Psicoanalisi contro n. 82 – Regni del male

gennaio , 1992

Il nostro mondo è intriso di male. I tre “regni”, in cui per comodità possiamo qui suddividere la realtà vivente: mondo vegetale, animale ed umano sono continuamente percorsi da lotte, sopraffazioni, espropriazioni, dolore e violenza. La più innocua pianticella dai teneri fiori azzurri o rosa ha modi di affermazione brutali ed aggressivi nei confronti dell’arbusto col quale ha in comune il terreno, tentando di assimilare solo per sé tutte le risorse nutritive, e giunge fino a togliergli l’ossigeno di cui quello ha bisogno per sopravvivere, a sottrargli la luce del sole, coprendolo col proprio fogliame. Potremmo dire, volendo trasporre in quel campo categorie di giudizio psicologiche, che il regno vegetale è caratterizzato dal narcisismo più assoluto: ogni stelo si comporta come se fosse l’unico essere esistente, pretendendo per sé solo tutte le risorse nutritive ed ambientali che gli possano garantire la sopravvivenza nelle migliori condizioni. Non sappiamo se in questa pratica «assassina» nei confronti delle altre forme di vita ci sia anche godimento; io penso di sì. Narcisismo e sadomasochismo sono condizione del vivere in tutte le sue stratificazioni e quindi anche della vita della lattuga, della violetta o del jakaranda di crepuscolare memoria. «Non c’è pace tra gli ulivi». ( La casa in cui mi ritiro ogni settimana per alcuni giorni, cercando di pensare, di scrivere e di rilassarmi, è circondata da ulivi: ho osservato con attenzione amorevole la crescita di quei tronchi ruvidi e contorti. Fortunatamente, per ragioni che il contadino e l’agronomo ben conoscono, ogni albero è piantato ad una distanza sufficientemente grande dall’altro; ma il caso ha fatto da poco nascere tre piccoli ulivi nel vicino boschetto di acacie, uno accanto all’altro. Li ho visti ingaggiare tra loro una lotta mortale, il più debole si è seccato quasi subito, il secondo vivacchia stentatamente, mentre il terzo ha trionfato: le sue foglie d’argento scintillano alla rugiada del mattino. È facile farmi notare un’eccessiva mia tendenza antropomorfizzante; ma resta il fatto che l’ulivo non ha usato la stessa violenza su altre piante che gli stanno intorno, concentrandola su due individui della propria specie, nei confronti dei quali la sua affermazione è stata spietata. Potrei così dire che anche tra le piante il sadomasochismo è presente non meno del narcisismo. Vive con noi un cane al quale ho dato il nome di Ruperto, lo stesso nome del primo vescovo di Salisburgo;
è un pastore maremmano-abruzzese che vanta un albero genealogico da far impallidire il Principe di Galles.
È bellissimo ed inoltre è indicibilmente buono. Ci rotoliamo nei prati e lui mi guarda con occhi teneri e profondamente innamorati; se io mi distraggo, lui con la zampa mi cerca e mi chiede carezze. Giochiamo anche «alla lotta», ci ringhiamo l’un l’altro, ci attacchiamo e poi stanchi ci addormentiamo nell’erba. A me sembra il cane più buono del mondo. Eppure un giorno l’incauto cane del pastore che nel prato vicino pascola il suo gregge osò avvicinarsi troppo a me e al territorio che Ruperto considera proprio. Whisky (così si chiama quel cane) non aveva intenzioni aggressive, cercava solo qualche carezza mia, con timidezza e umiltà, ma non riuscì ad evitare che il mio cane gli si avventasse all’improvviso contro con una furia mai vista in lui prima, addentandogli un orecchio senza più lasciarlo, malgrado i guaiti disperati. Io e i miei amici vedemmo schizzare il sangue dal vortice dei due corpi avvinghiati e qualcuno di noi tentò con tutte le sue energie di far mollare la presa a Ruperto nei cui occhi si leggeva una vera e propria furia assassina, senza riuscirci. Decise da solo quando lasciare la preda. In seguito fu punito con durezza, privato della nostra compagnia e dei nostri giochi; accettò con rassegnazione, ma lasciando chiaramente capire di non essere d’accordo, di sentire offeso il proprio senso della giustizia: lui aveva fatto quello che doveva essere fatto, in obbedienza alla sua legge, misteriosa forse anche per lui oltre che per noi. Un odio antico gli aveva imposto quel comportamento malvagio ed io ne fui addolorato e soffro anche perché il piccolo Whisky ora mi guarda solo di lontano, giustamente offeso anche con me. Io non sono contento di ciò che è accaduto e di aver dovuto constatare di persona che anche nel regno animale l’ingiustizia regna sovrana.
Per quel che riguarda gli esseri umani non c’è bisogno che sia io ad addurre un’infinità di esempi in cui apparirebbe evidente quanto la vigliaccheria e la cattiveria imperino in ogni dove: nelle cupe foreste dell’Africa centrale o nei polverosi e sudici uffici postali d’Italia. È troppo facile sottolineare quanto il rispetto della dignità umana non esista in alcun luogo dell’occidente o dell’oriente.
Ovunque il più forte opprime il più debole; l’arroganza trionfa negli stadi, ma anche nelle scuole e nelle chiese. Può darsi che una rosa ami un’altra rosa, che un elefante sia tenero con un altro ospite della savana, spero che qualche essere umano sia capace di innamorarsi di un suo simile, però l’odio è così preponderante nell’universo e l’amore così incerto!

