Psicoanalisi contro n. 87 – La passeggiata in giardino

gennaio , 1992

Se, per un verso, è corretto osservare l’infanzia con un atteggiamento che ne rispetti la specificità, per un altro verso, considerare i bambini troppo diversi dagli adulti è molto rischioso. Bisogna innanzi tutto essere consapevoli che, fin dai suoi primi istanti di vita, l’essere umano ha piena dignità e che questa dignità deve essere rispettata e difesa. Eccessive discriminazioni possono trasformarsi in ghettizzazioni che espropriano. Anche insistere troppo sui concetti di spontaneità, purezza, ingenuità dei bambini può essere pericoloso, proprio quanto lo è esaltare il mito del «buon selvaggio», che, dopo secoli, resta a fondamento di molti aspetti del razzismo. Attribuire ad un gruppo di persone caratteristiche eccessive di bontà, schiettezza, semplicità significa distinguerlo dagli altri, isolarlo, stabilendo una frattura artificiale ed artificiosa di diversità. Bisogna quindi ribadire che i bambini sono persone nella pienezza dei diritti, e che il fatto che sia necessario gestirli in parte ed educarli non ci autorizza a pensare che non siamo tenuti ad un comportamento rispettoso nei loro confronti. Questo sebbene non ci si debba nascondere che esistono condizioni di dipendenza psico-fisica che non ci permettono di riprodurre tale e quale lo schema di comportamento relazionale al quale ci conformiamo nei rapporti con gli adulti. lo ho sempre guardato con molta diffidenza alla psichiatria infantile e alla psicoanalisi applicata all’infanzia. Contesto per esempio dal punto di vista scientifico, ma anche pedagogico e morale, tecniche come quella montessoriana che relega i bambini in universi particolari, dove tutto è a misura di gnomo, nell’illusione di riuscire così a stimolare artificialmente le loro facoltà sensoriali e mentali nell’impatto con modelli in scala. In questo modo i bambini non vengono preparati all’inserimento nel mondo quale è, ma in queste «case di tolleranza» gli educatori fingono un mondo compiacente, che finirà per indurre una sorta di delirio quando l’impatto con la realtà sarà non più procrastinabile. Nella mia esperienza clinica ritengo di aver rintracciato spesso in individui adulti, fortemente caratterizzati da disturbi di tipo narcisistico, o con sintomi di depressione grave, elementi patogeni derivanti inequivocabilmente da una educazione montessoriana. Io penso che i bambini debbano essere messi a confronto con il mondo degli adulti, debbano imparare a trovarvi il loro posto ed anche in parte a controllarlo. Indubbiamente bisogna porsi il problema di conoscere il bambino, rendersi conto di quanto la sua personalità sia condizionata dal momento evolutivo che sta attraversando e quanto invece egli sia costretto ad essere ciò che il gruppo sociale si aspetta che sia. Se mutano gli stimoli ambientali, mutano anche le personalità infantili che ci troviamo di fronte. Comunque non dobbiamo dimenticare che il bambino è la risultante di almeno tre componenti fondamentali che contribuiscono a costituirlo: l’ereditarietà istintuale e genetica, la storia individuale, i condizionamenti dell’inconscio sociale. Capire questo non vuol dire accettare acriticamente, ma significa anche porsi dialetticamente rispetto all’altro: confondere troppo l’io e il tu rischia di disorganizzare le strutture psichiche di chiunque e in special modo quelle in via di formazione. D’altra parte, finché siamo nel mondo e ci muoviamo accettando di ricevere ed inviare stimoli di qualunque genere, dobbiamo cercare di orientarci. Nei rapporti coi bambini, specialmente, bisognerebbe comunque sforzarsi di ridurre la prevaricazione; ma ciò non significa rifugiarsi in una neutralità indifferente, che è anch’essa dannosa. La mia è sempre un’esortazione all’equilibrio, sono però consapevole di quanto sia difficilmente raggiungibile. Il mio obiettivo è di dare alle persone strumenti per comprendere la situazione esistenziale e psichica dell’infanzia, per questo mi sforzo, insieme ai miei collaboratori, di mettere a punto metodi e strumenti utili all’intervento pedagogico e terapeutico. Allo stesso tempo mi sforzo di non enfatizzare troppo la particolarità della condizione infantile: il bambino non è un mostro né un «buon selvaggio» e se di lui si può anche dire con Sigmund Freud, che è un «perverso polimorfo», è tuttavia sbagliato permettere che una tale definizione lo imprigioni.
La psicoanalisi e la psicopedagogia dovrebbero insegnare che tutti gli esseri umani sono perversi polimorfi e molte delle licenziosità che vediamo agite dai bambini le ritroviamo non solo nelle fantasie, ma anche nel comportamento degli adulti, che solo a fatica però riescono ad ammetterlo.

