Archivio di ottobre 1987

Psicoanalisi contro n. 36 – Qui sto saldo

giovedì, 1 ottobre 1987

La psicologia dinamica è sorta tra l’Otto e il Novecento ad opera di alcuni pensatori e scienziati, tra i quali grandeggia Sigmund Freud che ha chiamato la sua teoria «psicoanalisi».
La psicoanalisi non è che una tra le correnti della psicologia dinamica. Il comune assunto delle varie teorie di psicologia dinamica è l’ipotesi dell’inconscio. Su questa ipotesi sono venute costruendosi varie tecniche terapeutiche che operano considerando l’inconscio come una realtà biopsichica, in continuo rapporto dialettico con quell’altra componente della persona chiamata coscienza; il loro scopo è d’intervenire facendo chiarezza sulle oscure trame ordite dall’inconscio nel profondo della realtà dinamica della psiche.
Freud è stato forse quello che con maggior chiarezza ha dimostrato l’influenza dell’inconscio sul comportamento quotidiano degli esseri umani, ed ha meglio illustrato quel particolare tipo di rapporto che si viene a costituire tra gli elementi inconsci e gli elementi coscienti. La psicologia dinamica, inoltre, per poter operare terapeuticamente, ha dovuto teorizzare una propria visione dell’uomo e del mondo, di malattia e di salute, particolarmente di salute mentale. All’interno di questa visione generale, grande importanza è data al «conflitto» psichico, capace di causare gravissimi disagi.
Secondo la teoria freudiana, le pulsioni non accettate e «rimosse», nel loro tentativo di pervenire alla coscienza, sono spesso costrette a «travestirsi»; talvolta il «travestimento» si esprime sotto forma di «sintomi». Ci sono sintomi di poco conto che costellano la vita quotidiana di ciascuno e che consistono in piccoli gesti incongrui come la dimenticanza di una parola che, in qualche modo, è associabile a qualcosa di spiacevole, o la scelta di una strada sbagliata che tradisce la volontà di non raggiungere il luogo verso il quale pure consapevolmente diciamo di volerci dirigere. Succede allo stesso modo di arrivare per errore all’appuntamento in un giorno o ad un’ora diversi da quelli fissati. Nascono comportamenti scomodi come l’incapacità di rinunciare a lunghissimi e noiosi rituali che possono essere il bisogno di disporre gli oggetti tutti in un determinato modo, la necessità di lavarsi sempre le mani, ripetutamente, dopo aver toccato qualcosa, nel timore di una contaminazione, di non riuscire a prendere l’ascensore, non poter camminare da soli, attraversare una piazza, star chiusi in una stanza. Fino a giungere a sintomi molto gravi come la paura di compiere gesti inconsulti, magari di mettersi ad urlare nel bei mezzo di un concerto, paura di ferire se stessi o le persone amate, timore di poter compiere gesti che addirittura metterebbero a repentaglio la vita propria oppure di altri. Ci sono anche sintomi fisici, come il malore improvviso attraverso il quale si cerca di evitare una situazione spiacevole da affrontare, o la malattia che libera da qualche responsabilità. Questi sarebbero quelli che vengono chiamati «sintomi nevrotici».
Quando poi la realtà diventa sempre più distorta e le fantasie interne hanno del tutto il sopravvento sul mondo esterno abbiamo la «psicosi». Si è verificata in questo caso una inserzione massiccia delle pulsioni inconscie che procurano un marasma emozionale, un disorientamento spazio-temporale e l’incapacità a gestire il rapporto con se stessi e con gli altri. L’antica psicoanalisi pensava di essere in grado di intervenire terapeuticamente soltanto nei casi in cui i sintomi fossero di tipo nevrotico; cioè a condizione che ancora non fosse interrotto il rapporto con la realtà.
I soggetti che facevano ricorso a quel tipo di cura dovevano, insomma, essere loro stessi consapevoli che quei gesti e quei comportamenti erano qualcosa di estraneo, doloroso, assurdo e inaccettabile.
Il rifiuto dei sintomi e il tentativo di inibirli procurano però ansie e sofferenze che rischiano di tradursi in sintomi nuovi e peggiori.

2.
La teoria psicoanalitica dei primi tempi – e quella freudiana in particolare – aveva spiegato la formazione dei sintomi in modo semplicissimo: le pulsioni che sorgono dal profondo dell’inconscio hanno una loro energia, in esse si nascondono i desideri che sono stati rimossi perché inaccettabili; la rimozione non è però stata totale, per qualche ragione ignota, ed ecco che allora i desideri cercano ugualmente di trovare una strada verso il proprio soddisfacimento, malgrado tutte le considerazioni di morale, opportunità e buon gusto che inducono la persona a rifiutarli.
Il sintomo è una forma distorta di appagamento del desiderio rimosso. Inoltre ha un suo linguaggio che lo mette in qualche modo in relazione col desiderio e riesce si a scaricarlo, ma con molta sofferenza, una sofferenza che talvolta è già sentita come espiazione. Pareva così che i conti tornassero, sia pure all’interno di un equilibrio malato e sofferente. La guarigione a questo punto sembrava facilmente raggiungibile: bastava scoprire quale fosse il desiderio che si era travestito da sintomo ed ecco che, una volta smascherato, il sintomo non avrebbe più avuto ragion d’essere e conseguentemente il malato sarebbe stato libero dal disagio.
Si diceva anche che l’inconscio tendesse per sua natura a diventare evidente, a manifestarsi. Su questo punto, ancor oggi, le domande e gli interrogativi si affollano: che senso ha che, ciò che è sorto come inconscio, abbia in sé questa profonda esigenza di negare se stesso? Tentare di risolvere questo problema ci porterebbe lontano e potrebbe turbare il nostro discorso, per cui ora lo accantoniamo e ci limitiamo a prendere atto del fatto che pulsioni e desideri inconsci tendono a venire alla superficie e a rendersi manifesti, per cui si crea il bisogno di intervenire per controllarli, prima che i danni provocati siano troppo grandi. 1 teorici quasi concordemente affermano che non tutte le pulsioni inconsce, divengono manifeste ma solamente alcune, perché? Dipende solo dalla loro violenza? Le risposte della psicologia dinamica a questi interrogativi si differenziano molto le une dalle altre. Rimane comunque valida una considerazione di base: alcune esigenze sociali, culturali, ambientali, educative e alcuni meccanismi biologici, fisiologici, evolutivi, ed anche dinamiche filogenetiche in contatto e in contrasto con l’esistente, che vive qui ed ora, possono aver caricato alcune pulsioni di una forza particolare ed averne invece definitivamente allontanate dalla coscienza altre. La psicologia dinamica ha preso anche in considerazione lo sviluppo individuale, suddividendo la vita dell’essere umano in «fasi», caratterizzate dall’evoluzione sessuale e intellettiva; ha poi ipotizzato che particolari situazioni o eventi chiamati «traumi» potrebbero impedire lo sviluppo progressivo del singolo, che rischia così di rimanere «fissato» ad un determinato livello e a modelli rigidi di comportamento, incapace di dirigersi verso una condizione di completa maturità. Queste considerazioni pongono però il problema della identificazione di un supposto punto di maturità: cosa vuol dire essere maturi? Tutte le scuole e gli indirizzi teorici della psicologia parlano di adeguatezza e di inadeguatezza. L’essere umano -si dice- è maturo quando segue il comportamento adeguato ad ogni momento della sua esistenza. C’è così un comportamento adeguato per l’essere umano all’età di due anni, che diviene inadeguato in un individuo che abbia, per esempio, sei anni, e così via: per ogni età c’è il comportamento adeguato.

