15 – Luglio ‘85

luglio , 1985

Victor, o i bambini al potere
Il testo di Roger Vitrac ha ormai una sua collocazione nella storia del teatro e della letteratura. I canoni surrealisti lo permeano e alcune sue situazioni teatrali si troveranno in autori successivi. Il grosso limite dei surrealisti, o di coloro che ad essi si rifanno, è quello di essere dei positivisti del mistero: hanno sempre l’aria di sapere tutto e di conoscere quello che c’è oltre il reale, dichiarano di volerlo rivelare, ma poi non ne sono capaci. Proprio per questo rappresentano, per così dire, un’antitesi della psicoanalisi freudiana, di cui sono ingenui orecchianti; infatti, credere nel surreale è una sciocchezza da pseudo-colti. L’inconscio è sempre presente, in ogni opera d’arte; ma i surrealisti sono quelli che lo hanno capito di meno. Victor ha però una sua indubbia efficacia drammatica: un momento della storia e della vita degli uomini è descritto con una potenza coinvolgente. È la storia di un bambino che, nel giorno del suo nono compleanno, il 12 settembre del 1909, acquista una consapevolezza che distrugge e lo distrugge.
Giancarlo Sepe, ha fatto un lavoro quanto mai corretto, creando momenti di eccellente teatro. Certo, era impossibile, di questi tempi, non cadere in suggestioni platealmente psicoanalitiche, anche se quell’enorme culla di veli bianchi, all’inizio, serve a rendere con un’immagine concreta il fluttuare di una realtà che è un sogno e un sintomo allo stesso tempo. Di ogni personaggio il regista ci dà il quadro clinico. Così il padre di Victor risulta una specie di maniaco sessuale, reso con diligente monotonia di accenti da Pini Tufillaro; la madre, una borghese frigida cui presta l’ipocrita maschera Daniela Giordano, giustamente fredda. La coppia degli amici di famiglia sono il delirante signor Antoine, reso con sprazzi di intelligente ironia da Luca Biagini e l’infoiata Thérèse, adultera recidiva e petulante che Anna Maria Pedrini tratteggia con efficace alternanza di durezza e birignao. Il generale e la cameriera sono due caratteri, non essenziali alla vicenda, resi con discreta tecnica recitativa da Stefano Onofri e Valentina Sperlì. La péteuse, Ida Mortemart, nella sua naiveté letteraria, è un personaggio che ha la forza dei grandi ruoli che restano e Rita Di Lernia ha saputo darle un brivido di grandezza drammatica, con pochi, efficaci, tocchi.
Cristina Noci, nei panni vaporosi della bambina Esther, è stata di una bravura notevole, senza sbavature e senza ammicchi grotteschi. Non ci è piaciuto invece Umberto Orsini, che non sappiamo quanto sia sfuggito al controllo del regista. In alcuni punti, amleteggia troppo, anche se ne è consapevole e ci tiene a farlo sapere anche agli altri con quel: Night mother! citato sarcasticamente, che, in questo teatro, fa pensare più a Spoleto l’anno scorso che all’antica regina di Danimarca. C’è poi una cosa che non ci è andata giù: perché, quando decide di fare il bambino, sporge il labbrone e recita con accento cremonese come fa Ugo Tognazzi?
Le scene di Riccardo Buzzanca riportano con una lettura personale le atmosfere del surrealismo (abbiamo apprezzato anche la citazione che Sepe fa tra dada e gran guilgnol con le membra isolate che spuntano dal sipario scarlatto); i costumi di Bruna Parmesan ci paiono tutti riusciti, meno il pigiama del bambino. Le musiche, non originali, a cura del Team Harmonia Garden realizzano in pieno l’obiettivo con la marsigliese forale di grande effetto scenico. Uno spettacolo di grande correttezza professionale che rivela un fare attento e idee non banali.