmente vissute dei primi momenti di vita fin nel grembo materno.
Una mia paziente mi raccontava un sogno ricorrente: usciva da una caverna e si trovava in un lago, caratterizzato da due penisole, una alla sua destra e l’altra a sinistra, protese nell’acqua. Sembrava facile anche a lei dire che quell’immagine si riferiva all’uscita dal ventre della madre. Questa donna non aveva mai conosciuto la propria madre, che l’aveva abbandonata, lasciandola al padre pochissimo tempo dopo il parto. Non l’aveva mai più rivista e neppure aveva avuto contatti con la famiglia di lei. Stranamente non era riuscita neppure a rintracciare fotografie che la ritraessero, forse perché il padre le aveva distrutte. Il sogno continuava con lei che si sentiva prigioniera di tutta quell’acqua e veniva presa dall’ansia che la opprimeva fino ad un punto in cui il senso d’oppressione si scioglieva in una benefica sensazione di calore.
Durante il lavoro dell’analisi avvenne un fatto importante: il padre , ormai anziano, le volle parlare. Disse che non le aveva mai voluto dire della madre che era una pazza su cui pesava una diagnosi di schizofrenia. Durante la gravidanza le sue condizioni parevano aver registrato un notevole miglioramento: si erano attenuate le allucinazioni e le crisi deliranti.
Un giorno l’aveva trovata riversa nel letto: aveva partorito una bambina, senza alcuna assistenza. Il padre le aveva trovate entrambe immerse in un lago di sangue e la piccola stava lì inerte tra le gambe della madre da chissà quanto tempo. Aveva cercato soccorso ed era riuscito a salvarle entrambe. Era solo una coincidenza che quel sogno ritornante fosse così significativo?

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Alcuni studiosi hanno teorizzato che nei sogni siano talvolta rappresentate esperienze che non appartengono strettamente all’individuo, ma che sono del gruppo da cui egli ha origine: immagini ed esperienze vissute da lontani progenitori che si sono trasmesse attraverso un meccanismo filogenetico fino al presente. Senza dubbio non è facile distinguere la fantasia dalla realtà, sapere cosa attribuire con precisione al patrimonio genetico e cosa ad una forma incontrollata di pensiero che si coagula in immagini, ma forse non è neppure molto utile per i fini terapeutici che la psicoanalisi persegue. Quello che importa è ciò che si trova nell’inconscio:
quando una fantasia è così persistente e sedimentata agisce come se fosse il frutto di un’esperienza reale nella costruzione e formazione delle caratteristiche individuali. È quindi comunque importante capire come ha agito dentro ed intorno all’individuo; dal momento che l’inconscio non è interamente rinchiuso all’interno della persona, ma la avvolge e media il suo rapporto col mondo. Se non si capiscono anche i messaggi che sono giunti dall’ambiente circostante, non è possibile assolutamente che si capisca la storia individuale di chiunque. Nessuno è solo nel mondo: siamo frutto di quello che ci sta intorno e alle spalle, da cui siamo stati manipolati e che ci ha costituito: la mia storia è anche la storia di tutti gli altri. Il mio inconscio è formato anche dai contenuti dell’inconscio sociale del mio gruppo d’appartenenza.

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Per districarsi e non restare paralizzati, bisogna scegliere un’ipotesi di lavoro sulla base della quale operare. Per quanto la scelta di una metodologia sembri imbrigliare la libertà della ricerca. In realtà ogni scienziato cerca solo ciò che ha deciso di voler trovare, se così non fosse si perderebbe nell’equivalenza delle ipotesi, nell’indifferenza delle scelte. La scelta ovviamente non deve escludere la disponibilità a considerare le altre ipotesi, a considerare criticamente le proprie. Sono indispensabili griglie in cui collocare via via gli elementi che emergono, anche se così facendo si rischia di lasciare per strada spunti che avrebbero potuto portare ad interessanti conclusioni. Il caos è nemico della scienza. La psicoterapia deve essere fondata su saldi principi meta psicologici.
Tutto questo non va inteso come un invito al dogmatismo. Per quanto mi renda conto che il mio può sembrare solo buon senso spicciolo, io dico che bisogna essere cauti, coraggiosi e spudorati allo stesso tempo.

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Non ho risposto alla domanda prima formulata: si può intervenire psicoanaliticamente nella cura del disagio psichico infantile? Ho fatto notare come sia a questo proposito problematico il fatto che i bambini non posseggano pienamente il linguaggio parlato, ho anche prospettato l’ipotesi che per la formazione della coscienza non sia però indispensabile l’acquisizione di tale padronanza del linguaggio verbale. Ci sono le parole dette, ma anche le parole sentite. Non è d’altra parte giusto imporre al bambino fiumi di parole, che potrebbe anche non comprendere, solo perché pensiamo che qualcosa comunque potrebbe restare ed agire. Forse la soluzione è che i bambini possono essere osservati fin dalla prima infanzia e possono essere compresi applicando le categorie della psicoanalisi all’inconscio sociale da cui mutuano il proprio inconscio individuale. Nessun bambino è solo «quel bambino».