3.
Chi decide quale sia il comportamento adeguato? La morale? Questa però non sarebbe in grado di esprimere giudizi su molti aspetti del divenire umano. Per fare solo alcuni esempi: non si potrebbe usare il metro della morale per valutare l’adeguatezza del linguaggio parlato, o dello strutturarsi delle dinamiche spazio-temporali, con i loro problemi di orientamento e di polidirezionalità.
Si potrebbe allora conferire tale potere decisionale alla filosofia, di cui la morale fa parte. L’indagine filosofica però concerne l’uomo in generale, il suo significato nel mondo e il significato stesso del mondo. La filosofia ha quindi un campo di interessi troppo vasto quando affonda le sue radici nella metafisica e i suoi strumenti non sono i più idonei a definire lo sviluppo psicofisico dell’uomo. Se invece si considera la filosofia in una sua accezione particolare, circoscrivendone quegli aspetti che prendono in esame la natura umana, ecco che diviene psicologia o, peggio, psicologismo. A questo punto pare ribadita ancora una volta la competenza della psicologia e si riparte da capo.
Quale psicologia? Forse quella che si autodefinisce sperimentale? I cosiddetti scienziati sperimentali, che non si ritengono moralisti e neppure filosofi, i quali conoscono l’anatomia e la fisiologia del sistema nervoso, che sanno confrontare filogenesi e ontogenesi ed hanno fatto lunghi studi di antropologia, sono in grado di descrivere il comportamento adeguato dell’uomo? La loro scienza dice di avere un fondamento concreto che consiste nella sperimentazione che parte dall’osservazione. Cosa osserva lo scienziato psicologo? Osserva i vari comportamenti. Come può poi decidere quali siano adeguati e quali non? Sulle basi del calcolo statistico! Ma una scienza che si fondi sulla descrizione – e la statistica non è che descrizione – e non si ponga il problema delle cause e dei perché, può dirsi una vera scienza? Voglio portare un esempio molto semplice: nella nostra area culturale la balbuzie è un disagio che patiscono soprattutto i maschi, mentre le femmine ne sono quasi esenti. La pura e semplice percentuale di quanti sono i maschi affetti da un tale disturbo e quante le femmine è un gioco divertente, ma assolutamente ozioso se non ci invita a domandarcene le ragioni.

4.
Lo scienziato psicologo sperimentale crede di essere obiettivo, ma se non vuole porre il fondamento della sua ricerca sulla pura e semplice descrizione statistica dovrà in qualche altro modo fondarla. Le spiegazioni potrebbe trovarle nell’influenza dell’ambiente, nei meccanismi educativi, o meglio ancora nella relazione tra questi e quelli. Queste ultime acquisizioni non sono però più riconducibili alla mera statistica, per cui egli finisce col trovarsi privo del solo fondamento scientifico di cui dispone. Po-trebbe allora fare riferimento al corpo e allo sviluppo degli organi e delle loro funzioni. Ciò parrebbe quantizzabile e quindi riconducibile alla statistica; ma la persona non può, assolutamente essere ridotta alla sua evoluzione anatomo-fisiologica. Solo una piccola parte del divenire umano è davvero quantizzabile, il resto o rimane tuttora ignoto, o fa parte di un mondo espressivo che è giudicabile in base a sistemi di valore che la statistica non è in grado di manipolare. La conclusione è che la scienza sperimentale, anche se volesse basarsi esclusivamente sulla realtà organica dell’essere umano, non troverebbe sufficiente fondamento.

5.
Le funzioni psichiche, i comportamenti, i sentimenti, le fantasie hanno sì qualcosa a che fare con la massa dei neuroni e la loro organizzazione, ma relazioni, meccanismi causali, localizzazioni funzionali sono quanto mai legati alla capacità di immaginazione dello psicologo e al suo desiderio di costruire un meccanismo, anche psichico, che non sia molto dissimile dal più generale schema corporeo. Ormai, giustamente, nessuno osa più parlare, senza vergogna, della separazione tra corpo e psiche. Sarebbe bello poter schematizzare in qualche modo architettonicamente l’insieme delle componenti e delle funzioni che costituiscono l’essere umano: alla base di questa costruzione ci sarebbe il funzionamento elementare dell’organismo, con le azioni e reazioni automatiche che rendono possibile la vita; subito sopra ci sarebbero gli istinti, cioè quei meccanismi strettamente legati al soma che possono però condizionare e guidare il comportamento superiore; al di sopra di tutto, la coscienza, che non solo riconosce, ma anche guida la persona nel suo muoversi nel mondo. Proprio il concetto di istinto è quello che pone in crisi questa bella architettura.

6.
Che cosa è l’istinto? L’etologo e il neurofisiologo non si rifugino, a questo punto, nell’ovvio e stupido paragone della rondine che si costruisce il nido. Conosciamo così poco dei nostri sentimenti e delle nostre motivazioni, che pontificare troppo sulla vita e le intenzioni di quei graziosi volatili è sciocco e poco « scientifico». Io non escludo che sia utile studiare il comportamento degli animali, magari anche per fare paragoni con quello umano, ma lasciamo stare una volta per tutte le gerarchizzazioni, affrontiamo direttamente la nostra realtà e parliamo dei nostri istinti. Non solo vengono ritenute ugualmente istintive funzioni molto diverse tra loro come i meccanismi di difesa o la sessualità; ma per esempio, alcuni considerano istintivo, nell’uomo come negli animali, l’amore per i figli. Io penso che non si provi solo amore per i figli, ma anche odio e molti altri sentimenti. Quanti sentimenti radicati e profondi possono legittimarne essere ridotti all’istintualità? Quando l’istinto è solo tale? Potremmo a questo punto chiamare in soccorso la teoria pavloviana, ma sebbene sia utile per spiegare alcuni elementari meccanismi riflessi, quando cerca di rendere conto del funzionamento del pensiero e dell’affettività, troviamo, tanto in Pavlov quanto nei suoi seguaci, una tale congerie di astrusità che, al confronto, appaiono semplici le argomentazioni più lambiccate della filosofia medioevale, impegnata nel tentativo di spiegare i perché del comportamento divino.

