Psicoanalisi contro n. 15 – I girasoli

luglio , 1985

Ormai non si può più dire che la psicoanalisi sia alla moda: è una acquisizione della cultura del nostro secolo, ha un suo posto ben preciso e saldo nella storia e nella scienza. Non si può neppure più dire che esista una psicoanalisi o la psicoanalisi; le correnti psicodinamiche sono molte, si fondano su teorie spesso diverse tra di loro e hanno metodi di intervento terapeutico per nulla uniformi. Il comun denominatore di tutte le psicoanalisi consiste nel riconoscimento dell’inconscio e nel tentativo di descriverlo. Dire che l’inconscio si possa descrivere sembrerebbe una contraddizione, ma il secondo postulato della psicoanalisi è proprio quello della descrivibilità dell’inconscio. Ogni descrizione dell’inconscio è, sempre, anche un po’ una invenzione: così capita all’oggetto di qualunque scienza. Il complesso degli astri o la intrinseca struttura della materia sono frutto di una descrizione che anche li inventa. Proprio per questo, la scienza non è immobile: la verità non è mai stata detta una volta per tutte, ciò che era vero ieri oggi non lo è più, e domani altri diranno altro. La ricerca umana non si può arrestare, nonostante i sistemi, i dogmi, i roghi e le inquisizioni.

L’inconscio, però, trascende, sempre, ogni sua descrizione: affonda nel mistero, come nel mistero affonda il significato della vita. Coloro, che con ansia rabbiosa, sostengono che non esiste l’inconscio, ne dimostrano l’esistenza proprio con la loro ansia e con la loro rabbia. Per qualche ragione inconscia, essi hanno paura dell’inconscio, e, di conseguenza, hanno paura della psicoanalisi, di qualunque psicoanalisi, perché hanno paura di ciò che nell’inconscio si nasconde. Per lo più sono i desideri che spaventano; sembra strano, ma è così. Sono molti, anzi troppi, i desideri che mettono ansia, ma nonostante ciò essi urgono, spingono per manifestarsi, per realizzarsi. Ogni volta che incontro qualcuno, che con pochi o con tanti strumenti culturali, aggredisce la psicoanalisi, io mi domando sempre da che cosa si difenda e quali siano i desideri che vorrebbe allontanare da sé.

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Le accuse che si fanno alla psicoanalisi sono state e sono molte; una delle più diffuse è che la psicoanalisi non sia una scienza perché non si basa su ricerche di laboratorio e su esperimenti. Questa asserzione dipende da una concezione della scienza quanto mai antiquata e settoriale: allora bisognerebbe espungere dal complesso delle scienze anche l’antropologia e la matematica pura, che non usano laboratori di ricerca scientifica tradizionali e i cui esperimenti sono quanto mai anomali. La scienza è soprattutto, e forse esclusivamente, ricerca. La ricerca deve inventare continuamente nuove metodologie, che servano ad affondare sempre più lo sguardo nel mistero. Gli oggetti su cui ogni scienza indaga acquistano però caratteristiche conseguenti al tipo di metodologia usata. Lo scetticismo anti﷓dogmatico è quanto mai utile ad uno scienziato: gli permette di non chiudersi e di non ripetere sempre formule che diventano sterili giaculatorie. Solo coloro che hanno il coraggio di andare ancora avanti, costruiscono nuove verità, perché scoprono nuovi terreni inesplorati.

