Psicoanalisi contro n. 36 – Qui sto saldo

ottobre , 1987

La psicologia dinamica è sorta tra l’Otto e il Novecento ad opera di alcuni pensatori e scienziati, tra i quali grandeggia Sigmund Freud che ha chiamato la sua teoria «psicoanalisi».
La psicoanalisi non è che una tra le correnti della psicologia dinamica. Il comune assunto delle varie teorie di psicologia dinamica è l’ipotesi dell’inconscio. Su questa ipotesi sono venute costruendosi varie tecniche terapeutiche che operano considerando l’inconscio come una realtà biopsichica, in continuo rapporto dialettico con quell’altra componente della persona chiamata coscienza; il loro scopo è d’intervenire facendo chiarezza sulle oscure trame ordite dall’inconscio nel profondo della realtà dinamica della psiche.
Freud è stato forse quello che con maggior chiarezza ha dimostrato l’influenza dell’inconscio sul comportamento quotidiano degli esseri umani, ed ha meglio illustrato quel particolare tipo di rapporto che si viene a costituire tra gli elementi inconsci e gli elementi coscienti. La psicologia dinamica, inoltre, per poter operare terapeuticamente, ha dovuto teorizzare una propria visione dell’uomo e del mondo, di malattia e di salute, particolarmente di salute mentale. All’interno di questa visione generale, grande importanza è data al «conflitto» psichico, capace di causare gravissimi disagi.
Secondo la teoria freudiana, le pulsioni non accettate e «rimosse», nel loro tentativo di pervenire alla coscienza, sono spesso costrette a «travestirsi»; talvolta il «travestimento» si esprime sotto forma di «sintomi». Ci sono sintomi di poco conto che costellano la vita quotidiana di ciascuno e che consistono in piccoli gesti incongrui come la dimenticanza di una parola che, in qualche modo, è associabile a qualcosa di spiacevole, o la scelta di una strada sbagliata che tradisce la volontà di non raggiungere il luogo verso il quale pure consapevolmente diciamo di volerci dirigere. Succede allo stesso modo di arrivare per errore all’appuntamento in un giorno o ad un’ora diversi da quelli fissati. Nascono comportamenti scomodi come l’incapacità di rinunciare a lunghissimi e noiosi rituali che possono essere il bisogno di disporre gli oggetti tutti in un determinato modo, la necessità di lavarsi sempre le mani, ripetutamente, dopo aver toccato qualcosa, nel timore di una contaminazione, di non riuscire a prendere l’ascensore, non poter camminare da soli, attraversare una piazza, star chiusi in una stanza. Fino a giungere a sintomi molto gravi come la paura di compiere gesti inconsulti, magari di mettersi ad urlare nel bei mezzo di un concerto, paura di ferire se stessi o le persone amate, timore di poter compiere gesti che addirittura metterebbero a repentaglio la vita propria oppure di altri. Ci sono anche sintomi fisici, come il malore improvviso attraverso il quale si cerca di evitare una situazione spiacevole da affrontare, o la malattia che libera da qualche responsabilità. Questi sarebbero quelli che vengono chiamati «sintomi nevrotici».
Quando poi la realtà diventa sempre più distorta e le fantasie interne hanno del tutto il sopravvento sul mondo esterno abbiamo la «psicosi». Si è verificata in questo caso una inserzione massiccia delle pulsioni inconscie che procurano un marasma emozionale, un disorientamento spazio-temporale e l’incapacità a gestire il rapporto con se stessi e con gli altri. L’antica psicoanalisi pensava di essere in grado di intervenire terapeuticamente soltanto nei casi in cui i sintomi fossero di tipo nevrotico; cioè a condizione che ancora non fosse interrotto il rapporto con la realtà.
I soggetti che facevano ricorso a quel tipo di cura dovevano, insomma, essere loro stessi consapevoli che quei gesti e quei comportamenti erano qualcosa di estraneo, doloroso, assurdo e inaccettabile.
Il rifiuto dei sintomi e il tentativo di inibirli procurano però ansie e sofferenze che rischiano di tradursi in sintomi nuovi e peggiori.