7.
Quindi il corpo non può essere considerato separatamente dalla psiche, ma se li uniamo, ci accorgiamo che rendere tutto corpo ci pone problemi così complessi da costringerci ad inventare più o meno graziose o idiote tavolette. Se invece riduciamo tutto alla psiche, ecco che questa sembra fagocitare il corpo e pretende di essere chiamata anima. Rimane una possibile distinzione, che non è «nell’uomo», ma è «dell’uomo», il quale ha dovuto operarla per capire i propri comportamenti, per riuscire a raccontare il divenire della vita ed anche per essere in grado di intervenire quando il meccanismo, nel suo svolgersi, si inceppa. Questo dovrebbe essere il fondamento. È utile però trovare un fondamento?
Sarebbe utile, se non fosse impossibile.

8.
Benché impossibile trovare un fondamento assoluto, ciascuno deve saper dare a se stesso un fondamento operativo da cui partire. Perché, come Martin Lutero, dobbiamo fermarci ad un certo punto e dichiarare a noi stessi e agli altri: «Qui sto saldo». Lutero aveva ragione o torto? Questo non ha importanza: importante per lui era sentirsi i piedi poggiati su punti saldi. Il mondo ha tratto giovamento da quella saldezza? La storia è andata avanti, anche oltre le prese di posizione del monaco tedesco, oppure si è aggiunta confusione alla confusione? Cerchiamo di ricostruire le ragioni di quella esigenza di saldezza: indubbiamente la chiesa di Roma non dava, neppure allora, una gran bella immagine di sé; il monaco agostiniano era andato però oltre un semplice intento moralizzatore: non si era limitato ad accusare quei vescovi e quei preti di essere cattivi preti, ma aveva loro negato il diritto di essere preti e vescovi, negando loro la prerogativa di dispensare la grazia divina. Perciò gli era indispensabile di sentirsi saldo. Fu fanatismo? Il fanatismo è il pericolo più grave che corrono tutti quelli che cercano di migliorare sé e gli altri, che lottano, in buona fede per il bene di tutti o per il loro bene. Si potrebbe dire che le verità di fede hanno bisogno del fanatismo perché non hanno la possibilità di verifiche sperimentali, mentre le verità scientifiche, al contrario, si fondano sull’esperimento e sulla solidità del sistema naturale. Una verità filosofica o religiosa non potrà mai essere confutata da un esperimento; invece un’affermazione scientifica sì. La verità scientifica pare assolutamente incerta molto più incerta di quella filosofica o religiosa. La verità scientifica, infatti, può essere sempre confutata e contraddetta, mentre le affermazioni della filosofia e della fede sono irrefutabili, se le sentiamo solidamente radicate dentro di noi. Ma… se qualcosa d’altro viene a confutare ciò che è dentro di noi? Il balletto di Urbano VIII e Galileo Galilei non è ancora finito: scienziati opprimono altri scienziati, regimi imbavagliano preti e astrofisici. L’universo non ha ancora svelato a nessuno il suo mistero.
Tutto questo lungo discorso dove vuole condurre? A trovare una risposta alla domanda: «Che cosa è la psiche?»
Perché Mario si alza dal letto e torna a controllare la chiavetta del gas, pur essendo certo di averlo già fatto?

36 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Il film di Ermanno Olmi Lunga vita alla Signora non è altro che un orribile cocktail: unite, con alcuni cubetti di ghiaccio cristallino per congelare il tutto, un po’ di scadente Fellini, un Buñuel così com’è con due spruzzi di uno slavato Dario Argento, shakerate male, versate il tutto in un bicchiere sbagliato, guarnite con una dolciastra ciliegina della Riserva Olmi realistico ed avrete pronto il bibitone capace di convincere qualunque ragazzo a non fare mai la scuola alberghiera.
Libenzio e i suoi cinque giovani amici, tra cui due ragazze, sono scaricati dal treno in una stazioncina di montagna. Un «gippone», sul cui tetto troneggia una dorata poltrona barocca, li porta al castello, che altro non è che un albergo di lusso. Qui la «Signora» (ovvero la morte) offre l’annuale banchetto a un gruppo di ospiti sceltissimi: tutti personaggi scontatamente simbolici dell’abiezione borghese. I sei giovani altro non sono che i privilegiati allievi di una scuola alberghiera che, per premio, avranno l’onore di partecipare al servizio di tavola. Il film prosegue raccontando con monotona ingenuità lo svolgersi del banchetto: la morte fa la morte, gli altri fanno niente, salvo pochi prevedibili gesti, privi di qualunque efficacia spettacolare. C’è la lotta per il potere, c’è il nipote volgare e irrispettoso, c’è la ragazza-angelo e, proprio perché le ovvietà ci siano tutte, ecco un commensale colto da malore che viene portato via tra la generale indifferenza. Di tanto in tanto nascono scene thrilling nelle segrete del castello, con porte che cigolano e sgocciolii. Assolutamente ributtante è la breve scena in cui il padre di Libenzio, arrivando direttamente dal paese dove cresce «l’albero degli zoccoli», gli ricorda la raccomandazione della nonna perché dica le «orazioni». Nella notte, il grazioso e simpatico giovanottino, fa le valigie e fugge dal castello degli orrori… il mastino lo rincorre ma solo per giocare con lui sul prato. Noi speriamo che Libenzio ce l’abbia fatta ad uscire non soltanto dal terribile castello ma anche, e per sempre, da questo stupidissimo film. A parte il regista, tutti i componenti del cast, attori e tecnici, risultano di buon livello.

