36 – Ottobre ‘87

ottobre , 1987

«Il riso fa buon sangue», dice il proverbio. Come ben si sa i detti popolari affermano tutto e anche il contrario di tutto. Noi pensiamo che l’allegria, l’autoironia che induce a non prendersi troppo sul serio, siano buone cose che possono anche far bene alla salute. Esistono però anche risate pestilenziali: sono quelle che sorgono dalla volgarità e dall’ignoranza.
I «teatranti», hanno da sempre usato, per strappare il riso un mezzo che è, spesso, indegno e malvagio, e consiste nell’estorcere le risate con la rappresentazione delle più terribili disavventure che succedono ai più disgraziati personaggi. Charlot fa spesso sorridere, ma il suo umorismo è pericolosissimo perché può diffondere il male in chi non è capace di leggere ciò che di poetico e non solo di comico vi è in quel mondo.
Per non avventurarci troppo in discorsi vasti su teatro e umorismo – non è qui il caso – vogliamo semplicemente dire che lo spettacolo dei Pigeon drop, andato in scena al Teatro Vittoria, al Testaccio, nell’ultimo scorcio di settembre, non solo è stato uno spettacolo bello e divertente, ma anche profondamente sano. C’è sì nelle scene che il gruppo propone un pizzico di sadomasochismo, ma ironizzato e consapevole e questi sei più uno attori, cantanti, suonatori, ballerini e acrobati sono grandemente capaci di coinvolgere gli spettatori con una spensierata allegria sempre di buon gusto.
Lo spettacolo di questa tournée europea consiste in una serie continua di scenette ben ritmate, che rampollano una dall’altra con sensatissimo nonsense. Tutto è musicale: le voci, i gesti, gli ammiccamenti, precisissimi e che danno il senso di una facile spontaneità, come solo un’accurata preparazione consente.
Anche i brani musicali veri e propri, eseguiti con garbo e capacità d’insieme s’inseriscono con ottimo senso del tempo, non come pezzi a sé, ma come parti integranti di un tutto ammirevolmente orchestrato. Sono musiche di tutti i generi: dal rock al music-hall, dalla beguine ai Blue Brothers. Il gruppo non fa ricorso a nessuno stabile contributo femminile e quando l’estemporanea presenza di una donna è richiesta dal copione, viene inserita con garbo e dignità e con grande rispetto, contrariamente a quanto avviene in forme di spettacolo incentrate sul culto della donnastar, dove la femminilità è davvero avvilita e mercificata.

Difficilmente il nome di Karl Valentin viene in mente a chi pensa al «cabaret» tra le due guerre, eppure il suo personaggio fu capace di attrarre l’attenzione di uomini come H. Hesse e B. Brecht. Quest’ultimo anzi raccolse la tradizione dialettale di Valentin in opere come Lux in tenebris e Il cane morto, assimilata negli anni di frequentazione e di lavoro comune nelle birrerie bavaresi. Questa caratterizzazione popolaresca e regionale è forse una spiegazione del fatto che la sua notorietà sia rimasta soprattutto locale.
Patrick Rossi Gastaldi ha adattato, diretto e interpretato Valentinfest, presentato al Teatro dell’Orologio, ambientandolo in una credibile e allo stesso tempo ironizzata ricostruzione della «Ritterspelunke», di Monaco di Baviera, vecchia birreria testimone spesso delle performance di K. Valentin. Ne è risultato un collage ben articolato di scenette e canzoni in cui la stralunata e grottesca comicità bavarese viene ben resa, sia pure con l’aggiunta di un che di «mediterraneo» che proprio non le nuoce. I toni sono i più svariati, predomina un umorismo greve e surreale in cui la battuta non è più importante del gesto e dell’ammiccamento anche triviale.
Patrick Rossi Gastaldi presta la sua persona alla figura dello stesso Valentin: lungo, nero, un po’ lugubre e un po’ scalcagnato, si è dimostrato capace di una grande varietà di timbri e di una espressività stilisticamente corretta. Ci è parsa stupefacente l’apparente facilità con cui ha saputo – per fare un esempio – passare rapidissimamente dalla buffonesca sirena del Reno, improbabile Lorelei ammaliatrice, al commosso e drammatico cantore della leggenda del tamburino.
Ben più che spalle sono stati gli altri: il pianista Luca Tutino, il pompiere Daniele Rerretti, il mago Pino Strabioli, il terzetto femminile di Carmen Motz, conduttrice efficacemente delirante, Barbara Enna e Alessandra Toniutti. Abbiamo già detto quanto abbiamo approvato la scena e i costumi di Claudio Di Tornassi.

