Archivio di luglio 1985

Psicoanalisi contro n. 15 – I girasoli

lunedì, 1 luglio 1985

Ormai non si può più dire che la psicoanalisi sia alla moda: è una acquisizione della cultura del nostro secolo, ha un suo posto ben preciso e saldo nella storia e nella scienza. Non si può neppure più dire che esista una psicoanalisi o la psicoanalisi; le correnti psicodinamiche sono molte, si fondano su teorie spesso diverse tra di loro e hanno metodi di intervento terapeutico per nulla uniformi. Il comun denominatore di tutte le psicoanalisi consiste nel riconoscimento dell’inconscio e nel tentativo di descriverlo. Dire che l’inconscio si possa descrivere sembrerebbe una contraddizione, ma il secondo postulato della psicoanalisi è proprio quello della descrivibilità dell’inconscio. Ogni descrizione dell’inconscio è, sempre, anche un po’ una invenzione: così capita all’oggetto di qualunque scienza. Il complesso degli astri o la intrinseca struttura della materia sono frutto di una descrizione che anche li inventa. Proprio per questo, la scienza non è immobile: la verità non è mai stata detta una volta per tutte, ciò che era vero ieri oggi non lo è più, e domani altri diranno altro. La ricerca umana non si può arrestare, nonostante i sistemi, i dogmi, i roghi e le inquisizioni.

L’inconscio, però, trascende, sempre, ogni sua descrizione: affonda nel mistero, come nel mistero affonda il significato della vita. Coloro, che con ansia rabbiosa, sostengono che non esiste l’inconscio, ne dimostrano l’esistenza proprio con la loro ansia e con la loro rabbia. Per qualche ragione inconscia, essi hanno paura dell’inconscio, e, di conseguenza, hanno paura della psicoanalisi, di qualunque psicoanalisi, perché hanno paura di ciò che nell’inconscio si nasconde. Per lo più sono i desideri che spaventano; sembra strano, ma è così. Sono molti, anzi troppi, i desideri che mettono ansia, ma nonostante ciò essi urgono, spingono per manifestarsi, per realizzarsi. Ogni volta che incontro qualcuno, che con pochi o con tanti strumenti culturali, aggredisce la psicoanalisi, io mi domando sempre da che cosa si difenda e quali siano i desideri che vorrebbe allontanare da sé.

2
Le accuse che si fanno alla psicoanalisi sono state e sono molte; una delle più diffuse è che la psicoanalisi non sia una scienza perché non si basa su ricerche di laboratorio e su esperimenti. Questa asserzione dipende da una concezione della scienza quanto mai antiquata e settoriale: allora bisognerebbe espungere dal complesso delle scienze anche l’antropologia e la matematica pura, che non usano laboratori di ricerca scientifica tradizionali e i cui esperimenti sono quanto mai anomali. La scienza è soprattutto, e forse esclusivamente, ricerca. La ricerca deve inventare continuamente nuove metodologie, che servano ad affondare sempre più lo sguardo nel mistero. Gli oggetti su cui ogni scienza indaga acquistano però caratteristiche conseguenti al tipo di metodologia usata. Lo scetticismo anti﷓dogmatico è quanto mai utile ad uno scienziato: gli permette di non chiudersi e di non ripetere sempre formule che diventano sterili giaculatorie. Solo coloro che hanno il coraggio di andare ancora avanti, costruiscono nuove verità, perché scoprono nuovi terreni inesplorati.

3
Altri, pur non rifiutando gli assunti teorici della psicoanalisi, se ne difendono attribuendole uno strano potere fascinatorio, che sarebbe particolarmente pericoloso nel rapporto terapeutico. Costoro dicono che la psicoanalisi passivizza, e affermano, nella loro ingenua saggezza, che i problemi uno se li deve risolvere da solo, con la sua forza di volontà e che non bisogna delegare un altro.
Lo psicoanalista è percepito come un individuo minaccioso e la sua tecnica è considerata pericolosa quanto una potente droga. A sostenere questa teoria, per lo più, sono persone estremamente dipendenti: dalla moglie, dal marito, dalla madre, dagli amici, dai superiori, dai figli, quindi è comprensibile che abbiano paura della loro stessa facilità a diventare dipendenti. Questa loro paura esprime anche il timore che qualche cosa possa renderli indipendenti, perché la psicoanalisi è soprattutto un mezzo per acquistare un po’ di autonomia. Certamente la indipendenza assoluta non ci sarà mai: nessun uomo è libero dai sottili intrighi che la vita gli tesse. L’essere umano si forma lentamente nel ventre della madre e, fin d’allora, emozioni e suggestioni, più o meno filtrate, entrano in lui e lo costruiscono. Il bambino riceve, dagli adulti, stimoli e suggerimenti che lo coinvolgono; ma egli è alla ricerca di una sua individualità. Il neonato non è più dipendente dagli altri di un adulto, semplicemente, la sua dipendenza ha caratteristiche peculiari. Gli altri ci influenzano continuamente, se così non fosse, non solo sarebbe triste vivere, ma sarebbe anche impossibile. L’unica indipendenza che l’essere umano può sperare di raggiungere è quella della comprensione. Prendere coscienza significa capire un po’ le motivazioni dei nostri comportamenti. Se poi i meccanismi di condizionamento ci tolgano del tutto il libero arbitrio non sarà mai possibile scoprirlo.

Qui, sul foglio di carta, non si capisce; ma, dopo l’ultima frase che ho scritto, mi sono alzato e sono andato a bere: ho aperto il frigorifero e ho riempito il bicchiere di acqua leggermente frizzante, ho bevuto, lentamente, assaporando il piacere di quelle fresche bollicine che mi titillavano il cavo orale e poi la gola. Adesso sono di nuovo qui, nel mio studio che scrivo: avrei potuto non alzarmi e non andare a bere? Per esserne certo, uno sperimentatore dovrebbe farmi tornare indietro nel tempo e ripormi nell’istante in cui ho scritto: «Se poi i meccanismi di condizionamento ci tolgono del tutto il libero arbitrio non sarà mai possibile scoprirlo». E verificare così se avrei potuto resistere al leggero impulso della sete. Credo che questo sia un esperimento molto difficile a realizzarsi. Ma, allora, io credo negli esperimenti? Certo, io sono uno scienziato. E come tutti gli scienziati sono anche un po’ sciocco e frivolo.

4
Un po’ di tempo fa, venne alla moda, tra coloro che ideologicamente si ritengono appartenenti a quello strano magma umano che si chiama sinistra, una affermazione quanto mai balorda, che diventò subito uno slogan: «La psicoanalisi è una scienza borghese». Questa frase riflette la più ottusa imbecillità difensiva. È umano avere paura dei propri desideri ed anche delle novità, ma è eccessivo diventare così sciocchi. Il rifiuto non si riferiva infatti alla psicoanalisi come teoria freudiana, ma alla psicologia dinamica, nel suo insieme. Bisogna riconoscere che nel pensiero del grande viennese esiste una visione del mondo, una concezione dell’uomo, una teoria della scienza e quindi anche una visione dell’intervento terapeutico che dipendono dalla sua cultura ed anche dalla classe sociale cui apparteneva. Ma Freud ha detto cose meravigliose che possono essere usate contro gli stessi fondamenti della società che egli rappresentava e che pensava di sostenere. Inoltre, far coincidere la «psicoanalisi» con il pensiero freudiano, dimostra una povertà spirituale e culturale sconsolante. Non si può e non si deve ridurre l’indagine sulle dinamiche psichiche a quelle teorizzazioni. La ricerca è proseguita, si è evoluta e si è sviluppata.

Nei confronti del disagio mentale, secondo me, hanno senso solo due atteggiamenti: il primo, che io considero politicamente e moralmente empio, cui però riconosco una certa coerenza interna, è quello di chi si astiene da ogni intervento terapeutico, dicendo: «Io mi rifiuto di curare perché non voglio manipolare gli altri. Non voglio intervenire sulle angosce, sul malessere e sulle scelte di un altro». Allora, chi assume questo atteggiamento, dovrebbe, però, essere coerente e non solo non dovrebbe curare il disagio psichico ma neppure quello cosiddetto organico: dovrebbe non curare mai. Questa distinzione fra psiche e soma ha per me troppo il sapore di una vecchia metafisica che distingue l’uomo in anima e corpo. A costoro dico che si deve intervenire, che si deve curare, perché curare vuol dire: prendersi cura, lottare con, lottare per. L’altro atteggiamento, è quello di chi si assume la responsabilità di curare, ma rispettando il più possibile la dignità e l’autonomia di colui che viene curato. La terapia è sempre violenza, è inutile pensare di essere un terapeuta non violento. Ci sono però modi diversi di manipolare l’altro, psichicamente o fisicamente: lo si può aggredire con scariche elettriche, con dosi massicce di farmaci, o con interventi più o meno approssimativi, senza mai spiegargli nulla, senza mai discutere con lui. Oppure si può affrontare la cura, decidendo insieme. Indubbiamente il terapeuta avrà in mano strumenti che il paziente non conosce, ma che può imparare a conoscere e può imparare a gestire. Il paziente deve essere ascoltato, anche nelle sue supposizioni assurde e bizzarre. Guai se la cura viene calata dall’alto come una violenza incomprensibile. La lotta contro la sofferenza deve essere fatta in due. Questo è proprio l’atteggiamento della cosiddetta psicoanalisi: la terapia consiste nel far prendere coscienza, nell’aiutare l’altro a liberarsi dalla propria paura di capire il perché del disagio, permettendogli di imparare a gestirlo ed anche a sconfiggerlo. Questo, secondo me, è l’unico tipo di cura civile. Allora, coloro che rifiutano l’atteggiamento psicoanalitico, ma non ritengono giusto non intervenire cosa scelgono? Ognuno tragga le proprie conclusioni.