2.
La teoria psicoanalitica dei primi tempi – e quella freudiana in particolare – aveva spiegato la formazione dei sintomi in modo semplicissimo: le pulsioni che sorgono dal profondo dell’inconscio hanno una loro energia, in esse si nascondono i desideri che sono stati rimossi perché inaccettabili; la rimozione non è però stata totale, per qualche ragione ignota, ed ecco che allora i desideri cercano ugualmente di trovare una strada verso il proprio soddisfacimento, malgrado tutte le considerazioni di morale, opportunità e buon gusto che inducono la persona a rifiutarli.
Il sintomo è una forma distorta di appagamento del desiderio rimosso. Inoltre ha un suo linguaggio che lo mette in qualche modo in relazione col desiderio e riesce si a scaricarlo, ma con molta sofferenza, una sofferenza che talvolta è già sentita come espiazione. Pareva così che i conti tornassero, sia pure all’interno di un equilibrio malato e sofferente. La guarigione a questo punto sembrava facilmente raggiungibile: bastava scoprire quale fosse il desiderio che si era travestito da sintomo ed ecco che, una volta smascherato, il sintomo non avrebbe più avuto ragion d’essere e conseguentemente il malato sarebbe stato libero dal disagio.
Si diceva anche che l’inconscio tendesse per sua natura a diventare evidente, a manifestarsi. Su questo punto, ancor oggi, le domande e gli interrogativi si affollano: che senso ha che, ciò che è sorto come inconscio, abbia in sé questa profonda esigenza di negare se stesso? Tentare di risolvere questo problema ci porterebbe lontano e potrebbe turbare il nostro discorso, per cui ora lo accantoniamo e ci limitiamo a prendere atto del fatto che pulsioni e desideri inconsci tendono a venire alla superficie e a rendersi manifesti, per cui si crea il bisogno di intervenire per controllarli, prima che i danni provocati siano troppo grandi. 1 teorici quasi concordemente affermano che non tutte le pulsioni inconsce, divengono manifeste ma solamente alcune, perché? Dipende solo dalla loro violenza? Le risposte della psicologia dinamica a questi interrogativi si differenziano molto le une dalle altre. Rimane comunque valida una considerazione di base: alcune esigenze sociali, culturali, ambientali, educative e alcuni meccanismi biologici, fisiologici, evolutivi, ed anche dinamiche filogenetiche in contatto e in contrasto con l’esistente, che vive qui ed ora, possono aver caricato alcune pulsioni di una forza particolare ed averne invece definitivamente allontanate dalla coscienza altre. La psicologia dinamica ha preso anche in considerazione lo sviluppo individuale, suddividendo la vita dell’essere umano in «fasi», caratterizzate dall’evoluzione sessuale e intellettiva; ha poi ipotizzato che particolari situazioni o eventi chiamati «traumi» potrebbero impedire lo sviluppo progressivo del singolo, che rischia così di rimanere «fissato» ad un determinato livello e a modelli rigidi di comportamento, incapace di dirigersi verso una condizione di completa maturità. Queste considerazioni pongono però il problema della identificazione di un supposto punto di maturità: cosa vuol dire essere maturi? Tutte le scuole e gli indirizzi teorici della psicologia parlano di adeguatezza e di inadeguatezza. L’essere umano -si dice- è maturo quando segue il comportamento adeguato ad ogni momento della sua esistenza. C’è così un comportamento adeguato per l’essere umano all’età di due anni, che diviene inadeguato in un individuo che abbia, per esempio, sei anni, e così via: per ogni età c’è il comportamento adeguato.