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In questa realtà dunque in cui l’odio, la lotta e la sopraffazione sembrano avere l’assoluta preminenza che senso può avere voler parlare di altruismo e di amore? Non significherebbe nascondersi dietro ad una inveterata cattiva coscienza? Non è meglio accettare la verità di fatto anche se così sgradevole? L’egoismo trasforma ogni essere umano in una belva che vuole sbranare e sopraffare l’altro, alla ricerca sempre e solo del proprio vantaggio. Tutti vogliamo vivere, ma la vita di ciascuno si afferma a spese di ogni altro: «Mors tua, vita mea.» Io non credo nella validità apodittica di queste frasi che la tradizione ha ormai incistato nel nostro inconscio sociale; però non posso fare a meno di verificare, magari con disperazione, che quell’ambiguo proverbio latino possiede una sua terribile validità: vivere vuoI dire uccidere.
Una tra le mie convinzioni più profonde, che continuo a sbandierare (e l’ho fatto anche quando il farlo costava un prezzo molto alto) è quella che l’aborto sia un gesto omicida, malvagio ed empio: nessuna coppia ha il diritto di uccidere per recuperare una presunta tranquillità turbata da un concepimento conseguente ad un gesto inesperto; nessuna donna ha il diritto di sentire ciò che sta germogliando nel suo ventre come sua esclusiva proprietà, al punto di poter decidere di stroncarlo. I figli non sono proprietà dei genitori: è questa una verità profonda contro la quale non si dovrebbe mai andare. La piccola vita dell’embrione anche nella fase iniziale in cui è composto da due minuscole semi-cellule tenta disperatamente di affermare il suo diritto alla sopravvivenza, questo diritto deve essere sempre rispettato, soprattutto dal padre e dalla madre. Io sono più che favorevole a tutte le tecniche contraccettive (purché non siano aborti mascherati). Il rapporto sessuale deve essere un gesto libero ed entusiastico, i corpi debbono potersi penetrare ed avvolgere come le anime, si deve esaltare la bellezza fisica ed apprezzare tutta la sessualità nel rispetto e nell’amore per l’altro. Triste è solo la sessualità che diventa strumento di sopraffazione e mezzo di distruzione, senza gioia e senza il piacere di vivere. Io credo nella vita e nella sessualità, voglio rispettare l’una in tutte le sue forme e conoscere la seconda in tutta la sua ricchezza; la mia è una scelta morale e una scelta politica.

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Se però io fossi coerente e tenessi conto delle considerazioni che avevo fatto all’inizio di queste righe dovrei essere assolutamente favorevole al cosiddetto «aborto»; dovrei anche sostenere il capitalismo più sfrenato e il razzismo più ottuso, dovrei accettare lo sfruttamento, la sopraffazione e la violenza; dovrei dire che è giusto sopprimere una vita che ancora non è autonoma, se la sua sopravvivenza disturba quella di uno o di entrambi gli individui che l’hanno generata; dovrei dire che è giusto che qualcuno viva in modo che la sua miseria mi garantisca un serbatoio di manodopera a basso costo o l’acquisto a prezzi di rapina di materie prime che migliorino la qualità della mia vita. Potrei anche, dopo, parlare di amore, altruismo, collaborazione, di generosità al fine di convincere gli altri, di ottenere la loro fiducia, per determinare il mio successo in politica. Non è un mistero che mafiosi, camorristi e malavitosi assumano abiti rispettabili, appaiano tra i sostenitori della legalità ufficiale, abbiano posti d’onore ai funerali di Stato, siano tra coloro che porgono le condoglianze alle vittime della loro stessa violenza.
Forse bisognerebbe accettare apertamente e spudoratamente la logica della lotta sempre e contro tutti; sforzarsi di essere “lione e golpe” come suggeriva Machiavelli al suo Principe; in apparenza fingere di essere dalla parte del bene e operare nascostamente il male a proprio vantaggio. Ma se il gioco degli inganni viene apertamente ammesso allora viene meno la sua ragion d’essere e questo non è compatibile con l’ordine universale delle cose. D’altro canto a che serve essere consapevoli del male se non c’è possibilità di fare una scelta diversa?