5
L’ultimo atteggiamento difensivo nei confronti della psicoanalisi, di cui voglio parlare, è quello che spesso vedo mettere in atto da un gruppo di persone, non molto numeroso, ma che ha un grosso significato nella nostra cultura: il gruppo degli artisti. Io non so bene cosa sia l’arte, quindi non so bene chi siano gli artisti, però esistono persone che si qualificano come tali; io, ad esempio, ritengo di essere un artista, lo sono ed ho le carte in regola: tanto è vero che sono iscritto alla Società Italiana Autori Editori, perché compongo musica e scrivo per il teatro. Più sopra, ho detto che sono uno scienziato, forse dovrei decidere cosa voglio essere. Ma perché, se scrivo un quartetto d’archi, lo debbo fare sentendomi un dilettante, oppure debbo sentirmi uno scienziato poco serio, se voglio considerarmi un vero artista? Io sono io e so fare quello che so fare: se lo faccio bene meglio per me. Molte persone che si dicono artisti, affermano che la psicoanalisi è pericolosa perché rende sterili; può risanare da una sofferenza psichica, ma manda perduta poi la ricchezza della creatività. Lucrezio, Tasso, Schumann, Van Gogh erano matti, chi sa cosa avrebbero scritto o prodotto, se fossero stati curati da uno psicoanalista che li avesse resi tranquilli e pacati signori con moglie e figli e un posto sicuro. Anch’io ho avuto paura che la psicoanalisi distruggesse la mia creatività; ma, poi, addentrandomi nei meandri del mio inconscio e dell’inconscio altrui mi accorsi di quanto ero stato ridicolo in questa mia paura. Io non credo che l’arte coincida con la follia, io non penso che l’arte coincida con qualche cosa. L’arte è l’arte e basta, coincide con se stessa, è la voglia dell’uomo di comunicare fantasie, sogni, emozioni; di raccontare agli altri la propria storia anche per aiutarli. Aiutarli a che cosa? A capire. Allora l’arte coincide con la psicoanalisi?

L’arte non coincide con la psicoanalisi, e di ciò sono profondamente convinto. Io so che la psicoanalisi ha alcuni aspetti che la avvicinano all’arte, perché so che l’arte scaturisce dall’inconscio degli uomini, del singolo e della collettività. Indubbiamente ci sono teorie psicoanalitiche che impoveriscono l’uomo e tecniche terapeutiche che castrano e che sono pericolose non solo per l’artista, ma per l’essere umano in generale. Se la psicoanalisi però, oltre che essere un approccio all’inconscio, serve a rendere l’uomo più sano, essa è profondamente utile all’artista e all’arte. Gli artisti non solo possono essere sani, ma debbono cercare di esserlo. È per un gesto sano che Lucrezio ha scritto il De rerum natura, Tasso ha scritto la Gerusalemme liberata, Schumann la sinfonia Renana, e Van Gogh ha fatto nascere i girasoli. La loro salute consisteva nella capacità di capirsi e di comunicare; il loro disagio e la loro sofferenza debbono essere rispettati, come si deve rispettare ogni sofferenza. Ma, se uno psicoanalista li avesse curati, avrebbero fatto quello che hanno fatto, prodotto quello che hanno prodotto? Con i se non si fa la storia, neppure la storia dell’arte.

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

Mostri in piazza (Killing Square)
Mostri in piazza, Killing Square, si intitola la rassegna di film dell’orrore, che, con Anteprime e l’Omaggio a Bruce Beresford, costituisce la parte del Festivai dei Due Mondi dedicata al cinema, a cura di Mario Natale, coadiuvato da Fulvio Toffoli e Fabrizio Natale.

Noi non abbiamo mai nutrito un’esaltata passione di cinéfili; ma siamo rimasi ugualmente indignati per come viene trattata la decima musa al Festival. Mentre le altre rassegne o mostre iniziano con prime e vernici sussiegose e impettite, affol late di mondani e mondane di bell’aspetto, nessuno è invece intervenuto alla proiezione di Dracula il vampiro. La sera della prima, alle 23.30 di mercoledì 26, in sala regnava una atmosfera di completo abbandono e la positiva formula adottata dell’ingresso libero è servita soltanto a permettere che entrassero frotte di ragazzini sfaccendati che, ululando, hanno più o meno cercato di seguire un film che, pure, alla fine, li ha interessati. Inutilmente qualche intellettuale, rannicchiato nell’ombra, sibilava: Ssst! Ssst!. Il film di Terence Fisher (tratto dal romanzo di Bram Stoker, musiche di James Bernard, scenografia di Bernard Robinson, fotografia di Jack Asher, montaggio di James Needs, con Peter Cushing, Cristopher Lee, Michael Cough, Melissa Stribling, Carol Marsh) è troppo famoso per raccontarlo. Visto a tanti anni di distanza dall’esordio fa sorridere e anche ridere per la paccottiglia simbolista ma ha un suo rigore logico e un ritmo ben scandito dalla musica, dai grandi impasti orchestrali dissonanti, e tiene fino alla scena finale, capolavoro del genere, con il vampiro che si incenerisce ai raggi del sole che si allargano sul pavimento di marmo, su cui spicca il cerchio coi segni dello zodiaco.

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

Ballet Moisseiev
E’ veramente piacevole vedere un numero tanto grande di persone realizzare in perfetto accordo tra loro uno spettacolo d’eccezione, che diventa anche una festa entusiasmante per il pubblico. È impossibile infatti non farsi coinvolgere, non seguire ogni fase con un’attenzione così intensa da non accorgersi più del tempo che passa, presi di ammirazione per tutti. Quando diciamo «tutti» non intendiamo riferirci soltanto ai danzatori, ma anche a scenografi, costumisti e soprattutto ai musicisti dell’orchestra, diretti dall’ottimo Anatolj Gus, tutti quanti ben amalgamati dalla eccezionale personalità di Igor Moisseiev.

È bello vedere questo uomo di ottant’anni, vitalissimo, circondato da quei bei giovanotti e da quelle belle ragazze, arrivare alle prove, lavorare con loro; una figura ben diversa da quella del coreografo lontano e altezzoso.
In questo spettacolo tutto è danza e tutto è musica.

Danza l’orchestra, con esplosioni di brio irresistibile e momenti di struggente e insinuante malinconia. Suonano i danzatori, muovendosi con ritmica perfetta, trasformando i corpi in strumenti sonori, coi piedi che colpiscono con la precisione delle bacchette del tamburo il suolo e ora piombano insieme sul tempo forte, poi battono in controtempo, producendo ritmi arpeggianti che si spostano da una parte all’altra della scena, in vero contrappunto con le note degli strumenti; non un rumore che non sia sotto controllo.
C’è un consiglio che daremmo agli spettatori: di provare a tenere gli occhi chiusi per cinque minuti, per apprezzare in pieno il pulsare ritmico di questo insieme. Anche i gesti, ovviamente, si aggiungono e si integrano in questa armonia complessiva.

Abbiamo usato il termine armonia perché non si tratta soltanto di sincronismo esteriore di un meccanismo perfetto; ma di una creazione in cui la poesia è sempre presente, talvolta commossa, talaltra più sbarazzina o ironica.
Lo spettacolo che abbiamo visto si divideva in due parti; la prima aveva per titolo Omaggio a Spoleto; articolata in otto quadri, rappresentava argomenti di vita popolare – eccetto l’eroica famosissima coreografia dei Partigiani -. Anche i temi musicali appartengono alla tradizione popolare russa, variamente arrangiati ed eseguiti con orchestrazione efficace, grande accuratezza timbrica e bell’impasto di fiati, archi, percussioni e bajani (specie di fisarmoniche russe). L’occhio, insieme con l’orecchio, restava appagato sempre, sia nei grandi movimenti collettivi o di piccoli gruppi, sia negli a solo virtuosistici. I caratteri erano ben delineati; le atmosfere erano per lo più bucoliche o sentimentali con connotazioni umoristiche; ma c’erano anche episodi di grande intensità lirica o drammatica e la totale assenza di scene non impediva che le luci e i colori collocassero ogni vicenda in quadri precisi, che la mimica espressiva riusciva ad esprimere nei dettagli.
La seconda parte era costituita dalla coreografia Una notte sul Montecalvo, bizzarro e complesso racconto di vita tzigana, con sabba; su musiche di Mussorgski (dai Quadri di un esposizione e da Una notte sul Montecalvo ) e temi popolari ucraini. La musica mussorgskiana era ripresa nella trascrizione fatta da Rimsky-Korsakov, appena leggermente modificata dal Maestro Gus per adattarla all’organico orchestrale ridotto.

L’ubriacone Patsiuk, catturato da due diavoli, assiste, tramortito, al sabba di streghe e demòni, e l’incubo finisce solo quando passa la sbornia. L’intento è evidentemente comico e caricaturale; i nudi sono ingenue calzemaglie e i movimenti hanno la scoperta sensualità di una fantasia infantile; forche, chiome biondissime o brune sempre lunghe, scope, code, Satana dalle grandi corna: sono gli ingredienti esteriori su cui si articola una danza ricca di spunti e di citazioni, popolari certo, ma anche boogie, rock e breaking, gustosamente ironizzati.
La musica era in accordo con la vicenda narrata, ironica, grottesca, efficace, manovrata con grande sapienza e con grande rispetto.

Rispetto per la musica è quello che sembra essere mancato ai curatori del cartellone che non citano né l’orchestra, né il suo direttore, né le fonti musicali. La musica è componente essenziale della danza e ciò dovrebbero sapere anche quei ballettologi che fanno critica su giornali e riviste, dicendo sciocchezze da sdegnare Tersicore ed Apollo.

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

Sabatini
Siamo ritornati più volte al ristorante Sabatini in corso Mazzini 52/54, per due ragioni: la prima è legata alla piacevolezza del luogo e alla cortesia e accuratezza del servizio, in un’atmosfera che mette il cliente a proprio agio; la seconda ragione è che vogliamo superare le perplessità destate dal tipo di cucina. Abbiamo studiato a lungo molti piatti e ci pare di poter dire che c’è una buona capacità di fondo, che rende veramente riuscite alcune preparazioni; ma che è disturbata dalle pressioni di una clientela che nuoce al lavoro dello chef, il quale diviene così vittima del mondo e delle sue insidie. Ci riferiamo agli pseudo intenditori di cucina, gentaccia che sproloquia su cibi e vini, brandendo spesso sul piatto la sigaretta accesa; noi che al ristorante non solo gustiamo e annusiamo quello che abbiamo nel piatto e nel bicchiere, ma allunghiamo anche le orecchie, sentiamo gli argomentari di questa gente finta bene che parla di creatività e originalità in cucina, squittisce per ogni accostamento inconsueto ed elogia ogni sugo che sia tenuto su con la panna. Costoro danneggiano anche quei cuochi seri e preparati, che per amor di successo, finiscono per smorzare ogni sapore vivace con quei colluttori che sono le salsine colorate e inquinate dalla panna. Qui il cuoco ha a sua disposizione materie prime ottime e sapide, erbe aromatiche deliziose: noi abbiamo gustato piatti che deliziose: noi abbiamo gustato piatti anche stupendi: strengozze agli asparagi saporitissime, ancora strengozze all’aglio, olio e peperoncino, con una per noi inedita aggiunta di cipollina, spaghetti al serpillo; cui hanno fatto però da triste contraltare maccheroncini fumé, fettuccine alla zingara, etc. decisamente scontati e pannosi.
Anche nei secondi c’è il rischio di imbattersi in molte preparazioni azzardate e dall’esito infelice, come l’arista all’arancia, in cui la carne troppo cotta è sommersa da fette d’agrume, che rendono il piatto dolciastro o l’arrosto alle noci, dallo spento sapore.
In questo ristorante abbiamo sempre bevuto benissimo: oltre a una buona scelta di etichette ed annate, la cantina dispone di un bianco e un rosso della casa eccellenti e serviti come si deve. Un merito, ancora, non va taciuto: in questo posto il conto è molto ragionevole e la cosa non può che essere apprezzata.