36 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Sabato 19 settembre, al Teatro Olimpico, l’Accademia Filarmonica Romana ha inaugurato la stagione con un concerto della Chamber Orchestra of Europe, condotto dal pianista e direttore Vladimir Ashkenazy.
Primo brano in programma è stato Verklaerte Nacht di Arnold Schoenberg, per orchestra d’archi. L’opera, tra le primissime del compositore viennese è di un indifeso tonalismo, appena increspato da un cromatismo che però -malgrado quello che dicono molti critici- ha poco di wagneriano. Per tutto il brano si dipanano alcune bellissime melodie che si stratificano e formano grumi accordali, talvolta molto interessanti, altre volte con effetto di monotona ripetizione. La direzione di Ashkenazy non è stata molto limpida ed ha accentuato, anziché smorzarli, i momenti di confusione; tuttavia alcuni episodi di sottile languore sono stati proposti con la dovuta efficacia.
Il Concerto in la maggiore K.414 di W.A.Mozart, che ha sostituito all’ultimo momento un brano di Ravel in programma, è stato eseguito come peggio non si sarebbe potuto. Fin dall’introduzione, l’orchestra è stata imprecisa nel tempo e nelle intonazioni ed il pianoforte ha recitato quelle splendide melodie quasi con distrazione, con note tutte dissennatamente staccate. Inoltre strumento solista ed orchestra suonavano senza la minima concordanza, ciascuno per proprio conto. Una constatazione particolarmente spiacevole è stata quella di udire per tutta la serata il pianista accelerare arbitrariamente le ultime note delle scale, specialmente le ascendenti: proprio come solo i principianti fanno. Nonostante lo splendido inizio melodiante del secondo tempo sia stato eseguito dall’orchestra in modo sufficientemente corretto, è bastato poi l’ingresso del pianoforte, opaco, ottuso e fuori tempo per mandare tutto a catafascio. Inoltre il pianista ha sempre confuso l’opacità del suono con l’espressività sentimentale. Il terzo tempo è stato, se possibile, anche peggiore dei precedenti: l’orchestra, flaccida e stonata ha accumulato errori su errori e il solista suonava come un impacciato scolaretto. In tutto quel desolante squallore solo una cosa abbiamo potuto apprezzare: la capacità di Ashkenazy di eseguire i trilli con sciolta precisione.
Le cose non si sono certo sollevate nel Concerto in do maggiore n. 1 di L. van Beethoven: la giovanile, se pur ingenua nobiltà della composizione è stata offesa da un’orchestra desolantemente bandistica e dal pianoforte sgangherato e inespressivo.
Ci siamo anche scandalizzati del fatto che l’Accademia si serva per i suoi concerti di pianoforti così afoni. Una certa indulgenza verso gli esecutori ci sentiamo in dovere di esprimerla, perché sono stati costretti a suonare in una sala dove l’aria afosa e l’intollerabile calura rendevano difficile semplicemente sopravvivere. Di tutto il faticato concerto ripetiamo di aver solo gustato i trilli pianistici che, malgrado tutto, Ashkenazy sapeva ricavare dallo strumento.

37 – Novembre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Il grido di dolore

Dispiace dover ritornare su argomenti persin troppo trattati, ma è dovere morale difendere le cause della ragione, quando in essa si crede. Nessuno merita che gli vengano riconosciuti attributi di preveggenza se ha per caso previsto il pastrocchio non accidentale che si è venuto a creare nell’incontro tra il «piccolo idiota televisivo» e la grande idiozia politica: i mezzi di comunicazione di massa perpetuano se stessi proprio perpetuando l’idiozia di tutti. Se mai, sarebbe il caso di fare una pausa di riflessione davanti alla sensazione che si può provare di sentirsi tra i pochissimi furbi e cercare di andare a scoprire quale vantaggio può trarre dalla nostra autoconvinzione il persuasore occulto che ci sta alle spalle. Proprio per lo specifico di cui questo mensile tratta è però impossibile trattenere il «grido di dolore» quando l’idiozia televisiva si accoppia con l’idiozia culturale e con quella psicoanalitica in special modo. Nell’aberrante e dilagante elargizione dell’uso del telefono (si va in noi confermando l’agghiacciante sensazione che il telefono venga sempre più usato vilmente come moderno sostituto delle vecchie lettere anonime) e nell’abuso del processo a chicchessia assassino o giocatore di tennis da tavolo ci è capitato di assistere ad un’atroce parodia di un procedimento giuridico che ha avuto luogo in uno studio televisivo contro il dottor Armando Verdiglione, che già poco men che grotteschi procedimenti giudiziari ha subìto con ignominia sua e dei suoi giudici. Ancora una volta l’indignazione dell’audience si è abbondantemente pasciuta delle insinuazioni sulla gravità morale dell’ipotetico reato (morale e non penale) di plagio. Contemporaneamente, un rispettabilissimo stregone-esorcista si esibiva a dimostrare quanto vitale sia ancor oggi la stregoneria: cosicché anche al più tonto il passaggio da «Maestro» a «stregone» non è risultato troppo òstico. Tanto che non è stato più possibile indignarsi per l’ostentata inconcludenza dello psicoanalista/guitto, per la volgarità delle sue argomentazioni, per l’insulto alla cultura e alla scienza che egli come persona e la sua fondazione come istituzione rappresentano, per la vergognosa commistione che allora seppe fare e ancora oggi tenta ottusamente di riproporre tra valori e personali cupidigie, per le stesse plateali menzogne, per l’analfabetismo riproposto come insegnamento. Forse non è vero che i mezzi di comunicazione di massa siano così onnipotenti e forse la squallida realtà che fanno emergere non ha ancora isterilito completamente i germi della coscienza popolare. Può darsi che il buon senso comune sia più acuto di noi e che partecipi al gioco nel solo modo possibile, cioè prendendo in giro il gioco e se stessi; ma il dubbio rimane che tanto fango tirato in superficie finisca per sporcare tutti. Se il plagio fosse una colpa morale, sarebbe più colpevole chi ne plagia di più o chi ne plagia di meno? Se il plagio è meritoria opera di proselitismo di chiese e partiti perché diventa vizio nei singoli individui? Sandro Gindro dice che l’amore è sempre un plagio; i meno furbi sono propensi a credere che il plagio sia sempre amore. Forse per questo la televisione propaganda di sé un’immagine di materna telefonista: chi ci può amare più della mamma?

36 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Referendum

I1 Paese si trova, in tempi brevi, a dover affrontare un’ennesima volta l’impegno di un esercizio di democrazia diretta e, questa volta, sono ben cinque i problemi posti sotto forma di referendum. I politici e gli opinionisti si sono dati anche piuttosto da fare per svelare i retroscena e le insidie di questa imminente consultazione, tanto che sono, oggi, pochi coloro che non si interrogano sull’opportunità e l’utilità di chiedere al Paese di pronunciarsi direttamente, quando le domande rivolte sono così poco chiare e le risposte possibili così irrilevanti nel determinare le scelte future. Pur nell’ardore polemico e nella passione critica, nessuno si è però posto il problema di riconoscere o meno al Popolo la legittimità di pronunciarsi direttamente. Ora che la coscienza di classe è un concetto superato, che il processo di omologazione, vera e presunta, pare essere totale, non è forse sbagliato tentare di leggere i connotati del Grande Cittadino Democratico, erede diretto della defunta Maggioranza Silenziosa. Questo Cittadino non solo lo incontriamo ogni mattina, quando ci guardiamo allo specchio, ma ci aggredisce per tutto l’arco della giornata attraverso gli infiniti canali di penetrazione che il mezzo televisivo gli ha messo, finalmente, a totale disposizione. Il Cittadino comunica tutto lo squallore di cui è impastato attraverso penose telefonate in diretta, incurante dell’impietoso svillaneggiamento dei conduttori delle trasmissioni; partecipa individualmente o a gruppi famigliari, scolastici o di categoria a programmi basati sull’indovinello. Tutti gli domandano qualsiasi cosa ed egli risponde senza però mai correre il rischio di essere contaminato da una qualunque forma di cultura. Quando la domanda è più scottante, succede magari che il Cittadino venga anche rinchiuso in una «cabina» e senza che tenti di opporre resistenza. Comunque e dovunque gli è data, purtroppo, la facoltà di parlare, anzi glielo si intima di continuo. Per questo pare quanto mai fondata e documentata la preoccupazione di chi vede con ansia l’instaurarsi di una consuetudine referendaria che non sia accompagnata da un processo di Rieducazione Civica Nazionale. Tale intenzione non può che essere – giustamente – vista con sospetto, ma, sospetto per sospetto, non sarebbe stato meglio sospettare prima che fosse compiuta la trasformazione del Grande Cittadino Democratico nel Piccolo Idiota Televisivo?