Il Misantropo una delle più note opere di Molière, andata in scena per la prima volta al Palais Royal di Parigi nel 1666, narra le vicende di Alceste, gentiluomo della buona società parigina, ossessivamente rigido nei confronti delle debolezze umane, moralista spietato e personaggio decisamente odioso. Il suo è un ennesimo esempio di «tartufo»: infatti l’onestissimo individuo non è che un volgare maleducato, vile nel profondo, che, pur di ottenere l’amore di Celimene, è pronto a non vederne i tradimenti e quasi la supplica di insistere con le truffe e con l’inganno. Come ultimo gesto vigliacco, dopo una serie di disavventure, dovute tanto alla sua velenosa perfidia quanto alla disonestà del mondo, decide di ritirarsi, da solo, in campagna, dove l’amata si rifiuta, giustamente, di seguirlo. L’opera, stupenda, non ha personaggi positivi: non lo sono né l’accomodante Filinto che invita il «misantropo» al compromesso e ad accettare il mondo così com’è, tanto meno l’infingarda e acuta Celimene o il vacuo Oronte e gli altri cortigiani e cortigiane presuntuosi, maldicenti e traditori. Non c’è salvezza per la natura umana, eppure, pur nella sua parzialità, la visione, del mondo di Molière assurge qui a grandezza tragica. Il dialogo è acuto e variopinto e le situazioni sono tragicamente comiche. Non c’è mai un momento di stanchezza nella vivacità inventiva.
Purtroppo la realizzazione che Carlo Cecchi, regista e interprete principale, ha proposto al Teatro Valle non conserva di tutto questo che una pallida e stantia eco.
L’allestimento nel suo insieme ha il sapore di quelle messe in scena che si pensa, a torto, di dover propinare ai ragazzi delle scuole: sentenziose e didascaliche. Gli attori pronunciavano le battute senza sfumature, restando immobili o con pleonastici, inefficaci e convenzionali gesti; inoltre lo stesso Cecchi, assolutamente inespressivo, bofonchiava in modo insopportabile; tanto che, nonostante la genialità del testo, ben reso dalla splendida e ritmata traduzione di Cesare Garboli, è scesa sugli spettatori una noia mortale e più d’uno s’è dolcemente addormentato.
Noi stessi abbiamo faticato molto a non cadere in braccio a Morfeo. Affiancavano l’Alceste di Carlo Cecchi, Elia Schilton (Filinto), Toni Bertorelli (Oronte), Anna Bonaiuto (Celimene), Enrica Origo, Dorotea Ausenda, Francesco Origo, Roberto Accornero, Nathalie Guetta e Italo Spinelli. L’unica scena, rossa solenne, con un grande specchio, era di Sergio Tramonti, i gradevoli costumi di Stefania Benelli Barilli.

Il medico viennese Arthur Schnitzler (1862-1931) non è, secondo noi, un grande autore di teatro: ci sono nei suoi testi troppe parole, anche considerando la tendenza alla verbosità della sua epoca, troppo moralismo, e un’ironia un po’ flaccida. Dimostra però di saper ben tornire le battute ed usa un linguaggio forbito, anche se leggermente rancido.
Poiché oggi vanno di moda l’Austria e la Germania di quell’epoca, Schnitzler viene, comunque, rappresentato all’impazzata.
Ci è parso un miracolo, con queste premesse, godere tanto assistendo al Teatro Argentina alla rappresentazione di questo suo Casanova a Spa. I «tre atti in uno» sono stati divisi in due parti, nella prima delle quali, assente il personaggio di Casanova, veniamo a conoscenza dell’antefatto: la giovane Anina è stata nella notte sedotta da Casanova, entrato per sbaglio nella sua camera, invece che in quella della più matura Flaminia, con la quale aveva un appuntamento galante. Nella seconda, con l’ingresso in scena del protagonista, si svolge la vera e propria azione drammatica: il geloso Andrea, marito involontariamente tradito, si dibatte tra l’amore e la gelosia, mentre le due donne si disputano il diritto sull’amore di Casanova, il quale, invece, se ne andrà con una terza donna, una ballerina. Anche Flaminia ha un marito il quale è però un opportunista che antepone gli affari all’onore.
Per tutto il primo tempo, forse anche per un’esasperante monotonia e staticità del copione, la vicenda ha fatto fatica ad avviarsi anche se già si poteva intravedere una buona impostazione scenica, in cui ogni possibile spunto era sfruttato per destare l’interesse dello spettatore. Nel secondo tempo l’abilità generale si lasciava apprezzare appieno: Mariano Rigillo, andando anche oltre il testo, costruiva un Casanova ironico, dinamico ed accorato.
Letteralmente stupendo il personaggio del marito di Flaminia, il Barone Santis di Vittorio Franceschi, sulla cui interpretazione si potrebbero scrivere pagine: la sua voce chioccia, straordinariamente espressiva, era in perfetta sintonia, in ogni momento, con la sua mimica efficace, ritmata con crescendo e diminuendo calcolatissimi. Federico Pacifici ha reso il personaggio di Andrea con variegate sfumature, pur nell’ingenua semplicità del carattere. Molto brave Antonella Fattori (Anina) e Anna Teresa Rossini (Flaminia): le due perfidissime dame dalla malvagità quasi disumana. La Fattori oscillava con maestria tra il bamboleggiamento e la spietatezza; la Rossini, che all’inizio appariva un po’ sovratono, è diventata poi un personaggio ben dosato, vieppiù convincente, truculento e umoristico. Molto brava anche Simona Caramelli che. della ballerina Teresa, ha disegnato un profilo per nulla settecentesco, piena di cinguettii da soubrette di cafè chantant. Non da meno sono stati Giampiero Becherelli nel ruolo del vecchio Gudar e Mascia Musy nei panni del servitorello Tito. La regia di Luca De Fusco ha amalgamato tutto con precisione. Le scene efficaci e preziose e i costumi ironicamente divertenti erano di Sergio d’Osmo. Riteniamo sia stata corretta la scelta di musiche non settecentesche, che qui sarebbero state fuori stile, ma avremmo preferito il primo Strawinsky o Rimsky Korsakov all’uso di un repertorio brahmsiano che è risultato opaco e confuso.