Hostaria Hamburger Time
In posizione strategica al centro di Spoleto, si impone l’insegna della Hostaria Hamburger Time di via Filetteria 43/45, che tenendo il piede in due scarpe fa l’occhiolino ai clienti d’oltreoceano e indulge all’imperante moda dei burger. Non è perciò eccessivo che un ingenuo avventore si sieda a quei tavoli con la speranza di trovarvi almeno delle buone polpette di carne. La sala è di una civetteria un po’ infantile: centrini di carta crespata e multicolore e fiorellini finti, i tovaglioli disposti a ventaglio nei bicchieri e a conetto sul piatto, sul fondo crepita il fuoco e brontola un arcigno gestore poco riguardoso, in sala serve un garbato e timido giovinetto dall’aria simpatica. In lista ci sono hamburger di vario tipo e alcuni piatti ispirati alla tradizione locale.
Noi abbiamo voluto percorrere la strada della carne macinata: alla messicana, alla Torretta, Cottage, German, e al pepe bianco. Dopo lunga attesa non resa più sopportabile da assaggi di bruschette fredde e bruciacchiate, abbiamo potuto affrontare polpette di carne, surgelate, variamente condite, ma tutte ugualmente disgustose. Il vino bianco era un gradevole Trebbiano della Cantina sociale dei colli spoletini, mentre la prima bottiglia di Sagrantino di Montefalco sapeva irrimediabilmente di tappo e la seconda, del 1981, era un denso e imbevibile brodo nero, che certo aveva troppo patito per il cattivo criterio di conservazione. Il conto, abbastanza alto, può, come recita un avviso sulla carta, anche essere maggiorato del dieci per cento dopo la mezzanotte. Ci sembra questo un gesto di rara villania, diretto soprattutto contro coloro che essendo qui per il festival sono impegnati, come spettatori o come lavoratori, tutti fino a tarda ora con gli spettacoli!

Bar Tebro
In via Minervio 1, all’angolo con via Filetteria sulla quale affaccia l’ampio déhors, si trova il Bar Pasticceria Tebro dove ci càpita facilmente di far sosta negli
andirivieni tra mostre e spettacoli. L’accoglienza è garbata anche in questi giorni
di affollamento ed è possibile, oltre che bere, fare spuntini dolci o salati. Quello che apprezziamo di più sono però i gelati di fabbricazione artigianale, dai molti gusti; noi preferiamo quelli alla frutta, saporiti e non acquosi, e la cosiddetta «zuppa inglese», insolita e molto buona. Inoltre c’è un giovane al bancone che prepara con garbo alcuni cocktail eseguiti con un pizzico di personale interpretazione. Un neo che a malincuore abbiamo notato è l’angustia e la trascuratezza dei gabinetti.

Motel Agip
Se avete un grave peccato da espiare, o, più semplicemente, se siete colti da un attacco di masochismo improvviso, andate, a pranzo o a cena, al ristorante del Motel Agip al Km. 127 della via Flaminia: uscirete soddisfatti, perché avrete mangiato e bevuto in modo disgustoso, serviti con scortesia che rasenta la volgarità. Noi siamo stati aggrediti da un brunetto ricciuto che, con insofferenza, ha accettato le ordinazioni e dopo è iniziata la vera e propria tortura. Le penne alla spoletina, stucchevole e pesante amalgama di pasta e salsiccia, facevano degna compagnia a certi spaghetti conditi con un pesto paurosamente simile a quello dei cattivi condimenti in barattolo; i maccheroncini alla capricciosa avevano espresso tutti i loro capricci rendendo troppo piccante un sugo senza altro sapore. Un roastbeef all’inglese, acquoso e insipido, le gommose braciolette di maiale e le braciolette di castrato, spinose e rinsecchite non riuscivano ad eguagliare le vette aberranti raggiunte dal pollo alla brace: qualunque cuoco, anche non professionista, avrebbe buttato quel cumulo di carbone cosparso di sale che invece è stato portato in tavola, e vi assicuriamo che ciò è detto senza esagerazione alcuna! Bruciaticci e insapori anche i crème caramel. Un rosato di Assisi ci è stato servito troppo freddo, ma era l’unico modo di rendere accettabile una bevanda disarmonica e incongruamente agrodolce. L’ambiente poi è una specie di capannone industriale, dalle luci e dai colori fastidiosi, con le sonorità e gli odori di una mensa aziendale.
Per tanto soffrire si paga anche un prezzo abbastanza elevato.

La Pecchiarda
I colpi e le voci che provengono dal campo di bocce, mescolati allo scalpiccio sulla ghiaia e alle chiacchiere degli avventori seduti ai tavoli, sono la cornice sonora di un gradevole luogo di ristoro in vicolo S. Giovanni 1, sotto, quasi, la Torre dell’Olio: la Trattoria la Pecchiarda. Si dice che sia una fra le più antiche osterie di Spoleto e mantiene tuttora un tono piacevolmente schietto.
Qui, finalmente, i farfalloni hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, perché il dovere di cronisti si è unito al piacere di bere e mangiare bene. L’inizio è tradizionale, ma il prosciutto è molto buono e le bruschette sono gustose e croccanti e quella alla cacciagione saporitissima. Una piacevole scoperta i due grandi gnocchi alla ricotta; la pasta leggera avvolgeva un fresco formaggio e il sugo al pomodoro era profumato; gli agnolotti al burro e formaggio con un gustoso sapore di cipolla avevano una buona grinta; purtroppo anche qui si fanno madornali scivoloni sulla panna quando compaiono certi piatti di penne alla norcina o alla cardinale! Buoni e appetitosi, nella loro semplicità, i secondi piatti: coniglio alla cacciatora, faraona, rollatina di manzo, accompagnati da pomodori alla griglia al giusto profumo di aglio e di buon olio. Gradevole persino la zuppa inglese, di estrema semplicità e ingenuità.
Inaspettatamente buoni i vini della casa: un Trebbiano fresco e semplice, e un ottimo Sangiovese dal bel colore rosso rubino, con lieve profumo erbaceo e dal fondo giustamente amaro, e ancora un rosso di Montefalco dal buon carattere, con una punta di abboccato, appena percepibile. Il conto, ragionevole, ci rafforza nella opinione favorevole.

Il Panciolle
Piazza Muzio Clementi è una vera delizia: il ristorante Il Panciolle invita coi suoi tavoli apparecchiati; ma se vi lasciate attirare e vi sedete con il desiderio di una sosta ristoratrice, mal ve ne incoglierà. Sarete infatti subito travolti dal vortice di un servizio infernale, i piatti vi verranno letteralmente sbattuti in faccia e ciò che mangerete e berrete sarà indecente. Prima un’acquosa bruschetta all’aglio, poi strangozzi al fungo e tartufi o tartufi alla pasta, pasta mal scolata, condita col solito intruglio nauseabondo che si dice contenga tartufo – e non stiamo nemmeno a disquisire sul fatto che i tartufi di giugno siano solo scorzoni, perché proprio qui non c’è tuber melanosporum o tuber aestivum che tenga -. Lo spiedino è un misto di pezzi di carne e salsiccia plastificati, la bismarck un uovo al tegamino senza sale sovrapposto a una braciola di cuoio, i saltimbocca alla romana hanno un gusto stantìo, la milanese è una fettina di carne impanata dalla spessa crosta unta e la scaloppine ai tartufi ripropongono il solito sugo che era sulla pasta. I vini della casa che ci càpita di bere sono in bianco servito gelido (in una bottiglia incrostata di ghiaccio) e un rosato anonimo nel bottiglione da due litri, tenuto sul tavolo e che ha raggiunto la temperatura buona per un barolo. Siamo scappati a gambe levate, dopo aver pagato un conto, bisogna dire, assai contenuto.

Bar Collicola
Questo bar non ha nome, ma è facilmente riconoscibile perché i tavolini si estendono sulla bella balconata che aggetta sulla piazza. L’atmosfera che vi si respira è una delle più simpatiche di Spoleto: il locale è affollato di giovani musicisti, coristi e strumentisti, americani, che dividono il loro tempo tra Bach e il flipper. La conduzione è famigliare: marito e moglie si alternano o si trovano insieme dietro il bancone. Lui è simpatico e protettivo e scherza in inglese con questi ragazzi che spesso chiamano al telefono la mamma oltreoceano da una delle due cabine. Pur conoscendolo da anni, solo da poco lo abbiamo scoperto come barman di apprezzabile professionalità, che serve ottimi Claridge, Martini-cocktail, Bacardi, Witch e Alaska ad un più che onesto prezzo.
Peccato, e non sappiamo perché, il Negroni è preparato in modo scorretto!