36 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Negli ambienti della ex fabbrica di birra Peroni, in via Reggio Emilia 54, recuperati dal Comune come spazio espositivo, dal 6 ottobre all’8 novembre sono esposte le opere del Premio Michetti 1987: Nuovi territori dell’arte e del Premio Speciale Michetti, assegnato a Mario Schifano. Entrambe le sezioni del premio e della mostra sono curate da A.B. Oliva.
Dopo la transavanguardia si è inteso mettere a confronto le recentissime produzioni di giovani artisti europei e americani per valutarne possibili differenze ed eventuali comuni punti di partenza o di arrivo. Il nume ispiratore, sia dei dodici artisti americani, sia degli altrettanti europei, ci pare essere proprio Marcel Duchamp: partendo da quella facile comprensibilità gli artisti oggi qui esposti sono giunti a un punto di iper-comprensibilità tale, eccessiva e desolante, da essersi definitivamente allontanati dai campi di ogni arte possibile. L’arte senza misteri ed allusioni, totalmente comprensibile, non è infatti arte. Purtroppo in queste opere è tutto chiaro; non diciamo che sia anche brutto, poiché il brutto può avere’ una sua dialettica valenza di nobiltà che è totalmente assente in queste opere «ignobili», frutto del disimpegno e del più vacuo narcisismo. Quello che si vede è quello che è. Non ci sono mondi in cui immergersi per salvarsi o anche perdersi, non inquietudini, non provocatorie prese di posizione o gesti rivoluzionari, ma una piatta acquiescenza all’ovvietà e ripetizione di moduli ormai sessuagenari. Gli europei sono: Per Barclay, Doris Bloom, Christopher Boutin, Manlio Caropreso, Carlo Ciarli, Hughie o’Donoghue, Jochen Fischer, Paola Fonticoli, De Luyck Philippe, Guido Schlinkert, Giandomenico Sozzi, Alessandro Twombly. Gli americani sono: Vikky Alexander, Tamas Banovich, Beth Brenner, David Cabrera, Tim Ebner, Steven Harvey, Mitchell Kane, Andy Moses, Harvey Tulcensky, Wallace and Donohue, James Welling, Christopher Wool. Di qua e di là dell’ Atlantico tutti imbrattano, inchiodano, incollano, intarsiano, applicano, colorano, illuminano, compongono con la stessa imperterrita adesione alla frivolezza.
Riconosciamo invece a Mario Schifano di produrre opere che sono almeno brutte, ma non solo: la sua ambiguità pittorica lo rende spesso ironico. Certo, quando il gioco è così spudoratamente scoperto rischia di non divertire più. Comunque, un pizzico di arguzia si può ritrovare qua e là: pensiamo al Quadro severo con trenino allegro del 1987 o a Enorme ostacolo «Sussulto Secondo» o al Paesaggio con Carbone sempre di quest’anno, dove il gioco dei colori e delle forme si traduce in complici ammiccamenti a chi osserva, in vivaci sprazzi di colore accattivanti.

36 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Il risvolto di copertina del libro di E. Hemingway, Il Giardino dell’Eden (Mondadori, 1987, pagg.264, Lit. 24.000) afferma che l’autore lavorò al romanzo per ben quindici anni ma, nonostante tanta cura, non lo volle pubblicare per pudore, a causa degli scottanti particolari autobiografici. Noi non abbiamo nessun elemento che ci permetta di contestare questa affermazione dei curatori dell’edizione italiana, ma non ci sembra proprio un libro scritto da Hemingway. Non solo perché è bruttissimo, ma anche perché è scritto in uno stile troppo hemingwayano. Soltanto scrittorelli di romanzi d’appendice ripetono così ostinatamente le stesse situazioni per pagine e pagine al fine di compiacere i lettori della domenica. La sensazione che abbiamo tratto dalla lettura è quella di aver avuto sotto gli occhi il risultato di una elaborazione computerizzata di dati presi dal patrimonio artistico e biografico del grande scrittore americano. Cinque o sei situazioni-tipo si ripetono ossessivamente: la prima è la preparazione di un martini cocktail accompagnato (orrore!) da olive all’aglio (altre assurdità eno-gastronomiche si ripetono per tutto il romanzo). La seconda situazione vede i due o tre protagonisti che fanno il bagno in mare, seguendo sempre un identico rituale di gesti standardizzati e banali.
Nella terza situazione il protagonista scrittore «giace» con le sue due compagne e l’amplesso nasconde ogni volta un piccolo volgare mistero. Quarta mania è quella di descrivere con cura le docce e la ricerca del cambio d’abiti e di biancheria pulita dei protagonisti. Infine è da mettere nel conto la noiosa ripetitività dei dialoghi, sempre costruiti sul meccanismo della botta e risposta, in cui dovrebbe nascondersi una imprevedibile novità che, però, l’interlocutore conosce invece già benissimo. Inoltre i tre protagonisti non hanno alcuno spessore psicologico: David, lo scrittore, è assolutamente imbecille con un poverissimo repertorio di parole e di gesti; la moglie Catherine non è pazza, come si vorrebbe far credere, ma solo una piccola streghetta cattiva; la terza del banale triangolo è una copia conforme dell’altra donna. Si legge con un certo piacere (forse per un errore dell’elaboratore) l’inserto della novella scritta da David e ambientata in Africa, che narra la storia di un bambino e di un elefante con intensa e sobria lucidità.