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Ora voglio fare un’altra considerazione che solo apparentemente sembrerà allontanarsi dal discorso fin qui fatto. Spero che tutti quelli che affrontano i problemi connessi al disagio mentale grave siano ormai liberi dai luoghi comuni di un recente passato che vedeva nella follia una condizione di libertà creativa. La realtà della sofferenza dovrebbe averci tutti liberati da certe illusioni demagogiche e ingenuamente pseudo-poetiche: la malattia mentale è distruttiva ed impoverisce la creatività delle persone, che finiscono col subire una sorta di schiavitù senza speranza. Tempo fa parlavo con una persona che aveva conosciuto tale condizione da cui solo con lentezza era uscita, riappropriandosi di se stessa e del mondo, riacquisendo poi una sua capacità artistica di comunicazione, finalmente libera dalle angosce della pazzia. Nel corso della nostra conversazione la riudii pronunciare frasi piuttosto convenzionali, dalle quali sembrava trasparire una sorta di nostalgia per lo spunto creativo in condizioni particolari di follia, in aggiunta a considerazioni generiche sulla pazzia in generale, che non si può evitare, ma che non si vuole ammettere e via banalizzando. Mi infastidiva quel genere di chiacchiere e riuscii a riportare la conversazione su altri argomenti; ma con mio stupore, proprio quando io stesso mi ero scordato di quelle sciocche considerazioni, il mio interlocutore vi tornò sopra cambiando completamente tono: « La pazzia è terribile, mi costa fatica riconoscerlo, ma non vorrei mai più sentirmi espropriato come allora, per questo voglio scordarmene o illudermi che fosse diverso.» Dopo quella frase riprese a conversare come se niente fosse. Aveva cercato quasi con disperazione di salvare qualcosa di un’esperienza che gli era appartenuta; ma la ripetizione di quelle formule, abusate da una psichiatria falsamente liberatoria e stantia, ora non gli bastava più, le aveva sentite false nel momento stesso in cui le aveva pronunciate e un bisogno di sincerità lo aveva spinto a sconfessare se stesso. Sotto riuscivo a percepire la voglia di insistere e forse avrei dovuto avere il coraggio di aiutarlo a rendere esplicite riflessioni che lo tormentavano, ma era subentrato in me un pudore che voleva ad ogni costo rispettare quella che percepivo come una realtà troppo dolorosa per lui. Io spesso mi domando quanto i miei comportamenti siano condizionati da un atteggiamento terapeutico anche involontario, quanto sia ormai capace di reagire come un uomo qualunque; forse dovrei rassegnarmi a questo ruolo terapeutico che non mi abbandona più; per contro, allo stesso tempo, sono rassegnato ad essere personalmente partecipe delle storie terapeutiche in cui mi trovo coinvolto, incapace di un vero distacco «professionale».