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

La fanciulla del West
L’opera che ha aperto, al Teatro Nuovo, per la ventottesima volta, il Festival dei Due Mondi è stata La Fanciulla del West. Tra le opere famosissime di Giacomo Puccini, questa non è quella che ha goduto il maggior favore del pubblico e della critica passata e presente. Dopo la trionfale serata dell’esordio al Metropolitan di New York, il 10 dicembre del 1910, sono incominciate quasi immediatamente le perplessità che ancora permangono.
Ciò che a tutti apparve evidente fin da subito è la poca maestria che si ritrova nella stesura del libretto, che, pur volendo essere astuto, risulta invece assai ingenuo, perché lascia allo scoperto tutti i trucchetti tecnici e di contenuto cui fa ricorso per apparire convincente: Zingarini prima e Civinini poi, manipolarono molto l’originario drammone di David Belasco. L’azione prende le mosse nel «saloon» La Polka, locale di evasione per uomini soli, in un campo di cercatori d’oro, sulle montagne della California, diretto dalla bella Minnie, la quale, oltre a procurare whisky e divertimento a quei poveretti, costretti a vivere lontano da casa, li edifica con la lettura di passi della Bibbia e custodisce in un barile i loro risparmi. I rudi uomini sono ovviamente tutti innamorati di lei, e più di tutti lo è lo sceriffo Jack Rance. Improvvisamente giunge uno straniero, che dice di chiamarsi Dick Johnson, ma in realtà è il bandito Ramerrez, lì giunto col proposito di rapinare i cercatori, del prezioso barile.
La bella e il bandito si amano a prima vista, suscitando la gelosia dello sceriffo. La vicenda si sposta poi nella capanna di Minnie, dove un colloquio tra i due innamorati è interrotto dagli uomini che cercano Ramerrez. Non trovano l’uomo che si è precipitosamente nascosto dietro un paravento. Lo sceriffo, che è entrato con loro, convince la ragazza che il bandito non l’ama, ma che vuole servirsi di lei. Minnie allora scaccia Ramerrez che, però, ferito, torna poco dopo a bussare alla sua porta. Lei, commossa, lo riaccoglie e lo nasconde in soffitta. Torna anche Rance, sulle tracce del bandito e alcune gocce di sangue che filtrano dall’alto gliene rivelano la presenza. Disperata, Minnie, propone allo sceriffo una partita a carte la cui posta saranno i suoi favori contro la libertà per il bandito, la ragazza bara e vince; ma Johnson-Ramerrez viene ugualmente catturato dagli altri del campo. Mentre stanno per impiccarlo, sopraggiunge Minnie, che perora la sua causa e ottiene dai cercatori, commossi, di potersene andare con lui.
Gli ingredienti del libretto sono però tantissimi: molti di più di quanti non appaiano da questa sintesi della trama. Il protagonista unico di quest’opera è, in realtà, l’orchestra, che prevale su tutto, mentre il canto, anche nei momenti più felici, è pleonastico e talvolta dà addirittura fastidio. Ciò non solo perché i versi sono stucchevoli, Minnie un personaggio ridicolo e anche gli altri personaggi sono convenzionali; ma proprio perché la concezione musicale di questa opera fa della vocalità un orpello inutile; il canto è solo un melodiare spezzato ed eccessivamente ripetitivo, che desta anche irritazione. L’orchestra dice tutto quello che c’è da dire: gli impasti sonori sono variati in continuazione, non soltanto per l’uso di strumenti insoliti come la macchina del vento, il vibrafono e il fischietto – che pur sono usati in modo magistrale -, ma proprio per il tessuto armonico che incastona melodie, ora lunghe, ora brevi, che ritornano a proporre, con la loro presenza, le splendide battute di un lungo monologo. Le tonalità si susseguono caleidoscopicamente: si odono qua e là leggere dissonanze, appena accennate, poi suggestioni non diatoniche, ritmi di danza popolareschi che acquistano la preziosità degli antichi balli nelle «suites» barocche.
È giusto che Puccini abbia voluto una grande compagine orchestrale, per poter giocare indefinitamente con timbri e coloriture che si susseguono e si dipanano ininterrotti. Che importanza ha quello che si canta sulla scena? La stupidissima partita a carte, per esempio, è pienamente ed esaurientemente raccontata dall’ossessivo pulsare dei timpani, che ricorda il battito di un cuore. Vi sono melodie cantate ora tratte dal folclore americano, ora inventate, che acquistano un reale significato solo quando sono ripetute dall’orchestra. La ricerca, dal punto di vista del linguaggio musicale, non è – come spesso si è detto – particolarmente ardita; ma è piuttosto come se Puccini ripensasse a se stesso, giocando con la fantasia e con i propri ricordi. Si dice anche che il musicista abbia voluto descrivere soprattutto atmosfere; ma queste si realizzano non tanto nella scena farraginosa quanto nello splendore orchestrale.
Indubbiamente si sentono suggestioni di Debussy e Strauss; ma anche di Wagner: il momento dell’arrivo in scena di Minnie al terzo atto è fin troppo wagneriano! Per noi, questa è la grande opera strumentale di Giacomo Puccini e non ci pare contraddire questa nostra opinione la considerazione che, mentre appare inutile la vocalità dei solisti è invece splendido l’impiego del coro virile, dalle sonorità ora secche, ora sensuali, ora struggenti e malinconiche, che risultano efficacissime anche per il fatto che non si capiscono le parole. Christian Badea pare aver compreso tutto questo anche troppo bene: ottimo l’inizio, irruento e appassionato; abbiamo sentito, nel leggero indugiare ritmico, una punta di ironia che ci avrebbe fatto piacere risentire anche in altri momenti: così non è stato, eppure nella partitura orchestrale di ironia ce n’è parecchia! Il direttore ha saputo però non mandare perduto nessun altro possibile effetto. L’orchestra dello Spoleto Festival era abbastanza precisa, benché suonasse sempre un po’ troppo forte.
I cantanti, intanto, sulla scena, chissà perché, cantavano.
Non ci è piaciuta la Minnie del soprano Anne-Marie Antoine, dal timbro giusto per una rozza fanciulla che conduce una vita non certo facile, ma con alcune pesantezze bovine veramente eccessive e qualche imprecisione nell’intonazione; la sua recitazione non sufficientemente disinvolta si sforzava di rendere credibili situazioni non sempre verosimili.
Grigio, il Johnson-Ramerrez del tenore Maurice Stern, più adatto ad impersonare caratteri borghesi che non un rude brigante; spesso sopraffatto dalla prorompente voce di Minnie, ha saputo trovare accenti di giusta intensità solo nell’aria famosa: «Ch’ella mi creda libero e lontano….».
Il migliore è stato, secondo noi, senz’altro, il baritono Benito Di Bella: voce calda e vibrante, dal fraseggiare accurato e dalla convincente presenza drammatica. Il Nick del tenore Jonathan Green ci è parso il più valido fra tutti gli altri.
Un plauso meritano poi i giovani del Westminster Choir, guidati da Glenn Parker, i quali con le loro belle voci e la vitalità scenica hanno ravvivato sia l’aspetto musicale, sia quello teatrale.
La regia di Bruce Beresford ci è parsa poco capace di affrontare l’impresa della realizzazione di un’opera lirica, tanto da lasciarsi scappare un’eccessiva rumorosità in scena, tale da disturbare persino l’ascolto della musica. Benché abbia avuto il pregio di non cadere nella trappola di fastidiose ricostruzioni moderne, oggi tanto di moda, e abbia cercato di rispettare gli autori, pure, forse condizionato da esigenze di realismo cinematografico, ha finito per rendere un po’ ridicola la situazione, trasformando il saloon in un postribolo, in cui l’improbabile «maitresse» legge ai clienti le Sacre Scritture; e poi non siamo riusciti a capire perché non abbia fatto arrivare Minnie a cavallo nella scena dell’ultimo atto: poco sostenibile ci è parso infatti quel suo arrivo a piedi, dopo che il canto l’aveva così wagnerianamente preannunciata quale galoppante Walchiria!
Le scene e i costumi di Ken Adam sono stati una lettura accattivante e un po’ scontata di una storia «western», dalle grazie rudi e manierate ad un tempo, che ha avuto piacevoli intuizioni soprattutto nella scelta di luminosità e colori.
Uno spettacolo che, a ben considerare, ci è parso un po’ sgangherato, malgrado il grosso sforzo esteriore di «apparato»; in ogni caso al di sotto di quella che è la miglior tradizione del Festival.

Opera Kun di Nanchino
Dei tre spettacoli della Kun Opera di Nanchino, al Caio Melisso, scegliamo di parlare di quello costituito da tre brani di antico teatro dell’epoca Ming; non perché sia questo lo spettacolo più significativo, ma perché lo abbiamo vivo nella memoria, avendolo appena visto. Si impongono due considerazioni generali: la prima è che riesce molto difficile giudicare spettacoli che sono espressione di una cultura così lontana, non solo nello spazio, ma anche nel tempo; del resto è pure difficile per un europeo comprendere appieno le commedie di corte del Rinascimento, se non dispone di un buon retroterra culturale. La seconda considerazione è che questo tipo di teatro è, a nostro parere, in assoluto, il migliore che possa esistere, per il modo in cui è concepito: gli attori del teatro cinese recitano, cantano, danzano, mimano, suonano, e i linguaggi dei gesti, della musica e degli effetti sonori si intrecciano con la recitazione, senza sforzo, come presenze costanti stanti e indispensabili. Le tre storie che abbiamo visto avevano contenuti e atmosfere assai diversi tra loro. Nella prima: Quindici Guan, un prefetto, travestito da indovino, induce un ladro a confessare la sua colpa. Nella seconda: Il risveglio dell’amore, nasce, in un convento, l’amore tra un giovane e una monaca. Nella terza: La morte della tigre e il corteo trionfale, un cavaliere ubriaco uccide una tigre e ricava onori dall’impresa.
Le ambientazioni erano essenziali: due tappeti e pochi oggetti in scena, i costumi caratterizzavano fortemente i personaggi e lo sguardo seguiva con attenzione i gesti di un codice molto articolato e preciso, anche negli ammiccamenti e nelle acrobazie. Le orecchie ascoltavano una musica di cui era evidente la logica interna, senza però che noi fossimo in grado di farne una esauriente analisi strutturale. Le voci, nel canto, ma anche nella recitazione, esprimevano una melopea variamente accentuata: intervalli di quarta, terza e, più raramente, quinta si alternavano spesso nell’arco di un ottava e noi non sappiamo se ciò avesse qualche significato particolare.
Nonostante lo sforzo di attenzione che richiede, pensiamo che sia uno spettacolo di indubbio interesse e che lascia tracce nel ricordo.