3.
Chi decide quale sia il comportamento adeguato? La morale? Questa però non sarebbe in grado di esprimere giudizi su molti aspetti del divenire umano. Per fare solo alcuni esempi: non si potrebbe usare il metro della morale per valutare l’adeguatezza del linguaggio parlato, o dello strutturarsi delle dinamiche spazio-temporali, con i loro problemi di orientamento e di polidirezionalità.
Si potrebbe allora conferire tale potere decisionale alla filosofia, di cui la morale fa parte. L’indagine filosofica però concerne l’uomo in generale, il suo significato nel mondo e il significato stesso del mondo. La filosofia ha quindi un campo di interessi troppo vasto quando affonda le sue radici nella metafisica e i suoi strumenti non sono i più idonei a definire lo sviluppo psicofisico dell’uomo. Se invece si considera la filosofia in una sua accezione particolare, circoscrivendone quegli aspetti che prendono in esame la natura umana, ecco che diviene psicologia o, peggio, psicologismo. A questo punto pare ribadita ancora una volta la competenza della psicologia e si riparte da capo.
Quale psicologia? Forse quella che si autodefinisce sperimentale? I cosiddetti scienziati sperimentali, che non si ritengono moralisti e neppure filosofi, i quali conoscono l’anatomia e la fisiologia del sistema nervoso, che sanno confrontare filogenesi e ontogenesi ed hanno fatto lunghi studi di antropologia, sono in grado di descrivere il comportamento adeguato dell’uomo? La loro scienza dice di avere un fondamento concreto che consiste nella sperimentazione che parte dall’osservazione. Cosa osserva lo scienziato psicologo? Osserva i vari comportamenti. Come può poi decidere quali siano adeguati e quali non? Sulle basi del calcolo statistico! Ma una scienza che si fondi sulla descrizione – e la statistica non è che descrizione – e non si ponga il problema delle cause e dei perché, può dirsi una vera scienza? Voglio portare un esempio molto semplice: nella nostra area culturale la balbuzie è un disagio che patiscono soprattutto i maschi, mentre le femmine ne sono quasi esenti. La pura e semplice percentuale di quanti sono i maschi affetti da un tale disturbo e quante le femmine è un gioco divertente, ma assolutamente ozioso se non ci invita a domandarcene le ragioni.

4.
Lo scienziato psicologo sperimentale crede di essere obiettivo, ma se non vuole porre il fondamento della sua ricerca sulla pura e semplice descrizione statistica dovrà in qualche altro modo fondarla. Le spiegazioni potrebbe trovarle nell’influenza dell’ambiente, nei meccanismi educativi, o meglio ancora nella relazione tra questi e quelli. Queste ultime acquisizioni non sono però più riconducibili alla mera statistica, per cui egli finisce col trovarsi privo del solo fondamento scientifico di cui dispone. Po-trebbe allora fare riferimento al corpo e allo sviluppo degli organi e delle loro funzioni. Ciò parrebbe quantizzabile e quindi riconducibile alla statistica; ma la persona non può, assolutamente essere ridotta alla sua evoluzione anatomo-fisiologica. Solo una piccola parte del divenire umano è davvero quantizzabile, il resto o rimane tuttora ignoto, o fa parte di un mondo espressivo che è giudicabile in base a sistemi di valore che la statistica non è in grado di manipolare. La conclusione è che la scienza sperimentale, anche se volesse basarsi esclusivamente sulla realtà organica dell’essere umano, non troverebbe sufficiente fondamento.

5.
Le funzioni psichiche, i comportamenti, i sentimenti, le fantasie hanno sì qualcosa a che fare con la massa dei neuroni e la loro organizzazione, ma relazioni, meccanismi causali, localizzazioni funzionali sono quanto mai legati alla capacità di immaginazione dello psicologo e al suo desiderio di costruire un meccanismo, anche psichico, che non sia molto dissimile dal più generale schema corporeo. Ormai, giustamente, nessuno osa più parlare, senza vergogna, della separazione tra corpo e psiche. Sarebbe bello poter schematizzare in qualche modo architettonicamente l’insieme delle componenti e delle funzioni che costituiscono l’essere umano: alla base di questa costruzione ci sarebbe il funzionamento elementare dell’organismo, con le azioni e reazioni automatiche che rendono possibile la vita; subito sopra ci sarebbero gli istinti, cioè quei meccanismi strettamente legati al soma che possono però condizionare e guidare il comportamento superiore; al di sopra di tutto, la coscienza, che non solo riconosce, ma anche guida la persona nel suo muoversi nel mondo. Proprio il concetto di istinto è quello che pone in crisi questa bella architettura.