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Dopo tanti anni dunque di frequentazione della follia e delle sue vittime, debbo dichiarare che poca poesia ho avuto modo di incontrare ed invece tanta disperazione.
Poesia è possibile trovarne in ogni situazione esistenziale, se qualcuno è disposto ad affrontare una realtà anche durissima con amore per gli altri e per sé; ma si tratta di ben altro che di quegli stereotipi ripetuti e violenti che l’inconscio sociale impone a chi incarna il ruolo del pazzo. Stereotipati sono anche i moduli della follia: quasi sempre prevale la fantasia delirante di organizzazioni segrete di controllo, che impongono gesti o inviano messaggi, voci che incitano alla violenza contro se stessi o contro altri; poi anche strani rapporti con divinità onnipotenti. Deliranti ossessioni di trame di tutti contro tutti, con intervento di apparecchiature di controllo e trasmissione del pensiero, che avvolgono l’io annichilendolo. Solo raramente si esce da questi moduli e quando ciò avviene il rischio è di restare troppo facilmente affascinati da un genere di delirio che colpisce per la sua singolarità ed insinua il dubbio. Quello che voglio dire è che la follia molto spesso è il sintomo di una degenerazione che colpisce, appiattendole, realtà drammatiche anche molto ricche e spesso il dubbio viene se giudicare quella ricchezza emozionale già un sintomo della malattia o riconoscerla invece come l’ultimo tentativo di ribellarsi al male. Di fatto bisogna avere il coraggio di affrontare il delirio senza compiacimenti intellettualistici e capire bene quando la gabbia del narcisismo e del sado-masochismo sovrapposti si è chiusa imprigionando una mente che non è più libera.

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A questo punto vorrei unire i due discorsi fin qui condotti, affrontando il problema del disagio mentale grave nel bambino.
Un tempo si tentava di negare l’ipotesi nosografica di una vera e propria follia in soggetti molto giovani; si preferiva dire che non era possibile affermarlo con sicurezza o che era troppo difficile formulare diagnosi precise. Il bambino sembrava ancora troppo immerso nella sfera dell’inconscio e si insinuava che con facilità fosse possibile ingannarsi, ritenendo manifestazioni psicotiche quei comportamenti che invece sarebbero da attribuire allo sforzo di adattamento del bambino all’ambiente e ai suoi tentativi di appropriarsene.

Alcuni ricercatori hanno tentato di distinguere le anomalie di origine neurologica, oggettivamente riscontrabili, dal disagio psichico vero e proprio, difficilmente isolabile dal contesto comportamentale ed ambientale. Partendo poi dallo studio dell’autismo infantile, riscontrabile spesso in forme gravi e distruttive, quella prima distinzione perse di significato. Certo, i tipi di disagio sono diversi ed anche nel bambino ci sono quelle patologie che riguardano più da vicino l’aspetto organicistico e quelle che sembrano più di ordine psichico o mentale che dir si voglia. Queste ultime si sono venute però sempre più evidenziando per la loro gravità. Si sono impegnati nel tentativo di lettura e spiegazione in particolare quei teorici delle fasi dello sviluppo, tentando di stabilire un rapporto tra l’età e i comportamenti adeguati in mancanza dei quali si può parlare di disturbo patologico. Sappiamo bene che i bambini, come gli adulti, sono in parte anche un’invenzione del gruppo sociale, per cui il loro comportamento deve di fatto corrispondere alle aspettative della società in cui crescono e se non ci riescono vengono in qualche modo considerati malati. Si è tentato di allontanare il problema della malattia mentale infantile parlando di disturbi del carattere, di disadattamento; ma questo non è bastato a spiegare scompensi gravissimi e deliri irreversibili. Purtroppo la psicologia evolutiva, filo genetica od epigenetica, con il suo bisogno di fissare percorsi, predeterminare tappe e stabilire compiti, costruire schemi e compilare tabelle ha finito col danneggiare i bambini. Soprattutto la diffusione indiscriminata dei test ha intorpidito la mente di pedagoghi e psicologi, troppo facilmente alla ricerca di risposte standardizzabili e decodificabili in base a parametri preordinati. I disastri provocati sono stati tanti, principalmente a causa dei madornali errori diagnostici, ma non si è trovata finora una valida alternativa. L’unica possibilità mi pare sia quella di diminuire l’importanza dei test, limitandosi a prenderli in considerazione per un loro valore orientativo di massima ed insistendo invece sull’ osservazione diretta, sforzandosi di capire «sul campo» la sostanza di fenomeni troppo complessi e specifici per essere generalizzati in schemi. Galileo diceva che gli aristotelici del suo tempo vivevano in un mondo di carta ed erano incapaci di affrontare direttamente la realtà. Lo stesso vale oggi per molti psicologi sperimentali che restano prigionieri di un mondo di carta, indifferenti alla realtà vitale e continuamente mutante in mezzo alla quale vivono. Oggi il bambino e l’adolescente non sono più solo le astrazioni descritte nei trattati e nemmeno invenzioni poetiche, ma esseri umani che da poco si sono affacciati in questo complesso mondo. La psicoanalisi, che tanta importanza ha dato all’infanzia e in particolare alla primissima infanzia, si è poi trovata, malgrado tutto, molto a disagio quando ha dovuto affrontare metapsicologicamente e terapeuticamente i problemi infantili. Melanie Klein e Anna Preud hanno però aperto una strada quanto mai ricca di prospettive per il lavoro successivo, proprio col coraggio dimostrato nell’affrontare direttamente la psiche del bambino; facendo uso di grandi capacità intuitive e molto deducendo dal comportamento degli adulti. Anche grazie a loro la follia dei bambini si è rivelata come un fenomeno grave e non più trascurabile.