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

Victor, o i bambini al potere
Il testo di Roger Vitrac ha ormai una sua collocazione nella storia del teatro e della letteratura. I canoni surrealisti lo permeano e alcune sue situazioni teatrali si troveranno in autori successivi. Il grosso limite dei surrealisti, o di coloro che ad essi si rifanno, è quello di essere dei positivisti del mistero: hanno sempre l’aria di sapere tutto e di conoscere quello che c’è oltre il reale, dichiarano di volerlo rivelare, ma poi non ne sono capaci. Proprio per questo rappresentano, per così dire, un’antitesi della psicoanalisi freudiana, di cui sono ingenui orecchianti; infatti, credere nel surreale è una sciocchezza da pseudo-colti. L’inconscio è sempre presente, in ogni opera d’arte; ma i surrealisti sono quelli che lo hanno capito di meno. Victor ha però una sua indubbia efficacia drammatica: un momento della storia e della vita degli uomini è descritto con una potenza coinvolgente. È la storia di un bambino che, nel giorno del suo nono compleanno, il 12 settembre del 1909, acquista una consapevolezza che distrugge e lo distrugge.
Giancarlo Sepe, ha fatto un lavoro quanto mai corretto, creando momenti di eccellente teatro. Certo, era impossibile, di questi tempi, non cadere in suggestioni platealmente psicoanalitiche, anche se quell’enorme culla di veli bianchi, all’inizio, serve a rendere con un’immagine concreta il fluttuare di una realtà che è un sogno e un sintomo allo stesso tempo. Di ogni personaggio il regista ci dà il quadro clinico. Così il padre di Victor risulta una specie di maniaco sessuale, reso con diligente monotonia di accenti da Pini Tufillaro; la madre, una borghese frigida cui presta l’ipocrita maschera Daniela Giordano, giustamente fredda. La coppia degli amici di famiglia sono il delirante signor Antoine, reso con sprazzi di intelligente ironia da Luca Biagini e l’infoiata Thérèse, adultera recidiva e petulante che Anna Maria Pedrini tratteggia con efficace alternanza di durezza e birignao. Il generale e la cameriera sono due caratteri, non essenziali alla vicenda, resi con discreta tecnica recitativa da Stefano Onofri e Valentina Sperlì. La péteuse, Ida Mortemart, nella sua naiveté letteraria, è un personaggio che ha la forza dei grandi ruoli che restano e Rita Di Lernia ha saputo darle un brivido di grandezza drammatica, con pochi, efficaci, tocchi.
Cristina Noci, nei panni vaporosi della bambina Esther, è stata di una bravura notevole, senza sbavature e senza ammicchi grotteschi. Non ci è piaciuto invece Umberto Orsini, che non sappiamo quanto sia sfuggito al controllo del regista. In alcuni punti, amleteggia troppo, anche se ne è consapevole e ci tiene a farlo sapere anche agli altri con quel: Night mother! citato sarcasticamente, che, in questo teatro, fa pensare più a Spoleto l’anno scorso che all’antica regina di Danimarca. C’è poi una cosa che non ci è andata giù: perché, quando decide di fare il bambino, sporge il labbrone e recita con accento cremonese come fa Ugo Tognazzi?
Le scene di Riccardo Buzzanca riportano con una lettura personale le atmosfere del surrealismo (abbiamo apprezzato anche la citazione che Sepe fa tra dada e gran guilgnol con le membra isolate che spuntano dal sipario scarlatto); i costumi di Bruna Parmesan ci paiono tutti riusciti, meno il pigiama del bambino. Le musiche, non originali, a cura del Team Harmonia Garden realizzano in pieno l’obiettivo con la marsigliese forale di grande effetto scenico. Uno spettacolo di grande correttezza professionale che rivela un fare attento e idee non banali.

Psicoanalisi contro n. 15 – Le terzine della salute

lunedì, 1 luglio 1985

Da sempre, si parla dell’influenza che l’arte esercita sulla psiche e, basandosi su quest’influenza, c’è chi ha pensato di usare una o più espressioni artistiche in psicoterapia.

La più nota e la più pubblicizzata, è quella che va sotto il nome di musicoterapia; ma anche il disegno, la danza, la rappresentazione di scene teatrali vengono usati come mezzi terapeutici. Servendosi dell’espressione artistica, un essere umano può liberarsi di molte inibizioni, sbloccare nodi intricati della personalità, sciogliere sintomi; in poche parole: ritrovare maggior armonia con il proprio corpo e l’ambiente.
C’è un uso più attivo che consiste nel chiedere al paziente di esprimersi cantando, danzando, suonando, recitando; e c’è un uso più passivo che propone al paziente l’ascolto di musica, l’osservazione di figure e colori, o che lo invita ad assistere a forme di spettacolo allestite da altri. In ogni caso, anche quando la proposta è di fruizione passiva, il tutto viene sempre montato con uno scopo preciso: quello di curare; di aggredire, cioè, i sintomi patologici, per aiutare l’individuo a liberarsene. Tutte queste tecniche, se pur estremamente civili e umane, non sono però, nel loro fondamento, molto lontane dal principio del condizionamento imposto dall’esterno. Infatti sono, in ultima analisi, parte di quel sistema di interventi coercitivi quali gli elettroshock, i bombardamenti psicofarmacologici, i condizionamenti comportamentistici, etc.
Invece, a mio avviso, le sole tecniche corrette di intervento sono quelle basate sul rispetto della persona e sulla ricerca delle motivazioni del disagio. Questo solo può essere il fondamento di un corretto agire terapeutico che porti verso la salute; gli altri metodi, che non si fondano sulla presa di coscienza e sulla gestione comune della cura tra terapeuta e paziente, sono sempre esproprianti e, tutto sommato, castratori.
Il ricorso a queste tecniche che sopraffanno il paziente può rendersi però inevitabile. Io sono contrario alla demonizzazione dei farmaci (e degli psicofarmaci in particolare) che sono spesso guardati con orrore dagli psicoterapeuti, come se in questi stesse la fonte di ogni male. È solo l’uso acritico dei farmaci che danneggia seriamente ogni possibilità di una buona terapia: quando sono imposti dal terapeuta ed esprimono quindi il rifiuto a prendere in considerazione la problematica esistenziale del paziente.
Se rimane però chiaro che il fine della cura è l’acquisizione della consapevolezza dell’insieme delle cause patogene, può essere lecito anche l’uso di qualche elemento chimico che possa aiutare il paziente — si badi bene: aiutare, non ottundere o reprimere —. Perché allora escludersi le possibilità messe a disposizione dalla ricerca scientifica?

Io ho fatto ricorso alle tecniche dell’arte, particolarmente mi sono servito della musica, nel tentativo di intervenire con persone disturbate anche in modo grave: i cosiddetti matti.

Ho fatto loro ascoltare musica, ho cercato di insegnare ad eseguirla e a comporla; li ho invitati ad abbandonarsi alle melodie e ai ritmi, a esprimersi attraverso di essi. Ho visto atteggiamenti rattrappiti sciogliersi, sguardi illuminarsi, persone isolate da sempre, articolare suoni e movimenti, in sintonia con quelli di altri; ma tutto ciò mi è sempre parso aleatorio e impreciso, ambiguo, senza la capacità di raggiungere la fonte della consapevolezza.

2
Pur non escludendo la possibilità di un effetto terapeutico delle forme artistiche, io mi sono allontanato da questo tipo di prospettiva ed ho preferito affrontare l’arte direttamente. L’arte è terapeutica di per sé e non quando è prescritta e somministrata in dosaggi di tipo farmacologico, in situazioni e luoghi che sono della cura e non dell’arte. Lo studio specialistico e la casa di cura vanificano gran parte delle possibilità terapeutiche dell’arte. L’arte è terapeutica di per sé, quando agisce nel suo mondo, e il terapeuta non può fare altro che educare all’amore per l’arte, se vuole servirsene come strumento della comprensione del mondo e dell’inconscio. Per questo, è fondamentale la preparazione, anche artistica, del futuro psicoterapeuta: chi non ama l’arte, chi non la conosce a fondo, non è in grado di fare il mestiere di «curatore di anime»; sarebbe solo un ciarlatano, se ci si provasse. Chiaramente, non si può pretendere dal terapeuta la professionalità nella pratica dell’arte, ma almeno un coinvolgimento e una conoscenza più profonde di quelle che abitualmente vengono richiesti all’uomo di media cultura, frequentatore e fruitore di qualche buon film, spettacolo, mostra o concerto. Lo psicoterapeuta ha il dovere di impegnarsi ad affrontare il mondo dell’arte, perché l’arte è presente sempre, nel panorama complessivo in cui si muovono le persone che ricorrono alla cura; sia nell’aspetto paludato e ufficiale, sia nella veste di creatività popolare o istintiva — e non intendo solo il folclore —. È anzi dovere dello psicoanalista saper distinguere e scegliere in quel marasma di spazzature pseudo﷓-artistiche che inquinano la civiltà odierna. L’ecologia deve infatti andare oltre la pura e semplice lotta alle buste di plastica e alle lattine che inquinano mari e boschi, alle piogge acide e ai residui del petrolio; ma deve prendere consapevolezza anche dei disastri acustici, cromatici, estetici, armonici e ritmici che, sotto forma di cascami delle varie arti, insidiano l’integrità e l’equilibrio dell’uomo; si pensi, tanto per fare un esempio, al bombardamento sonoro cui siamo continuamente sottoposti da riproduttori e diffusori di rumori pseudo﷓musicali: l’ecologia del suono è una battaglia da combattere non solo in vicinanza di aeroporti o alle catene di montaggio.

È quindi fondamentale che l’analista abbia un proprio concetto di ciò che è artisticamente sano; deve saper scegliere quale musica e quale poesia, se l’arte colta o folclorica, aulica o dimessa. Deve avere scelto il suo rapporto con l’arte e deve sapere quale scelta proporre ai suoi pazienti.

Ciò non significa che il terapeuta debba spingere il depresso a suonare il piffero e l’ossessivo a scrivere terzine di endecasillabi e che guarisca solo chi è diventato Dante Alighieri.