6.
Che cosa è l’istinto? L’etologo e il neurofisiologo non si rifugino, a questo punto, nell’ovvio e stupido paragone della rondine che si costruisce il nido. Conosciamo così poco dei nostri sentimenti e delle nostre motivazioni, che pontificare troppo sulla vita e le intenzioni di quei graziosi volatili è sciocco e poco « scientifico». Io non escludo che sia utile studiare il comportamento degli animali, magari anche per fare paragoni con quello umano, ma lasciamo stare una volta per tutte le gerarchizzazioni, affrontiamo direttamente la nostra realtà e parliamo dei nostri istinti. Non solo vengono ritenute ugualmente istintive funzioni molto diverse tra loro come i meccanismi di difesa o la sessualità; ma per esempio, alcuni considerano istintivo, nell’uomo come negli animali, l’amore per i figli. Io penso che non si provi solo amore per i figli, ma anche odio e molti altri sentimenti. Quanti sentimenti radicati e profondi possono legittimarne essere ridotti all’istintualità? Quando l’istinto è solo tale? Potremmo a questo punto chiamare in soccorso la teoria pavloviana, ma sebbene sia utile per spiegare alcuni elementari meccanismi riflessi, quando cerca di rendere conto del funzionamento del pensiero e dell’affettività, troviamo, tanto in Pavlov quanto nei suoi seguaci, una tale congerie di astrusità che, al confronto, appaiono semplici le argomentazioni più lambiccate della filosofia medioevale, impegnata nel tentativo di spiegare i perché del comportamento divino.

7.
Quindi il corpo non può essere considerato separatamente dalla psiche, ma se li uniamo, ci accorgiamo che rendere tutto corpo ci pone problemi così complessi da costringerci ad inventare più o meno graziose o idiote tavolette. Se invece riduciamo tutto alla psiche, ecco che questa sembra fagocitare il corpo e pretende di essere chiamata anima. Rimane una possibile distinzione, che non è «nell’uomo», ma è «dell’uomo», il quale ha dovuto operarla per capire i propri comportamenti, per riuscire a raccontare il divenire della vita ed anche per essere in grado di intervenire quando il meccanismo, nel suo svolgersi, si inceppa. Questo dovrebbe essere il fondamento. È utile però trovare un fondamento?
Sarebbe utile, se non fosse impossibile.

8.
Benché impossibile trovare un fondamento assoluto, ciascuno deve saper dare a se stesso un fondamento operativo da cui partire. Perché, come Martin Lutero, dobbiamo fermarci ad un certo punto e dichiarare a noi stessi e agli altri: «Qui sto saldo». Lutero aveva ragione o torto? Questo non ha importanza: importante per lui era sentirsi i piedi poggiati su punti saldi. Il mondo ha tratto giovamento da quella saldezza? La storia è andata avanti, anche oltre le prese di posizione del monaco tedesco, oppure si è aggiunta confusione alla confusione? Cerchiamo di ricostruire le ragioni di quella esigenza di saldezza: indubbiamente la chiesa di Roma non dava, neppure allora, una gran bella immagine di sé; il monaco agostiniano era andato però oltre un semplice intento moralizzatore: non si era limitato ad accusare quei vescovi e quei preti di essere cattivi preti, ma aveva loro negato il diritto di essere preti e vescovi, negando loro la prerogativa di dispensare la grazia divina. Perciò gli era indispensabile di sentirsi saldo. Fu fanatismo? Il fanatismo è il pericolo più grave che corrono tutti quelli che cercano di migliorare sé e gli altri, che lottano, in buona fede per il bene di tutti o per il loro bene. Si potrebbe dire che le verità di fede hanno bisogno del fanatismo perché non hanno la possibilità di verifiche sperimentali, mentre le verità scientifiche, al contrario, si fondano sull’esperimento e sulla solidità del sistema naturale. Una verità filosofica o religiosa non potrà mai essere confutata da un esperimento; invece un’affermazione scientifica sì. La verità scientifica pare assolutamente incerta molto più incerta di quella filosofica o religiosa. La verità scientifica, infatti, può essere sempre confutata e contraddetta, mentre le affermazioni della filosofia e della fede sono irrefutabili, se le sentiamo solidamente radicate dentro di noi. Ma… se qualcosa d’altro viene a confutare ciò che è dentro di noi? Il balletto di Urbano VIII e Galileo Galilei non è ancora finito: scienziati opprimono altri scienziati, regimi imbavagliano preti e astrofisici. L’universo non ha ancora svelato a nessuno il suo mistero.
Tutto questo lungo discorso dove vuole condurre? A trovare una risposta alla domanda: «Che cosa è la psiche?»
Perché Mario si alza dal letto e torna a controllare la chiavetta del gas, pur essendo certo di averlo già fatto?