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Ho detto che le vittime adulte della follia subiscono anche le conseguenze di un impoverimento spirituale che le priva di creatività e di poesia, facendole sprofondare nell’ovvietà e nella banalità degli stereotipi più squallidi. Ho anche sostenuto che, nonostante si debbano prendere tutte le cautele necessarie, non è più negabile l’ipotesi della follia infantile. A questo punto mi trovo nella necessità di aggiungere qualcosa che mi turba ed anche mi disturba: nella mia lunghissima pratica terapeutica diretta o di supervisione, mi sono trovato ad affrontare più volte casi di analisi con bambini ed adolescenti; eppure debbo riconoscere, con mio stupore, che quasi mai in tutti questi casi ho ritrovato la squallida banalità acquiescente che ho invece riscontrato quasi sempre nel trattamento degli adulti. Per quanto grave fosse il disturbo, di allucinazioni, delirio ed impulsi aggressivi ed autodistruttivi, per quanto rigida fosse la sovrapposizione delle difese narcisistiche e sadomasochistiche, pur tuttavia ho quasi sempre dovuto rilevare il permanere di una ricchezza di fantasia interiore, spesso poetica ed originale. Questo malgrado la sofferenza di creature che vivono immerse in condizioni di angoscia indescrivibile, che appena riescono ad esprimere, più o meno indirettamente, nei sogni, nei giochi, nei disegni.

Mi sono posto la domanda se nel bambino la follia non sia così distruttiva come nell’adulto e se in questo caso si possa ancora legittimamente parlare di follia; ma subito dopo mi sono chiesto se diversificare così tanto la nosografia infantile da quella dell’età adulta non significhi nuovamente differenziare troppo il bambino dall’uomo, ghettizzandolo un’altra volta.

Da una parte mi pare di osservare che la perdita del senso di realtà e la sofferenza siano innegabilmente sintomi patologici che hanno la stessa sostanza in bambini ed adulti; ma d’altra parte non posso negare una specificità della follia infantile, che mi pone interrogativi metodologici, nella teoria e nella prassi terapeutica, quasi irrisolvibili.

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Una bambina di cinque anni, travolta da un’angoscia straziante, risucchiata in un mondo fantastico di morte e di paura, racconta i suoi sogni e i suoi deliri al terapeuta, con una ricchezza di linguaggio che evita ogni stereotipia. Disegna un giorno su di un foglio di carta quelli che per lei sono i mondi: disegna sul foglio in alto la casa del cielo, al centro la casa dei morti ed in basso la casa delle tende e dei rifiuti. Il terapeuta prende quel foglio e continua per un anno il suo lavoro con la bambina, finché un giorno la bambina ripete il suo gioco: disegna ora sul foglio di carta una geografia mutata: in alto c’è il mondo degli uomini a fianco di quello dei bambini, in basso si affiancano il mondo delle donne e quello delle vocali. Ora la bambina che gli sta di fronte è più serena, i fantasmi peggiori sono scomparsi dalle sue fantasie e dai suoi disegni, la guarigione sembra possibile e allo stesso tempo ci si può rallegrare perché la piccola non ha mai perso la sua capacità poetica.