3
Queste mie righe non riflettono forse una grande lucidità di idee, il rapporto tra arte e psicoanalisi mi ha sempre coinvolto; ma dopo averci tanto pensato mi capita spesso di scrollare la testa dicendo: «Io sono un artista e mi basta!» o anche: «Ma io sono uno psicoanalista! L’uno e l’altro possono coesistere senza intralciarsi». Ma poi sento che queste conclusioni non mi bastano; infatti sono convinto che l’arte sia salute; l’arte guida verso la salute, è strumento di salvezza. Sono consapevole che, affermando questo, mi comprometto come psicoanalista, se parlo di arte, e come artista, se parlo di psicoanalisi. Ho scelto di diffondere le mie teorie psicoanalitiche al di là della cerchia dei miei pazienti, perché penso che siano utili alla maggior comprensione degli esseri umani tra di loro, alla lotta contro il male che tutti ci insidia.
Così anche ho scelto di parlare dell’arte, perché la considero una presenza che deve essere costante nella vita di tutti e non un patrimonio di pochi e non mi dispiace l’immagine di una folla di popolo che, come nell’Atene di Pericle, si reca, in una bella giornata di sole, ad assistere alle rappresentazioni che si susseguono, dal mattino alla sera, nel pubblico teatro della città. Che importa se qualcuno si annoia, o se, in un angolo buio, un altro bacia la bocca amata!

4
Da sempre anche si è parlato delle prerogative educatrici dell’arte. Nelle scuole si insegna la letteratura e non solo a leggere e a scrivere; si insegna persino un po’ di storia dell’arte figurativa e si dà qualche nozione musicale. Sebbene io creda che l’arte, già di per sé, sia educativa, ritengo ugualmente che si debba educare all’arte. L’arte non può essere solo un mezzo, deve essere un fine. L’arte è la salute trovata, la maturità conquistata, patrimonio dell’uomo sano e civile.
Non mi piace l’idea di usare l’arte o la scienza come mezzo, preferisco siano fini. Per fortuna, io credo poco alla logica dei mezzi e dei fini: per me esistono soprattutto i desideri, che devono essere realizzati. I desideri sono fini? Certo: sono gli unici fini in vista dei quali l’essere umano agisce.
In che cosa consiste, allora, l’educazione? Nel riuscire a trasmettere l’amore per l’arte e non soltanto: anche l’amore per la scienza.

Nessuno di noi è sano, nessuno di noi è maturo, ognuno di noi deve tendere alla guarigione ed alla buona educazione; l’arte ha questa duplice funzione di essere terapeutica ed educativa; ma, per fortuna, è anche molto di più; i terapeuti e gli educatori debbono saperlo e debbono indirizzare i lori desideri e quelli dei loro pazienti e discenti a confondersi con le meravigliose costruzioni dell’arte: l’arte del passato e del presente. Di quale arte? Quella per uomini sani; ma gli uomini sani non esistono; esiste invece l’arte.

5
Voglio ritornare un po’ sui discorsi precedenti, perché temo di essere stato eccessivamente oscuro e contraddittorio. Forse è sufficientemente esplicito ciò che ho detto intorno all’arte come strumento terapeutico: sono scettico nei confronti di una somministrazione per dosi dell’arte a persone più o meno passive. Io so che l’arte è terapeutica, ma bisogna trovarla nei luoghi ad essa consacrati o saperla scoprire ogni giorno leggendo un libro o suonando uno strumento. Ciò che più mi rimane oscuro è come sia possibile che l’arte, che per un verso è strumento della cura, per l’altro possa costituire il premio e il privilegio di chi ha già raggiunto la salute. Per godere fino in fondo dell’arte bisogna essere sani; ma senza la conoscenza dell’arte non si potrà mai essere sani. Chi non ama l’arte è malato, gravemente malato.
L’amore per l’arte è una tensione che porta a scoprire, a guardare, ad osservare, ad ascoltare e quindi a guarire. Ma, se siamo giunti all’arte significa che eravamo già sani. L’arte è salute e mezzo per la salute.

Forse, ora queste mie considerazioni sono un po’ più esplicite, ma ancora resta l’ambiguità del mio discorso sull’educazione. Io impongo, nella scuola che ho fondato per la preparazione di psicoanalisti, un approfondito studio di tutte le forme artistiche — spero che non sia solo un’imposizione perché vorrei che coloro che hanno scelto di studiare con me lo avessero fatto anche per amore, se pur riconosco che lo studio intorno all’arte che io pretendo è senz’altro faticoso e tutt’altro che superficiale —. L’arte quindi educa, tanto che serve anche per diventare psicoanalisti. Nessuna scuola, di nessun tipo però avrebbe senso se non vi si insegnasse l’arte. Ciò che mi fa orrore della nostra scuola, da quella materna all’università, è che l’arte gravi come un peso, un dovere, mentre dovrebbe essere invece quasi un premio. È una gioia leggere «l’ira di Achille» o le «variazioni Goldberg» di Bach. È una scuola esangue, che illividisce l’arte, la rende flaccida, noiosa, imponendola senza amore. L’educazione dovrebbe essere soprattutto educazione all’amore, quindi anche all’amore per l’arte. Nonostante tutto, le opere del passato brillano davanti agli studenti nel loro splendore e qualcuno ne rimane affascinato, superando l’ostacolo costituito dalla rancida bava che su di esse spande la cadaverica concezione che ne dà il sistema di nozioni scolastico.

Continua la contraddizione tra arte che è obiettivo da raggiungere e mezzo per raggiungere quell’obiettivo; voglio che rimanga questo carattere duplice: educativo e terapeutico. Si guarisce e si educa solo nell’amore per l’arte e tramite di questo amore può essere solo l’amore di un maestro.

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

Concerto di mezzogiorno del 27 giugno
I concerti di mezzogiorno sono incominciati, con gli incontri curati da Paula Robinson e Scott Nickrenz, la mattina di giovedì 27.
Il primo brano in programma era di un poco noto compositore bolognese del Seicento: la Sonata I in fa maggiore di Pietro Baldassarre, eseguita da Stephen Burns alla tromba, Joseph Swensen e Dong Suk Kang, violini, Scott Nickrenz, viola e Jeffrey Kahane, clavicembalo. Pezzo di sapiente fattura che, nei tre tempi tradizionali: allegro, grave, allegro, passava da una garbata vivacità a un melodiare sinuoso e sensuale, per ritornare a uno scintillante dinamismo.

Purtroppo, la tromba è stata un disastro: i fiati erano presi in modo sbagliato, le sonorità sporche, l’intonazione ambigua; i suoi compagni di sventura facevano veramente fatica a imporgli di rispettare il tempo.
Dong Suk Kang ha poi eseguito quattro Capricci, numeri 9-13-17 e 23, di Paganini, porgendoli con non disdicevole irruenza romantica, particolarmente evidente all’inizio del capriccio n. 17, dalla concisa perentorietà di un motto lapidario: ne veniva fuori una lettura comunque corretta, anche perché la mano era fluida e l’intonazione sufficientemente precisa.

Il concerto si è concluso con il bel Quartetto con pianoforte di Robert Schumann, con gli stessi Nickrenz e Kang, con Colin Carr, violoncello e Jean Yves Thibaudet, pianoforte.
Ne è scaturita un’esecuzione d’assalto: le belle melodie, prese di petto, si concludevano con cadenze un po’ sbattute in faccia; il tutto non era sgradevole, ma non pareva molto meditato; tutta la prima metà dello splendido terzo tempo è stata piena di sonorità troppo dure, che però sono andate lentamente ammorbidendosi; e il quarto tempo, fugato, aveva un che di eccessivamente militaresco nell’esecuzione.

Concerto di mezzogiorno del 28 giugno
Questo venerdì sono state eseguite musiche di F. Schubert e F. Mendelssohn. Del primo il violinista Joseph Swensen e il pianista Jeffrey Kahane hanno eseguito la Fantasia in do maggiore: un fluire ininterrotto di musica meravigliosa. Il violino, pur esprimendosi attraverso un bel suono, risultava un po’ troppo debole e sospiroso, tanto che il pianoforte, invadente, talvolta finiva col sopraffarlo, quasi annullandolo.
Veramente eccezionale la prestazione dei giovani del quartetto statunitense Meliora: Ian Swensen e Calvin Wiersma, violini, Maria Lambros, viola, Elisabeth Anderson, violoncello, impegnati nell’esecuzione del Quartetto in mi minore, op. 44, n. 2 di Mendelssohn, durante la quale hanno dimostrato una sapienza interpretativa e una capacità di suonare insieme veramente straordinarie. Sempre l’accordo è stato perfetto: sia nei lunghi periodi in cui le armonie cangiano con scioltezza consequenzialità, sia nei momenti in cui il melodiare passa dall’uno all’altro dei quattro strumenti; sempre l’intonazione è stata ineccepibile, il ritmo preciso e senza tentennamenti. Ne siamo rimasti veramente ammirati.

Concerto di mezzogiorno del 29 giugno
Questo sabato e il successivo sono dedicati a J.S.Bach nel terzo centenario della nascita. Il primo dei due concerti aveva in programma opere fondamentali, di una bellezza assoluta. Nella Sonata in Si minore per flauto ed archi, l’organico ridotto non ha nuociuto all’equilibrio e alla perfezione intrinseca di questo brano. Gli esecutori: Paula Robison, flauto, Dong Suk Kang e Joseph Swensen, violini, Scott Nickrenz, viola, Carter Brey, violoncello, Sarah Thompson, contrabbasso, John Gibbons, clavicembalo, ci sono parsi tutti abbastanza corretti, sebbene un po’ superficiali, sia nelle parti contrappuntistiche, sia in quelle in cui primeggiava la melodia; inoltre è stata eccessiva, in alcuni punti, l’accentuazione ritmica. Questa musica deve essere più meditata, anche quando è di apparente lievità. Paula Robison, un po’ anonima e non sempre sicura nell’intonazione, ha però cercato di amalgamarsi con gli altri.

La Fantasia cromatica e fuga è una costruzione sonora da mozzare il fiato; Gibson ha mani straordinariamente duttili e fluide, questo però gli ha nuociuto nell’esecuzione della fantasia: volava sui tasti piombando sugli accordi con piglio un po’ chopiniano; si è dimostrato, improvvisamente, profondo e accurato, con uno strabiliante voltafaccia interpretativo, nella fuga.
I Concerti brandeburghesi sono uno dei monumenti della storia dell’arte universale. Qui è stato eseguito il n. 2. Subito ci siamo infuriati: un’accozzaglia di suoni insopportabili, una ritmica pesante e ottusa, imprecisioni in ogni dove e non era solo colpa della tromba, dall’intonazione scorretta e dagli incespicamenti continui; nell’ultimo tempo si è raggiunto il delirio: tutti correvano come se temessero di perdere il treno. Bach non si commemora così!