Il libro di Cesare Musatti Curar nevrotici con la propria autoanalisi (Mondadori, 1987, pagg. 156, Lit. 16.000) non sarebbe degno di attenzione: si tratta m atti di un romanzetto autobiografico, mal scritto, di un tale che cerca di ricondurre alcuni episodi della sua lunga vita entro i parametri della scienza freudiana. Però, siccome l’autore viene chiamato «il padre della psicoanalisi italiana» ci sembra giusto esternare alcune considerazioni che ci sono venute alla mente. La prima sensazione che queste pagine hanno destato in noi è stata di profonda tristezza: vedere il pensiero del grande S. Freud così robusto, possente, articolato e capace di infinita sottigliezza, ridotto a poche formulette schematiche applicate automaticamente sulla realtà, senza poesia e senza acume, come se la psiche dell’uomo, e non solo di Cesare Musatti, fosse una tanto povera e piccola cosa, ci ha procurato un grandissimo scoraggiamento. Uno di noi ricorda che un giorno, al liceo, venne a fare lezione di filosofia un supplente, meschinello ma presuntuoso. Costui guardò sul registro il programma svolto fino a quel giorno dal titolare della cattedra e disse con sussiego: «Bene, oggi vi parlerò di Platone». E ridusse, nella sua arida esposizione, uno dei più grandi pensatori della nostra cultura al livello di un babbeo capace solo di raccontare favolette. Il brutto fu che molti tra gli allievi se la presero con Platone. Lo stesso potrebbe accadere allo sprovveduto che si trovasse a leggere questo libro che, in fondo, non è altro che uno dei tanti della serie «tutto ciò che vorreste sapere sulla…». Ci sembra, ancora, che Musatti abbia un atteggiamento poco rispettoso per quello che è il vero padre della psicoanalisi: per esempio, all’inizio del libro, c’è una esile parodia del racconto freudiano sulla dimenticanza del nome di Luca Signorelli. Quanto è più articolato, ambiguo e polidirezionale il percorso mentale di Freud nel suo tentativo di ricordare quel nome e quanto è invece misero l’aneddoto musattiano! Freud nelle sue pagine è veramente capace di uno stile autobiografico, privo di falsi e perbenistici pudori che invece infarciscono i capitoli di questo volume. Per di più Musatti propone il suo racconto come se fosse stato non tanto Freud quanto egli stesso a chiarire a fondo il meccanismo dei lapsus e delle associazioni. Anche quando interpreta qualche sogno lo fa poveramente, senza fantasia né poesia. Un esempio per tutti è il sogno del fratello morto «(…) che si avanza verso di me brandendo un coltello nascosto dietro la schiena. Viene per pugnalarmi, ed io mi rifugio spaventato accanto a mia madre, anch’essa da molti anni defunta.» La spiegazione di Musatti e del suo senso di colpa verso il fratello è solo questa: «Ed io, Caino colpevole (…) mi rifugio, come quando ero bambino tra le sottane e dietro la figura di mia madre in cerca di protezione e salvezza».
Questo sogno, ricco, esplosivo, pieno di risonanze è ridotto alla gelosia, al timore di vendetta e al desiderio di rifugiarsi dietro le sottane materne. Non abbiamo il diritto di avventurarci noi in più ardite interpretazioni ma… formuletta per formuletta… cosa dice Freud del simbolo onirico del coltello?
L’unico interesse questo libro ce l’ha per chi prova curiosità per i piccoli e piccanti aneddoti di ieri con i quali ben figurare negli oziosi salotti.

36 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Richetto: Il grappolo d’oro è un enorme ristorante che si trova al numero 35 di via Tor di Quinto, proprio al mercato di Ponte Milvio. Questa sua collocazione fa sì che si rivolga ad una clientela vasta e composita: le famiglie del quartiere e quelle più grasse e borghesi delle vicine zone residenziali e le folle di frequentatori e frequentatrici notturni della zona alberata adiacente. Gente eterogenea che ha, però, in comune il fatto di apprezzare alquanto la pessima cucina del locale. Dopo che ci siamo auto-serviti di accettabili antipasti di verdure, ci sono giunti in tavola, portati dalle cucine a ritmo frenetico, spezzato però da lunghissime ed inspiegabili pause, alcuni piatti da far rizzare i capelli in testa: un cartoccio di pasta scotta con frutti di mare indecenti e gommosi; tonnarelli con i carciofi, sommersi di panna; fettuccine ai funghi degne di un pastone per le galline. Ai primi piatti sono seguite pietanze non certo migliori: spiedini di pollo e manzo le cui carni bruciate non permettevano di distinguere l’uno dall’altro; gli straccetti erano veri brandelli di carne stopposa, bagnati da una salsa amara e piccante. Abbiamo anche tentato un piatto di pesce, ma le mazzancolle sembravano di cartone e plastica. Il tiramisù ci ha buttati giù come pure gli altri dolci (a onor del vero abbiamo ricevuto le scuse per la pasta cruda della torta di frutta). Non ci è stato possibile scegliere i vini perché o non c’erano del tutto quelli della lista che chiedevamo o finivano dopo la prima bottiglia; erano però scadenti, maltenuti e peggio serviti. Tutto sommato la cosa meno sgradevole è stata il conto, davvero molto contenuto.

Forse è vero che i due FarfalIoni sono cattivi, però, spesso anche quando ce la mettono tutta per cercare di parlar bene, un destino avverso li costringe a denunciare l’amara verità. Noi conosciamo e stimiamo Sandy Chung, ottimo cuoco e maestro della cucina cinese, perciò, qualche sera fa, ci siamo detti: «Perché non andiamo al suo ristorante, dove certamente mangeremo bene, e così potremo scrivere un bel pezzo?». Invece al Ki Lin, questo bel ristorante rosso ed accogliente di via Carlo Cattaneo 13, c’è qualcosa che non va. La carta sembra raccomandabile, poiché, mescolate agli ultra soliti piatti di tutti i ristoranti cinesi d’Europa, ci sono alcune proposte meno consuete, ma oltre la carta non si va. Innanzitutto i fritti arrivano in tavola tutti immancabilmente bruciati: siano i toast di gamberetti o i ravioli wun tun, la pizza cinese o l’anatra croccante. A parte le alghe fritte, zuccherate, ciò che non è bruciato ha un disgustoso sapore di fumo e di rancido. Veramente sgradevole la pasta mista, appena sopportabili il pesce in salsa cinese e la carne mista con riso cuo ba, due piatti insipidi e acquosi. La zuppa di mais è un intingolo di fecola e quella agro piccante è viscida oltre ogni sopportabilità. La frutta caramellata è immersa in un olio indecentemente impregnato di pesce e maiale. Ovviamente i vini sono, come in tutti i locali cinesi di Roma, orribili bianchi. Buona è invece la grappa di rose! Il prezzo da Sandy è sempre contenuto.