Un adolescente tormentato da rimorsi e da meccanismi autopunitivi rifiuta poco a poco di mangiare, fino a ridursi al digiuno quasi assoluto. Quel poco cibo che assume ritiene di doverlo «bruciare» subito imponendosi sforzi fisici assurdi, come l’autoimporsi di restare sempre in piedi, senza sedersi o sdraiarsi. Progressivamente si immerge sempre più in un mondo parascientifico in cui trova posto solo un interesse compulsivo per la fisica e l’astronomia, con un rifiuto sempre più evidente di quello che potremmo chiamare il mondo di questa terra. Lentamente si avvolge anche in un linguaggio stereotipato che usa solo termini presi dai testi in cui vive immerso. La fissazione per il cielo e per le stelle diviene sempre più totale ed egli passa notti intere a esplorare il cielo fantasticando di arrivare fin lassù dove gli avevano detto, quando era piccolo, che era finito il nonno morto. Piano, piano il terapeuta lo segue per lunghi giorni, fino a quando un giorno, trasalendo suo malgrado, lo vede sedersi.

Un bambino di sei anni di origine greca incomincia a sviluppare uno strano delirio: confusione tra l’io e il tu, tra il maschio e la femmina. Sembra vittima di una ripetizione coatta di gesti e parole dissennate; ma piano, piano si vede delinearsi una vera e propria mitologia, che egli va rappresentando: parla di Dèi, di miti che ripesca in profondità ignote, ma che riesce a rappresentarsi con impressionante coerenza: il mito dell’androgino e poi quello del maschio e della femmina originari. La sua terapeuta ed io ripercorriamo in supervisione i passaggi di quel percorso rabbrividendo: trovo la conferma di quanto vado teorizzando da anni, la storia che racconta è quella che io stesso cerco di raccontare, ma quanta poesia nelle sue parole! Ora egli sta uscendo da quella sorta di «selva oscura» ed io temo per quel che avverrà della sua ricchezza spirituale a contatto con le banalità della vita «normale» che noi gli proponiamo. E’ giusto cercare di guarire questi ragazzi, perché niente giustifica la sofferenza che provano nel delirio da cui sono avvolti, ma quanto è importante che concediamo loro il rispetto e l’amore a cui hanno diritto, nel tentativo di restituirli sani, ma non vinti al loro futuro.


Leggendo le righe che ho appena scritto mi ribello a me stesso: non voglio distinguere così tanto il mondo dei piccoli da quello dei grandi. Non voglio dire che il loro è migliore del nostro, violento e meschino. Ci sono ancora troppe cose che devo spiegarmi, con l’aiuto della scienza o della poesia; ma la spiegazione non deve coincidere con la tesi che il bambino è un buon selvaggio.
I casi che ho descritto, senza affrontarli tecnicamente con gli strumenti della mia scienza psicoanalitica, sono solo il resoconto di tre diverse storie esistenziali colte ai loro esordi, che io e chi lavora con me abbiamo trovato poeticamente significative. Quello che vorrei riuscire a far percepire è la loro poeticità senza stereotipi, la rivelazione di linguaggi ricchi di neologismi, la complessità dei giochi costruiti nelle stanze della terapia. Io ho provato a far giocare pazienti adulti molto disturbati, mettendo a loro disposizione ogni sorta di strumenti: non hanno rifiutato il gioco, ma in esso hanno ossessivamente ripetuto pochi gesti senza fantasia, riferiti soltanto al loro delirio, in una noia che mi ha disgustato prima ancora di disgustarli. I più non hanno accettato di disegnare e quando lo hanno fatto i risultati grafici si sono rivelati minimi, con una dimostrazione paurosa di povertà ideativa. Io sostengo che l’arte non è mai espressione di follia: un pazzo può comporre una musica o dipingere un quadro o scrivere una poesia, ma se le opere sono valide significa che le ha prodotte in una pausa del male, sono cioè il segno di quanto di sano ancora è celato in lui. Per Lucrezio si è parlato di intervallum insaniae lo stesso vale per tutti gli altri pazzi che creano capolavori artistici: nel momento in cui il male recede, ecco che lo spirito dell’uomo torna a rivelarsi capace di comunicare.
Completamente diverso sembra essere invece il processo nei bambini, come se nella loro follia continuasse a vivere una quantità massiccia di quella poesia che è salute.