Concerto sinfonico Nuove Bacchette
Questo XXVIII Festival ha offerto, nel tardo pomeriggio di domenica trenta, l’occasione, quanto mai interessante, di incontrare per la prima volta cinque giovani direttori d’orchestra con un concerto riservato a loro, e ci rallegra la prospettiva che l’iniziativa sarà ripresa anche in futuro.
Sul podio si sono avvicendati ragazzi veramente bravi, musicisti già completi, sebbene, indubbiamente, lo studio e la ricerca continueranno ad arricchirne la personalità per cui anche la loro visione della musica potrà evolversi. Fin da ora, già
dimostrano un’ottima comprensione della partitura ed è notevole la capacità di trasmettere emozioni musicali in modo così spiccatamente personale; tanto che comunicano a chi li ascolta anche dati sulla loro stessa struttura psichica; così ci è stato possibile fare, tra di noi, un piccolo gioco: abbiamo steso di ciascuno, oltre che un profilo basato sull’analisi musicale, anche note sulle caratteristiche psichiche, con alcune affermazioni, azzardate, che, per onestà professionale, guardiamo bene dal rivelare. Il solo fatto di aver potuto stendere queste note, basandoci sul loro modo di leggere la musica, è una conferma di quanto essa li costituisca organicamente.

Il primo che abbiamo sentito è stato Peter. Lipari, ventiquattrenne dell’Illinois, impegnato nel Carnevale romano, ouverture op. 9 di H. Berlioz. Ha attaccato con un coupe d’archet perfetto ed ha proseguito con una lettura preziosa e raffinata, senza sbavature o tentennamenti; i piano e i forte erano dosati con precisione e le pause, quasi a sorpresa, non duravano mai un istante di troppo.

E’ seguita l’esecuzione del Don Giovanni, poema sinfonico op. 20 di R. Strauss, diretta da Marc Stringer, ventun’anni, di Washington. Estroverso, porge la musica con immediatezza pur essendo sempre contenuto e trattenuto, senza alcun gratuito esibizionismo; si sa astenere dal gesto magniloquente, quasi temendo di abbandonarsi troppo. Riesce a far comprendere, rendendola con precisione, la architettura interna di questa composizione, così articolata e ricca.

Il terzo è stato Rico Saccani, trentun anni, impegnato con la Ouverture-Fantasia Romeo e Giulietta di P. I. Ciaikovski. Questo direttore ama i momenti di meditazione e li propone con emozionante efficacia, che non scade mai nella sdolcinatezza, contenendo sempre la passionalità e preferendo le tensioni sotterranee; bravo nel dipanare armonie e melodie con attenta precisione ritmica, Saccani, come i due che gli sono poi succeduti, ha diretto senza l’ausilio della partitura. Vogliamo sottolinearlo compiacendocene, poiché riteniamo che gli esecutori di musica (anche quelli dei gruppi di insieme) dovrebbero sempre suonare a memoria. Si è mai visto un attore recitare con il copione in mano? Oggi si fa persino a meno di quel ridicolo elemento che era il suggeritore! La musica deve uscire dal di dentro e l’esecutore deve coincidere con essa.

E stata poi la volta del ventisettenne Alessadro Pinzauti con la Suite n. 2 da Il cappello a tre punte di M. De Falla. Aiutato dalla natura del brano ha dimostrato una straordinaria capacità di coloriture, un continuo cambiare timbrico che guidava l’orecchio in una avventura sonora quanto mai piacevole e varia; la dinamica, straordinariamente equilibrata, si scioglieva talvolta in una splendida cantabilità.

L’ultimo a salire sul podio è stato Tzimon Barto, di vent’anni, che ha dato una lettura pregevolmente corretta della Leonora n. 3, ouverture in do maggiore op. 72/a di L. van Beethoven, sempre attento a controllare la non facile partitura, dalla semplicità solo apparente. All’altezza del suo compito, ha evitato di avventurarsi in temerarietà timbriche o ritmiche, che qui sarebbero state quanto mai disdicevoli.

Vogliamo concludere dicendo quanto ci ha entusiasmato la prestazione dei ragazzi della Spoleto Festival Orchestra, attenti sempre e impegnati a seguire e ad aiutare i coetanei sul podio, dando il meglio di sé con un atteggiamento di compresa partecipazione che ci ha commosso.

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

In campo

Psicoanalisi, cultura e arte sono gli argomenti di cui si occupa questo giornale, poiché il progetto metapsicologico di Sandro Gindro riguarda l’uomo nella sua totalità, che non può prescindere dalla psicoanalisi, dalla cultura e dall’arte.
Il terreno dell’arte è stato per decenni campo di esercitazione della interpretazione psicoanalitica e non costituirebbe quindi novità la pretesa di questo foglio di immischiarsi di quello che avviene in questi giorni in cui l’arte è di scena a Spoleto.
Un altro senso ha però la presenza della psicoanalisi nel mondo dell’arte, quando essa rifiuti di limitarsi a esercitare una funzione legata all’interpretazione, che la collocherebbe comunque altrove rispetto all’arte medesima.
Infatti, che la psicoanalisi pretenda di interpretare i significati dell’arte è presunzione universalmente accettata, anche da chi – magari con fastidio – considera l’arte ricca di ragioni che la ragione non può comprendere.
Meno accettato è invece il fatto che lo psicoanalista si consideri a pieno titolo artista in proprio e critico legittimato dell’arte altrui.
Psicoanalisi, cultura e arte si costruiscono e costruiscono il mondo in autonomia reciproca, ma il mondo che costruiscono le ricomprende necessariamente in una somma di rapporti tanto polidirezionali, quanto inevitabili.
Se si vuole andare oltre la luccicante vetrina della mondanità, ci si renderà conto che, nei pochi giorni del Festival, si agitano questioni che hanno a che fare con i massimi sistemi, non meno che con interessi variamente leciti.
L’arte e l’artista qui si esprimono, si espongono, si vendono e sono acquistati, nel contesto ampio di uno spettacolo che li rende anche – se pur non soltanto – merce.
Non è importante decidere se il Festival dei Due Mondi trasformi Spoleto in un luogo privilegiato dell’arte o piuttosto in una Fiera Campionaria del prodotto artistico.
L’una e/o l’altra cosa non sarebbero certo un male più grave della terza ipotesi: quella che trasformerebbe la città – suo malgrado – in una fiera delle vanità. Sarebbe facile per lo psicoanalista il gioco di mettersi allora al di sopra della mischia, fingendosi magari un ruolo di catalizzatore delle passioni, da esse però immune.
Lo psicoanalista di Psicoanalisi Contro è invece qui a reclamare il suo dovere, oltre che il diritto, di essere parte in causa. Il suo progetto è globale e implica la sua capacità di orientarsi e di orientare nel mondo. L’arte e la cultura lo costituiscono e lo appassionano, ha di esse e di sé un chiaro concetto, che si può e si deve difendere scendendo in campo anche in questo XXVIII Festival dei Due Mondi.

15 – Luglio ‘85

lunedì, 1 luglio 1985

Gnoli
A Palazzo Ràcani Arroni, quasi sulla piazza del Duomo, si è aperta martedì 25 giugno la mostra antologica di Domenico Gnoli, organizzata da Bruno Mantura, con un catalogo curato da Mario Quesada.
Domenico Gnoli è nato a Roma nel 1933, il padre era uno storico dell’arte e la madre una artista che si è occupata anche di ceramica; ma un po’ tutta la famiglia è sempre stata interessata alle cose dell’arte, in particolare, sono noti, come letterati, lo zio Tommaso e il nonno Domenico. Ebbe la sua prima mostra personale nel 1950. Decise poi di occuparsi di scenografia teatrale e dopo alcune esperienze In Italia sfondò all’Old Vic di Londra nel 1955 con le scene ed i costumi per una edizione di As you like it di Shakespeare. Stancatosi anche del teatro tornò da autodidatta alla pittura e visse tra Londra, New York, Parigi e Roma in un ambiente artistico e snob; il lancio mondano gli assicurò collaborazioni ad importanti riviste come illustratore. Nel 1964 si presentò come pittore a Parigi con grandi tele in acrilico, tutte raffiguranti oggetti visti con ottica particolare, esasperati e ingranditi con una tecnica cui non è estranea l’influenza dell’arte pop americana. Uomo di successo, ma artista in conflitto tra il mestiere di illustratore che gli rubò tempo prezioso e il proprio lavoro di pittore, morì a New York nel 1970.
L’esposizione di Spoleto raccoglie 26 dipinti del periodo tra il 1964 e il 1969 e oltre un centinaio di documenti dell’opera grafica e scenografica dell’artista, dal 1950 fino alla morte.
Il mondo estetico e poetico di Gnoli è compatto e organico. Si nota, ovviamente, una evoluzione: mutamenti, acquisizioni, suggestioni, che si stratificano; però tutto sembra al tempo stesso, coerente. Non sappiamo quale senso possa avere distinguere troppo tra le opere cosiddette pittoriche e quelle grafiche o scenografiche: tutte sono unite da quel comune denominatore che è la voglia di guardare da un altro punto di vista; una voglia che è macroscopicamente evidente nei grandi quadri dove è persino troppo scoperta e, talvolta, superficiale o ingenua; mentre, nelle opere grafiche l’altro punto di vista non tanto si realizza attraverso la prospettiva sghemba, il taglio inconsueto dell’immagine, il particolare troppo ravvicinato, quanto attraverso modi di vedere o di inventare realtà inconsuete e fantastiche. In ogni sua opera si avverte l’ossessivo terrore di cadere nel banale e lo sforzo per non esserlo. La suggestione della pop-art è molto superficiale e, in fondo, neanche i grandi maestri del Rinascimento italiano lo influenzano così tanto quanto egli stesso voleva far credere. In Gnoli il gioco dell’arte si completa e si esaurisce entro una fantasia rococò: non la spessa profondità barocca e neppure la magniloquenza euritmica del neo-classicismo, ma la tenerezza lieve di una galanteria vagamente onirica. I suoi quadri, a dire il vero, non ci piacciono troppo: li troviamo così ovvii nella loro voglia di accompagnare lo sguardo in una visione diversa, che risulta però scontata tanto è ripetuta, non solo da lui, in quello stesso periodo, prima e anche dopo.
Cassetti aperti, poltrone, letti e materassi, colletti, cravatte e ricci, asole sbottonate e cerniere lampo mal chiuse si esauriscono in un gioco fine a se stesso, dopo che l’affermazione programmatica è stata fatta. Opere cui nel complesso manca nerbo, come càpita a certe brevi melodie, sempliciotte, accompagnate con tonica e dominante. Non che sia sempre da pretendere il contrappunto, ma almeno qualche modulazione.
Preferiamo decisamente quel Domenico Gnoli, sconosciuto, crediamo anche a se stesso, che sbuca improvvisamente, con intensa vena caustica eppur dolce e accattivante, di sapore govoniano, capace di una osservazione tradizionale; dal carattere psicologico preciso di chi ha una schiettezza di fondo e molta voglia di lavorare, malgrado una grande paura del mondo. Ci riferiamo ad annotazioni intime, come la Madonna sottovetro nel Man by the win dow (Uomo alla finestra), 1963; o le chine e acquerelli della serie di illustrazioni per il Barone rampante del 1957 e quelle per Orestes or the art of smiling (Oreste o l’arte di sorridere), 1960. Anche in, teatro Gnoli ha saputo accennare a una sua capacità di esprimere cose importanti, proprio perché la scenografia è una pittura mobile per cui non è necessario, anzi è impossibile, imporre un punto di vista. Consigliamo di vedere la mostra senza farsi condizionare dai giudizi della critica ufficiale, che troviamo frivoli e inessenziali, andando alla scoperta del proprio Gnoli, quello con cui è possibile un intimo dialogo.

