36 – Ottobre ‘87

ottobre , 1987

Sabato 19 settembre, al Teatro Olimpico, l’Accademia Filarmonica Romana ha inaugurato la stagione con un concerto della Chamber Orchestra of Europe, condotto dal pianista e direttore Vladimir Ashkenazy.
Primo brano in programma è stato Verklaerte Nacht di Arnold Schoenberg, per orchestra d’archi. L’opera, tra le primissime del compositore viennese è di un indifeso tonalismo, appena increspato da un cromatismo che però -malgrado quello che dicono molti critici- ha poco di wagneriano. Per tutto il brano si dipanano alcune bellissime melodie che si stratificano e formano grumi accordali, talvolta molto interessanti, altre volte con effetto di monotona ripetizione. La direzione di Ashkenazy non è stata molto limpida ed ha accentuato, anziché smorzarli, i momenti di confusione; tuttavia alcuni episodi di sottile languore sono stati proposti con la dovuta efficacia.
Il Concerto in la maggiore K.414 di W.A.Mozart, che ha sostituito all’ultimo momento un brano di Ravel in programma, è stato eseguito come peggio non si sarebbe potuto. Fin dall’introduzione, l’orchestra è stata imprecisa nel tempo e nelle intonazioni ed il pianoforte ha recitato quelle splendide melodie quasi con distrazione, con note tutte dissennatamente staccate. Inoltre strumento solista ed orchestra suonavano senza la minima concordanza, ciascuno per proprio conto. Una constatazione particolarmente spiacevole è stata quella di udire per tutta la serata il pianista accelerare arbitrariamente le ultime note delle scale, specialmente le ascendenti: proprio come solo i principianti fanno. Nonostante lo splendido inizio melodiante del secondo tempo sia stato eseguito dall’orchestra in modo sufficientemente corretto, è bastato poi l’ingresso del pianoforte, opaco, ottuso e fuori tempo per mandare tutto a catafascio. Inoltre il pianista ha sempre confuso l’opacità del suono con l’espressività sentimentale. Il terzo tempo è stato, se possibile, anche peggiore dei precedenti: l’orchestra, flaccida e stonata ha accumulato errori su errori e il solista suonava come un impacciato scolaretto. In tutto quel desolante squallore solo una cosa abbiamo potuto apprezzare: la capacità di Ashkenazy di eseguire i trilli con sciolta precisione.
Le cose non si sono certo sollevate nel Concerto in do maggiore n. 1 di L. van Beethoven: la giovanile, se pur ingenua nobiltà della composizione è stata offesa da un’orchestra desolantemente bandistica e dal pianoforte sgangherato e inespressivo.
Ci siamo anche scandalizzati del fatto che l’Accademia si serva per i suoi concerti di pianoforti così afoni. Una certa indulgenza verso gli esecutori ci sentiamo in dovere di esprimerla, perché sono stati costretti a suonare in una sala dove l’aria afosa e l’intollerabile calura rendevano difficile semplicemente sopravvivere. Di tutto il faticato concerto ripetiamo di aver solo gustato i trilli pianistici che, malgrado tutto, Ashkenazy sapeva ricavare dallo strumento.