36 – Ottobre ‘87

ottobre , 1987

Il risvolto di copertina del libro di E. Hemingway, Il Giardino dell’Eden (Mondadori, 1987, pagg.264, Lit. 24.000) afferma che l’autore lavorò al romanzo per ben quindici anni ma, nonostante tanta cura, non lo volle pubblicare per pudore, a causa degli scottanti particolari autobiografici. Noi non abbiamo nessun elemento che ci permetta di contestare questa affermazione dei curatori dell’edizione italiana, ma non ci sembra proprio un libro scritto da Hemingway. Non solo perché è bruttissimo, ma anche perché è scritto in uno stile troppo hemingwayano. Soltanto scrittorelli di romanzi d’appendice ripetono così ostinatamente le stesse situazioni per pagine e pagine al fine di compiacere i lettori della domenica. La sensazione che abbiamo tratto dalla lettura è quella di aver avuto sotto gli occhi il risultato di una elaborazione computerizzata di dati presi dal patrimonio artistico e biografico del grande scrittore americano. Cinque o sei situazioni-tipo si ripetono ossessivamente: la prima è la preparazione di un martini cocktail accompagnato (orrore!) da olive all’aglio (altre assurdità eno-gastronomiche si ripetono per tutto il romanzo). La seconda situazione vede i due o tre protagonisti che fanno il bagno in mare, seguendo sempre un identico rituale di gesti standardizzati e banali.
Nella terza situazione il protagonista scrittore «giace» con le sue due compagne e l’amplesso nasconde ogni volta un piccolo volgare mistero. Quarta mania è quella di descrivere con cura le docce e la ricerca del cambio d’abiti e di biancheria pulita dei protagonisti. Infine è da mettere nel conto la noiosa ripetitività dei dialoghi, sempre costruiti sul meccanismo della botta e risposta, in cui dovrebbe nascondersi una imprevedibile novità che, però, l’interlocutore conosce invece già benissimo. Inoltre i tre protagonisti non hanno alcuno spessore psicologico: David, lo scrittore, è assolutamente imbecille con un poverissimo repertorio di parole e di gesti; la moglie Catherine non è pazza, come si vorrebbe far credere, ma solo una piccola streghetta cattiva; la terza del banale triangolo è una copia conforme dell’altra donna. Si legge con un certo piacere (forse per un errore dell’elaboratore) l’inserto della novella scritta da David e ambientata in Africa, che narra la storia di un bambino e di un elefante con intensa e sobria lucidità.

Il libro di Cesare Musatti Curar nevrotici con la propria autoanalisi (Mondadori, 1987, pagg. 156, Lit. 16.000) non sarebbe degno di attenzione: si tratta m atti di un romanzetto autobiografico, mal scritto, di un tale che cerca di ricondurre alcuni episodi della sua lunga vita entro i parametri della scienza freudiana. Però, siccome l’autore viene chiamato «il padre della psicoanalisi italiana» ci sembra giusto esternare alcune considerazioni che ci sono venute alla mente. La prima sensazione che queste pagine hanno destato in noi è stata di profonda tristezza: vedere il pensiero del grande S. Freud così robusto, possente, articolato e capace di infinita sottigliezza, ridotto a poche formulette schematiche applicate automaticamente sulla realtà, senza poesia e senza acume, come se la psiche dell’uomo, e non solo di Cesare Musatti, fosse una tanto povera e piccola cosa, ci ha procurato un grandissimo scoraggiamento. Uno di noi ricorda che un giorno, al liceo, venne a fare lezione di filosofia un supplente, meschinello ma presuntuoso. Costui guardò sul registro il programma svolto fino a quel giorno dal titolare della cattedra e disse con sussiego: «Bene, oggi vi parlerò di Platone». E ridusse, nella sua arida esposizione, uno dei più grandi pensatori della nostra cultura al livello di un babbeo capace solo di raccontare favolette. Il brutto fu che molti tra gli allievi se la presero con Platone. Lo stesso potrebbe accadere allo sprovveduto che si trovasse a leggere questo libro che, in fondo, non è altro che uno dei tanti della serie «tutto ciò che vorreste sapere sulla…». Ci sembra, ancora, che Musatti abbia un atteggiamento poco rispettoso per quello che è il vero padre della psicoanalisi: per esempio, all’inizio del libro, c’è una esile parodia del racconto freudiano sulla dimenticanza del nome di Luca Signorelli. Quanto è più articolato, ambiguo e polidirezionale il percorso mentale di Freud nel suo tentativo di ricordare quel nome e quanto è invece misero l’aneddoto musattiano! Freud nelle sue pagine è veramente capace di uno stile autobiografico, privo di falsi e perbenistici pudori che invece infarciscono i capitoli di questo volume. Per di più Musatti propone il suo racconto come se fosse stato non tanto Freud quanto egli stesso a chiarire a fondo il meccanismo dei lapsus e delle associazioni. Anche quando interpreta qualche sogno lo fa poveramente, senza fantasia né poesia. Un esempio per tutti è il sogno del fratello morto «(…) che si avanza verso di me brandendo un coltello nascosto dietro la schiena. Viene per pugnalarmi, ed io mi rifugio spaventato accanto a mia madre, anch’essa da molti anni defunta.» La spiegazione di Musatti e del suo senso di colpa verso il fratello è solo questa: «Ed io, Caino colpevole (…) mi rifugio, come quando ero bambino tra le sottane e dietro la figura di mia madre in cerca di protezione e salvezza».
Questo sogno, ricco, esplosivo, pieno di risonanze è ridotto alla gelosia, al timore di vendetta e al desiderio di rifugiarsi dietro le sottane materne. Non abbiamo il diritto di avventurarci noi in più ardite interpretazioni ma… formuletta per formuletta… cosa dice Freud del simbolo onirico del coltello?
L’unico interesse questo libro ce l’ha per chi prova curiosità per i piccoli e piccanti aneddoti di ieri con i quali ben figurare negli oziosi salotti.