Faruffini
Martedì 25 giugno, poco prima di mezzogiorno, siamo entrati nelle fresche sale dell’appartamento Piccolomini, alla rocca del cardinale Albornoz, per l’inaugurazione della mostra dedicata a Federico Faruffini e alla sua opera di pittore e di fotografo.
Dopo il caldo della lunga ascesa, ci siamo immersi con estremo interesse in questa bella mostra che, sebbene, come lamentano gli organizzatori, manchi di alcune opere fondamentali, riesce a dare una visione completa ed esauriente di un percorso artistico, tecnico e spirituale di un uomo sicuro e incerto allo stesso tempo, un artista che non riesce ad avere uno stile proprio, ma che è sempre lì sul punto di conquistarlo.
Federico Faruffini nacque a Sesto S. Giovanni nel 1833 da una famiglia borghese che gli fece compiere prima studi filosofici e poi giuridici a Pavia; dedicatosi alla pittura fu allievo di Giacomo Trécourt prima, poi di Gricoletti a Venezia e Bertini a Milano. Amico della famiglia Cairoli visse da vicino l’epopea garibaldina; dopo soggiorni a Torino, Milano e Roma si trasferì a Parigi, dove partecipò all’esposizione del 1866 e del 1867, anno in cui tornò in Italia e si trasferì a Roma.
Dopo il matrimonio decise di dedicarsi alla fotografia, senza riuscire a trovarvi soddisfazione. Nel 1869 realizzò il gesto del suicidio (già tentato e fallito con un tuffo nel Tevere due anni prima) e morì dopo aver bevuto del cianuro di potassio, a Perugia, dove si era nel frattempo trasferito con la famiglia e la figlia Teresa nata da quasi un anno.
Lo sforzo di Faruffini artista di esprimersi e di comunicare è enorme: il suo linguaggio è sempre affannoso. Lasciandoci andare ad un banale semplicistico biografismo, diciamo che il suicidio che pose termine alla sua breve vita è stata l’ovvia conclusione di un’esistenza passata solo attraverso conflitti, senza che sia mai riusciti ad avere, né dentro né fuori di sé, validi punti di riferimento. Guardare il mondo, volerlo cogliere, volerlo comunicare agli altri, è pericoloso: l’artista, come lo psicoanalista, può perdervisi, impazzire, esplodere, morirne. Un artista, o uno psicoanalista, hanno il dovere di capire il mondo e debbono anche saperselo inventare, altrimenti il mondo li sopraffà. Nel complesso dell’opera di Faruffini, il mondo non ha sempre la meglio; spesso l’artista riesce ad imprigionarlo ed inventarlo, pur in mezzo ad accademismi, titubanze ed ingenuità. Una pittura piena di luci, colori, ricordi di maestri più o meno remoti; ma una pittura che rivela anche l’assenza di un maestro che sia possibile amare totalmente, che sia possibile, magari, contraddire. Gli autodidatti in amore non saranno mai grandi artisti! Perché, però, secondo noi, Federico Faruffini è un valido e stimolante artista? Perché in lui la ricerca di questo amore è continua e presente, come rivela uno dei più bei quadri della mostra: L’amore del poeta. Sordello e Cunizza, contessa di S. Bonifacio. Il quadro è suddiviso in due scene, di cui una è una specie di lunetta superiore, dove, su fondo oro, si stagliano le figure di Virgilio, Dante e Beatrice; e l’altra, di grandi dimensioni e con taglio verticale, raffigura Sordello inginocchiato che bacia la mano di Cunizza, in un giardino fiorito e reso un po’ finto dalla maniera di rappresentare il carattere medioevale dell’ambiente e dei personaggi. Al di là della delicatezza romantica con cui sono ritratte le due figure centrali ed una atmosfera quasi preraffaellita che domina su tutto, ci pare di poter leggere una vicenda artistica e spirituale appassionata in quelle tre piccole figurette scure in alto, in cui conscio ed inconscio si mescolano, come si mescolano presente e passato della storia e della poesia, dell’amore e dell’arte.
Faruffini tentò anche un rinnovamento del quadro di genere storico, senza però troppo riuscirvi, eccetto forse che nella dichiarazione corale ed antieroica della Battaglia di Varese, non presente a Spoleto. Essenziale è il suo uso del colore e della luce, che si accordano per costruire immagini che raccontano sempre un avvenimento: sia un Convegno amoroso o la Romanza sul Ticino in cui la narrazione è più ampia, sia la Natura morta con frutta oppure la Natura morta con ortaggi, dove la vivacità dei colori, il gioco delle ombre, la disposizione delle forme si fanno racconto essenziale. A volte prevale una teatralità esplicita come nella Annunciazione o ne L’estasi di S. Teresa dove l’incorniciatura che scompone le piccole composizioni nelle forme del dittico, scandisce in due tempi la narrazione degli episodi. C’è un rapporto ambiguo di Faruffini con la figura femminile: l’unico quadro forse noto al grosso pubblico, La lettrice o Clara ritrae una giovane signora borghese, ben assestata nel suo privilegio culturale e sociale, che legge un libro, seduta in poltrona, tenendo nella mano sinistra una sigaretta, con un gesto che è di conquista e di provocazione, ed è vista dal pittore con sguardo di ammirata timidezza. Ma l’ammirazione timida si trasforma e si scatena altrove in fantasie morbosamente aggressive: La morte di Ofelia, che affoga in un trionfo di colori di una natura decisamente allegra; davanti alla sua morte L’assassinata, riversa sui gradini della chiesa, in un inutile elaborato atteggiamento melodrammatico; o La vergine al Nilo, statuaria bellezza che galleggia sulle acque del fiume, dimenticata da una folla intenta alla celebrazione di un rito che non la riguarda. Insistere troppo sull’aspetto veristico della ricerca pittorica di Faruffini, ci pare scorretto; oltre tutto noi siamo convinti che il verismo, in arte, non sia mai esistito – e non solo nell’arte figurativa -; ma qui fino all’ultimo, sono tante e tali le suggestioni che si sovrappongono che l’aspetto oggettivo della descrizione della realtà è praticamente assente. Questo disinteresse per il realismo è poi rivelato dalle fotografie: bruttine nel loro tentativo di non essere solo fotografiche. La mostra è stata allestita per il Festival da Bruno Mantura ed ha goduto della collaborazione della Regione Umbria e del Ministero dei Beni culturali e ambientali. Il catalogo è J a cura di Anna Finocchi, alla cui grazia e intelligenza siamo debitori anche del piacevole spettacolo di buona cultura non saccente che ci ha offerto con il suo commento durante la visita inagurale alla mostra.

La Radio, storia di sessant’anni
È giunta a Spoleto, nella Chiesa di San Nicolò, la mostra la Radio, storia di sessant’anni, reduce dall’esposizione di Torino, patrocinata dalla RAI con la collaborazione del Comune di Spoleto e del Festival dei Due Mondi. La ricerca del tempo perduto è sempre coinvolgente, per cui ci si addentra volentieri nella babele di suoni che escono dai riproduttori messi al centro delle vetrine rotonde, sistemate a coppie per ricordare le cuffie delle prime radio a galena da cui la radiofonia prese le mosse. Ad ogni coppia di altoparlanti corrisponde un periodo di quella particolare vicenda sonora che è stata la radio in Italia. Che la radio sia stata una presenza importante è persino troppo ovvio, perché lo si debba ripetere; oggi la televisione le ha sottratto forse alcune funzioni importanti e ne ha diminuito l’ascolto, ma la sua presenza rimane continua. Oltre ai documenti sonori sono esposte anche apparecchiature che in un periodo relativamente breve hanno acquistato un sapore archeologico e quindi fa piacere oltre che ascoltare, anche guardare e toccare, meglio se non seguendo proprio il proposto itinerario cronologico. Riteniamo che questa sia una mostra interessante e valida, pensiamo però che gli allestitori siano stati eccessivamente timidi e forse depressi, per cui è mancato il coraggio di prendere quest’occasione per esaltare l’importanza reale della radio. Va bene far sentire le dichiarazioni di guerra dalla voce del Duce, o la cronaca della partita contro la Germania che ha dato all’Italia il campionato del mondo o lo stralcio di un giornale radio o di una trasmissione di varietà; ma limitando la radio alla parola si è, per esempio, trascurata la sua importanza per la cultura musicale: dalla costruzione degli auditorium di Torino e di Roma, ai concerti in diretta, alla promozione dei giovani esecutori e della musica contemporanea che le sale da concerto spesso trascurano; ancora: sarebbe stato interessante uno studio approfondito del linguaggio radiofonico in rapporto alla spettacolarità. Alla radio, Shakespeare diventa tutto suono, eppure buone realizzazioni radiofoniche hanno saputo costruire spettacoli validi, senza la presenza fisica e senza ausilio di immagini. La radio, che è suono nel senso più ampio del termine, ci fa capire quanto la sonorità stessa ci costituisca.