36 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

«Il riso fa buon sangue», dice il proverbio. Come ben si sa i detti popolari affermano tutto e anche il contrario di tutto. Noi pensiamo che l’allegria, l’autoironia che induce a non prendersi troppo sul serio, siano buone cose che possono anche far bene alla salute. Esistono però anche risate pestilenziali: sono quelle che sorgono dalla volgarità e dall’ignoranza.
I «teatranti», hanno da sempre usato, per strappare il riso un mezzo che è, spesso, indegno e malvagio, e consiste nell’estorcere le risate con la rappresentazione delle più terribili disavventure che succedono ai più disgraziati personaggi. Charlot fa spesso sorridere, ma il suo umorismo è pericolosissimo perché può diffondere il male in chi non è capace di leggere ciò che di poetico e non solo di comico vi è in quel mondo.
Per non avventurarci troppo in discorsi vasti su teatro e umorismo – non è qui il caso – vogliamo semplicemente dire che lo spettacolo dei Pigeon drop, andato in scena al Teatro Vittoria, al Testaccio, nell’ultimo scorcio di settembre, non solo è stato uno spettacolo bello e divertente, ma anche profondamente sano. C’è sì nelle scene che il gruppo propone un pizzico di sadomasochismo, ma ironizzato e consapevole e questi sei più uno attori, cantanti, suonatori, ballerini e acrobati sono grandemente capaci di coinvolgere gli spettatori con una spensierata allegria sempre di buon gusto.
Lo spettacolo di questa tournée europea consiste in una serie continua di scenette ben ritmate, che rampollano una dall’altra con sensatissimo nonsense. Tutto è musicale: le voci, i gesti, gli ammiccamenti, precisissimi e che danno il senso di una facile spontaneità, come solo un’accurata preparazione consente.
Anche i brani musicali veri e propri, eseguiti con garbo e capacità d’insieme s’inseriscono con ottimo senso del tempo, non come pezzi a sé, ma come parti integranti di un tutto ammirevolmente orchestrato. Sono musiche di tutti i generi: dal rock al music-hall, dalla beguine ai Blue Brothers. Il gruppo non fa ricorso a nessuno stabile contributo femminile e quando l’estemporanea presenza di una donna è richiesta dal copione, viene inserita con garbo e dignità e con grande rispetto, contrariamente a quanto avviene in forme di spettacolo incentrate sul culto della donnastar, dove la femminilità è davvero avvilita e mercificata.

Difficilmente il nome di Karl Valentin viene in mente a chi pensa al «cabaret» tra le due guerre, eppure il suo personaggio fu capace di attrarre l’attenzione di uomini come H. Hesse e B. Brecht. Quest’ultimo anzi raccolse la tradizione dialettale di Valentin in opere come Lux in tenebris e Il cane morto, assimilata negli anni di frequentazione e di lavoro comune nelle birrerie bavaresi. Questa caratterizzazione popolaresca e regionale è forse una spiegazione del fatto che la sua notorietà sia rimasta soprattutto locale.
Patrick Rossi Gastaldi ha adattato, diretto e interpretato Valentinfest, presentato al Teatro dell’Orologio, ambientandolo in una credibile e allo stesso tempo ironizzata ricostruzione della «Ritterspelunke», di Monaco di Baviera, vecchia birreria testimone spesso delle performance di K. Valentin. Ne è risultato un collage ben articolato di scenette e canzoni in cui la stralunata e grottesca comicità bavarese viene ben resa, sia pure con l’aggiunta di un che di «mediterraneo» che proprio non le nuoce. I toni sono i più svariati, predomina un umorismo greve e surreale in cui la battuta non è più importante del gesto e dell’ammiccamento anche triviale.
Patrick Rossi Gastaldi presta la sua persona alla figura dello stesso Valentin: lungo, nero, un po’ lugubre e un po’ scalcagnato, si è dimostrato capace di una grande varietà di timbri e di una espressività stilisticamente corretta. Ci è parsa stupefacente l’apparente facilità con cui ha saputo – per fare un esempio – passare rapidissimamente dalla buffonesca sirena del Reno, improbabile Lorelei ammaliatrice, al commosso e drammatico cantore della leggenda del tamburino.
Ben più che spalle sono stati gli altri: il pianista Luca Tutino, il pompiere Daniele Rerretti, il mago Pino Strabioli, il terzetto femminile di Carmen Motz, conduttrice efficacemente delirante, Barbara Enna e Alessandra Toniutti. Abbiamo già detto quanto abbiamo approvato la scena e i costumi di Claudio Di Tornassi.

Il Misantropo una delle più note opere di Molière, andata in scena per la prima volta al Palais Royal di Parigi nel 1666, narra le vicende di Alceste, gentiluomo della buona società parigina, ossessivamente rigido nei confronti delle debolezze umane, moralista spietato e personaggio decisamente odioso. Il suo è un ennesimo esempio di «tartufo»: infatti l’onestissimo individuo non è che un volgare maleducato, vile nel profondo, che, pur di ottenere l’amore di Celimene, è pronto a non vederne i tradimenti e quasi la supplica di insistere con le truffe e con l’inganno. Come ultimo gesto vigliacco, dopo una serie di disavventure, dovute tanto alla sua velenosa perfidia quanto alla disonestà del mondo, decide di ritirarsi, da solo, in campagna, dove l’amata si rifiuta, giustamente, di seguirlo. L’opera, stupenda, non ha personaggi positivi: non lo sono né l’accomodante Filinto che invita il «misantropo» al compromesso e ad accettare il mondo così com’è, tanto meno l’infingarda e acuta Celimene o il vacuo Oronte e gli altri cortigiani e cortigiane presuntuosi, maldicenti e traditori. Non c’è salvezza per la natura umana, eppure, pur nella sua parzialità, la visione, del mondo di Molière assurge qui a grandezza tragica. Il dialogo è acuto e variopinto e le situazioni sono tragicamente comiche. Non c’è mai un momento di stanchezza nella vivacità inventiva.
Purtroppo la realizzazione che Carlo Cecchi, regista e interprete principale, ha proposto al Teatro Valle non conserva di tutto questo che una pallida e stantia eco.
L’allestimento nel suo insieme ha il sapore di quelle messe in scena che si pensa, a torto, di dover propinare ai ragazzi delle scuole: sentenziose e didascaliche. Gli attori pronunciavano le battute senza sfumature, restando immobili o con pleonastici, inefficaci e convenzionali gesti; inoltre lo stesso Cecchi, assolutamente inespressivo, bofonchiava in modo insopportabile; tanto che, nonostante la genialità del testo, ben reso dalla splendida e ritmata traduzione di Cesare Garboli, è scesa sugli spettatori una noia mortale e più d’uno s’è dolcemente addormentato.
Noi stessi abbiamo faticato molto a non cadere in braccio a Morfeo. Affiancavano l’Alceste di Carlo Cecchi, Elia Schilton (Filinto), Toni Bertorelli (Oronte), Anna Bonaiuto (Celimene), Enrica Origo, Dorotea Ausenda, Francesco Origo, Roberto Accornero, Nathalie Guetta e Italo Spinelli. L’unica scena, rossa solenne, con un grande specchio, era di Sergio Tramonti, i gradevoli costumi di Stefania Benelli Barilli.