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Nonostante tutto io ho la presunzione di aver fatto la mia scelta morale e scientifica. Moralmente penso sia di fondamentale importanza credere nell’amore ed operare altruisticamente, pur nella consapevolezza che anche queste convinzioni si radicano sulla ricerca del proprio personale piacere e che partecipano in qualche modo dell’egoismo universale. lo voglio prima di tutto essere felice; ma non voglio che la mia felicità sia costruita sull’infelicità di altri. Sono un essere umano che vuole essere rispettato e per questo soffro quando vedo vilipesa in me e negli altri la dignità umana. La vecchia formula kantiana che sembra oggi obsoleta è per me ancora profondamente valida: «Opera in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo» (Cfr. Kant, Critica della Ragion pratica) Io ritengo però di radicare questo imperativo nel più profondo significato esistenziale: il mio rispetto per l’umanità che è in me e negli altri non vuole essere astratto e tanto meno formale, so infatti che può contribuire a rendere felice me e gli altri. Non ho paura che la mia esaltazione del piacere mi faccia giudicare epicureo, sensista od edonista, perché sempre antepongo il rispetto per gli altri e quello per me medesimo. Amo gli altri e voglio essere amato. Questa è probabilmente una scelta assurda che già hanno fatto alcuni antichi filosofi elleni e che ha fatto un certo Gesù di Nazareth. Io credo nell’importanza dell’amore universale, anche se so che è continuamente contraddetto.
Sono certo un ingenuo, ma questo è un mio orgoglio.

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La mia scelta dell’amore, come impulso originario è anche scientifica. So benissimo che ogni scelta che uno scienziato viene operando si radica sempre anche nei suoi desideri e nelle sue fantasie. Poco tempo fa ho avuto modo di seguire alla radio una discussione molto interessante, non tanto per gli argomenti che dibatteva, ma per la posizione dei partecipanti. Si parlava delle medicine «alternative» e si contrapponevano ai più diversi tipi di «guaritori» i medici ufficiali dell’occidente, con tanto di laurea e specializzazioni, conoscenza dei prontuari, capacità assoluta di decifrazione di quei fogliettini informativi che accompagnano quasi tutte le confezioni di medicinali. Costoro però apparivano così tronfi ed ignoranti nei confronti della loro stessa scienza di cui dimostravano di ignorare la storia da risultare assai poco attendibili. Dal canto loro i rappresentanti della medicina alternativa apparivano quasi teneri nella totale sprovvedutezza, inesperti ed ignari dei principi su cui affermavano di basare il loro intervento, tanto che si poteva tutt’al più apprezzare una certa maggiore disponibilità verso le esigenze umane dei loro pazienti cui si accostavano, magari solo per timidezza od insicurezza, con maggiore rispetto di quanto non facciano i medici tradizionali. Ad un certo momento si inserirono nel dibattito un uomo e una donna raccontando ciascuno una propria esperienza. Entrambi avevano sofferto di patologie gravissime che la medicina tradizionale non era riuscita a curare e che erano state debellate da terapie alternative. A quel punto i medici in studio si irritarono profondamente giungendo a dire la cosa più idiota ed antiscientifica che potesse loro venire in mente, affermando che si contrapponevano alle loro argomentazioni due «aneddoti» che non rendevano conto della ragioni che avevano determinato la scomparsa di quei sintomi patologici. Non si rendevano conto i nostri dottori che qualunque ricerca scientifica ha bisogno anche di basarsi su osservazioni empiriche dalle quali solo in seconda istanza possono essere dedotte o indotte cifre statistiche.
Le percentuali di efficacia di qualunque intervento terapeutico nascono dalla risoluzione di casi singoli, di «aneddoti», proprio simili a quelli appena narrati. La statistica quando è scienza onesta e non inventa i suoi dati, codifica esperienze empiriche raggruppate poi secondo parametri standardizzati.
Io non voglio essere un Pilato vigliacco e quindi dirò che tra la medicina occidentale violenta e strumentalizzata dalle multinazionali chimico-farmaceutiche e le medicine alternative così evanescenti, esoteriche e poco verificabili io scelgo un diverso modo di gestire entrambe.
Tutti i ricercatori scientifici dovrebbero fare su di sé un lavoro terapeutico attraverso la psicoanalisi che permetta loro di acquistare almeno un poco della necessaria consapevolezza indispensabile in un lavoro come quello della ricerca, nel quale troppo facilmente si perdono di vista le motivazioni di partenza e gli scopi finali.
La ricerca e la sperimentazione sono però fondamentali per il procedere di qualunque conoscenza e non c’è possibilità di crescita per nessuna alternativa che sfrutti esoterismo ed ignoranza per operare interventi terapeutici di cui non si possano esplicitare i principi, i metodi e gli effetti.