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Aveva sette anni, era un bel maschietto, biondo, dal bel corpo e due occhi che inquietavano, lo avevano diagnosticato autistico: passava il suo tempo sdraiato a manipolarsi i genitali o ripetendo sempre gli stessi cinque gesti: batteva la testa contro il muro, grattava il pavimento con le unghie, mordeva quello che arrivava a tiro, uomini o cose, ciondolava la testa in gesto di diniego e si tappava le orecchie. Fu difficilissimo entrare in contatto con lui: passava per lo più il tempo della «seduta» sdraiato sul materasso, con le mani nei calzoncini o ripeteva uno dei suoi gesti; una volta restò sul muro una macchia di sangue, il terapeuta non era riuscito a trattenerlo e lui si era scaraventato contro la parete nel disperato tentativo di trovare finalmente se stesso. Non parlava e non rispondeva alle domande, a casa mangiava con voracità e, a detta dei genitori, anche con gusto; sembrava non interessarsi a nulla. Se il terapeuta cercava di toccarlo gli azzannava la mano fino a fargli male. Gli occhi restavano vividi e mobilissimi, allora il terapeuta incominciò a seguire quello sguardo parlandogli nello stesso tempo, dicendogli che c’erano gli altri e che c’era anche lui, lo sguardo del bambino errava all’intorno ed una volta parve fissare un po’ più insistentemente del solito la porta della stanza; dopo un poco fu chiaro che il suo sguardo ritornava con insistenza sempre verso la porta. Un giorno il terapeuta prese una decisione repentina e si alzò, lo prese per mano, apri la porta e gli disse: «Vuoi fare una passeggiata con me?» Il bambino accennò col capo di sì e i due andarono nel giardino. Di lì si può dire sia iniziato un lungo e lento processo di guarigione.

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Anche questa volta non voglio parlare delle interpretazioni che tentammo di elaborare sul caso: perché anche questa volta vorrei mettere in evidenza la particolarità dei comportamenti e delle fantasie infantili. Mi si potrebbe far ammettere a questo punto che secondo me l’unico tipo di follia infantile è l’ autismo, perché ogni volta si riproduce quello che è lo schema della pazzia nell’adulto: schematicità, ripetitività, rifiuto della comunicazione e del contatto con l’altro, distruttività e autodistruttività. Eppure non sono convinto che sia proprio così: l’autismo non è l’unica forma di follia del bambino. Ci sono altre manifestazioni in cui è evidente la sovrapposizione delle difese narcisistiche e sadomasochistiche; altri tipi di allucinazioni, deliri e soprattutto angosce. Forme in cui il mondo non è solo negato, ma talvolta percepito fantasticamente attraverso la sovrapposizione dei tempi e dei luoghi, mentre si corrode il ritmo ordinato del fluire della vita e delle percezioni, in un crescendo di disperazione. La diversità tra la follia dei bambini e quella degli adulti deriva forse in parte anche dal nostro modo di leggere l’infanzia, forse nei confronti dei bambini siamo meno pronti a cogliere gli stereotipi che non perdoniamo agli adulti, perché nella nostra idea di bambino è insita la voglia di vederli migliori di noi. Forse potrei aggiungere che i bambini sono a contatto più diretto con l’inconscio e ne serbano la grande ricchezza, la loro contiguità maggiore della nostra con l’inconscio sociale del passato che ancora riverbera su di loro esperienze remote che nell’ età adulta svaniscono per il bisogno di appropriarsi del presente. Potrei dire ancora che i meccanismi istintuali del bambino sono più mobili, meno irrigiditi dall’educazione, che permane in lui la capacità acquisita nella vita intrauterina di una grande facilità di scambio tra l’io e il tu. Le ipotesi insomma potrebbero essere molte, l’importante è stare attenti a non distruggere la grande ricchezza poetica dell’età infantile, accompagnando verso la guarigione senza forzare verso una normalità acquiescente e qualunquistica, senza perdere la grande ricchezza fantastica che la caratterizza. Guarire non deve mai essere banalizzare.