Il medico viennese Arthur Schnitzler (1862-1931) non è, secondo noi, un grande autore di teatro: ci sono nei suoi testi troppe parole, anche considerando la tendenza alla verbosità della sua epoca, troppo moralismo, e un’ironia un po’ flaccida. Dimostra però di saper ben tornire le battute ed usa un linguaggio forbito, anche se leggermente rancido.
Poiché oggi vanno di moda l’Austria e la Germania di quell’epoca, Schnitzler viene, comunque, rappresentato all’impazzata.
Ci è parso un miracolo, con queste premesse, godere tanto assistendo al Teatro Argentina alla rappresentazione di questo suo Casanova a Spa. I «tre atti in uno» sono stati divisi in due parti, nella prima delle quali, assente il personaggio di Casanova, veniamo a conoscenza dell’antefatto: la giovane Anina è stata nella notte sedotta da Casanova, entrato per sbaglio nella sua camera, invece che in quella della più matura Flaminia, con la quale aveva un appuntamento galante. Nella seconda, con l’ingresso in scena del protagonista, si svolge la vera e propria azione drammatica: il geloso Andrea, marito involontariamente tradito, si dibatte tra l’amore e la gelosia, mentre le due donne si disputano il diritto sull’amore di Casanova, il quale, invece, se ne andrà con una terza donna, una ballerina. Anche Flaminia ha un marito il quale è però un opportunista che antepone gli affari all’onore.
Per tutto il primo tempo, forse anche per un’esasperante monotonia e staticità del copione, la vicenda ha fatto fatica ad avviarsi anche se già si poteva intravedere una buona impostazione scenica, in cui ogni possibile spunto era sfruttato per destare l’interesse dello spettatore. Nel secondo tempo l’abilità generale si lasciava apprezzare appieno: Mariano Rigillo, andando anche oltre il testo, costruiva un Casanova ironico, dinamico ed accorato.
Letteralmente stupendo il personaggio del marito di Flaminia, il Barone Santis di Vittorio Franceschi, sulla cui interpretazione si potrebbero scrivere pagine: la sua voce chioccia, straordinariamente espressiva, era in perfetta sintonia, in ogni momento, con la sua mimica efficace, ritmata con crescendo e diminuendo calcolatissimi. Federico Pacifici ha reso il personaggio di Andrea con variegate sfumature, pur nell’ingenua semplicità del carattere. Molto brave Antonella Fattori (Anina) e Anna Teresa Rossini (Flaminia): le due perfidissime dame dalla malvagità quasi disumana. La Fattori oscillava con maestria tra il bamboleggiamento e la spietatezza; la Rossini, che all’inizio appariva un po’ sovratono, è diventata poi un personaggio ben dosato, vieppiù convincente, truculento e umoristico. Molto brava anche Simona Caramelli che. della ballerina Teresa, ha disegnato un profilo per nulla settecentesco, piena di cinguettii da soubrette di cafè chantant. Non da meno sono stati Giampiero Becherelli nel ruolo del vecchio Gudar e Mascia Musy nei panni del servitorello Tito. La regia di Luca De Fusco ha amalgamato tutto con precisione. Le scene efficaci e preziose e i costumi ironicamente divertenti erano di Sergio d’Osmo. Riteniamo sia stata corretta la scelta di musiche non settecentesche, che qui sarebbero state fuori stile, ma avremmo preferito il primo Strawinsky o Rimsky Korsakov all’uso di un repertorio brahmsiano che è risultato opaco e confuso.

37 – Ottobre ‘87

giovedì, 1 ottobre 1987

Allo Studio S di via della Penna 59 si è inaugurata il sei novembre una mostra che non solo è stimolante culturalmente, ma, cosa che accade di rado, è anche piacevolmente fruibile: una serie di belle opere, di ottimi artisti, disposte in modo da coprire un breve e godibile percorso. Tutto questo si articola intorno ai disegni e pastelli di Antonio Stagnoli, artista bresciano tornato ad esporre a Roma dopo molti anni di assenza. Sui fogli e sulle tele di Stagnoli si arrampicano in barocca euritmia grovigli di linee in cui si compongono animali e cose. La natura non è colta «veristicamente», ma scaturisce tra i segni, in un gioco di fantasia, talvolta ironico, talvolta inquieto, senza essere mai tragico. Gli animali sembrano sorpresi in una pausa di riflessione, avvolti da un universo vegetale che li nasconde e li rivela, li accoglie e li soffoca. Nelle chine, l’immaginazione è invitata all’incessante ricerca delle forme possibili, in un gioco che ricorda quello dei severi arabeschi in nero ferro battuto delle antiche cancellate: ed ecco il Cane in posta alla grande radice o Di guardia al cesto di raccolta, oppure teso Verso il balzo e Gallo e galline sono nascosti da un viluppo di vegetazione o colti Nel pollaio. Nei pastelli colorati, invece, interviene una luce divertita e si percepisce quasi il sollievo di chi, accesa una lampadina, si rinfranchi alla vista dei musi famigliari di domestiche capre.
Attorno alle opere di Stagnoli si articolano opere grafiche, su carta e su tela, e sculture di altri ventidue artisti, alle prese col tema di un «Bestiario. Dal reale all’immaginario.», dove la varietà delle suggestioni sembra non aver fine: dalla ricchezza fantastica di Max Klinger, alla riflessione leopardiana di Vespignani, un po’ mortifera, alle metafisiche battaglie di Joaquin Roca Rey, all’insinuante ghepardo maculato che Paolo Giorgi pone come doppio della Jeune fille o dell’Astarte siriaca, ai mostri che attendono l’uomo di Roland Topor sulla cima del baratro, all’orripilante piovra che avvolge la donna dai due volti di Bruno Caruso, fino al Far West di Billie S. Fraleigh. E queste sono soltanto le opere di cui abbiamo più vivo il ricordo e siamo certi che ciascuno potrà trovare altri punti di riferimento; ma nessuno potrà trattenere un senso di ammirazione e devozione insieme, di fronte a due piccoli, assoluti capolavori, da guardare e da accarezzare: i due bronzi di Giorgio De Chirico, Cavallo e palafreniere e Cavallo e cavaliere, d’una bellezza così pura che «intender non la può chi non la prova».

Fausto Melotti è un nome importante dell’astrattismo italiano, scomparso nel 1986. Nella
mostra organizzata in questi giorni alla Galleria Editalia di via del Corso 525 sono esposte opere non particolarmente illuminanti della sua personalità e neppure più importanti di altre; sono però sufficienti a chiarire quale fosse il suo concetto dei colori e delle immagini, anche della scultura. Quello che ci si trova di fronte è il risultato di un lavoro onesto e coerente, all’interno di moduli linguistici scelti da sempre, che però non risulta particolarmente convincente e di fronte al quale si rischia di passare indifferenti.
A proposito di Melotti abbiamo fatto, però, una graziosa «scoperta»: abbiamo trovato e comprato in galleria un suo libricino di poesie, La melagrana aperta (ed. della Cometa) ricco di immagini semplici e gradevoli, un verso dolce e piano di fronte al quale non è possibile restare indifferenti.