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Altri, pur non rifiutando gli assunti teorici della psicoanalisi, se ne difendono attribuendole uno strano potere fascinatorio, che sarebbe particolarmente pericoloso nel rapporto terapeutico. Costoro dicono che la psicoanalisi passivizza, e affermano, nella loro ingenua saggezza, che i problemi uno se li deve risolvere da solo, con la sua forza di volontà e che non bisogna delegare un altro.
Lo psicoanalista è percepito come un individuo minaccioso e la sua tecnica è considerata pericolosa quanto una potente droga. A sostenere questa teoria, per lo più, sono persone estremamente dipendenti: dalla moglie, dal marito, dalla madre, dagli amici, dai superiori, dai figli, quindi è comprensibile che abbiano paura della loro stessa facilità a diventare dipendenti. Questa loro paura esprime anche il timore che qualche cosa possa renderli indipendenti, perché la psicoanalisi è soprattutto un mezzo per acquistare un po’ di autonomia. Certamente la indipendenza assoluta non ci sarà mai: nessun uomo è libero dai sottili intrighi che la vita gli tesse. L’essere umano si forma lentamente nel ventre della madre e, fin d’allora, emozioni e suggestioni, più o meno filtrate, entrano in lui e lo costruiscono. Il bambino riceve, dagli adulti, stimoli e suggerimenti che lo coinvolgono; ma egli è alla ricerca di una sua individualità. Il neonato non è più dipendente dagli altri di un adulto, semplicemente, la sua dipendenza ha caratteristiche peculiari. Gli altri ci influenzano continuamente, se così non fosse, non solo sarebbe triste vivere, ma sarebbe anche impossibile. L’unica indipendenza che l’essere umano può sperare di raggiungere è quella della comprensione. Prendere coscienza significa capire un po’ le motivazioni dei nostri comportamenti. Se poi i meccanismi di condizionamento ci tolgano del tutto il libero arbitrio non sarà mai possibile scoprirlo.

Qui, sul foglio di carta, non si capisce; ma, dopo l’ultima frase che ho scritto, mi sono alzato e sono andato a bere: ho aperto il frigorifero e ho riempito il bicchiere di acqua leggermente frizzante, ho bevuto, lentamente, assaporando il piacere di quelle fresche bollicine che mi titillavano il cavo orale e poi la gola. Adesso sono di nuovo qui, nel mio studio che scrivo: avrei potuto non alzarmi e non andare a bere? Per esserne certo, uno sperimentatore dovrebbe farmi tornare indietro nel tempo e ripormi nell’istante in cui ho scritto: «Se poi i meccanismi di condizionamento ci tolgono del tutto il libero arbitrio non sarà mai possibile scoprirlo». E verificare così se avrei potuto resistere al leggero impulso della sete. Credo che questo sia un esperimento molto difficile a realizzarsi. Ma, allora, io credo negli esperimenti? Certo, io sono uno scienziato. E come tutti gli scienziati sono anche un po’ sciocco e frivolo.

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Un po’ di tempo fa, venne alla moda, tra coloro che ideologicamente si ritengono appartenenti a quello strano magma umano che si chiama sinistra, una affermazione quanto mai balorda, che diventò subito uno slogan: «La psicoanalisi è una scienza borghese». Questa frase riflette la più ottusa imbecillità difensiva. È umano avere paura dei propri desideri ed anche delle novità, ma è eccessivo diventare così sciocchi. Il rifiuto non si riferiva infatti alla psicoanalisi come teoria freudiana, ma alla psicologia dinamica, nel suo insieme. Bisogna riconoscere che nel pensiero del grande viennese esiste una visione del mondo, una concezione dell’uomo, una teoria della scienza e quindi anche una visione dell’intervento terapeutico che dipendono dalla sua cultura ed anche dalla classe sociale cui apparteneva. Ma Freud ha detto cose meravigliose che possono essere usate contro gli stessi fondamenti della società che egli rappresentava e che pensava di sostenere. Inoltre, far coincidere la «psicoanalisi» con il pensiero freudiano, dimostra una povertà spirituale e culturale sconsolante. Non si può e non si deve ridurre l’indagine sulle dinamiche psichiche a quelle teorizzazioni. La ricerca è proseguita, si è evoluta e si è sviluppata.

Nei confronti del disagio mentale, secondo me, hanno senso solo due atteggiamenti: il primo, che io considero politicamente e moralmente empio, cui però riconosco una certa coerenza interna, è quello di chi si astiene da ogni intervento terapeutico, dicendo: «Io mi rifiuto di curare perché non voglio manipolare gli altri. Non voglio intervenire sulle angosce, sul malessere e sulle scelte di un altro». Allora, chi assume questo atteggiamento, dovrebbe, però, essere coerente e non solo non dovrebbe curare il disagio psichico ma neppure quello cosiddetto organico: dovrebbe non curare mai. Questa distinzione fra psiche e soma ha per me troppo il sapore di una vecchia metafisica che distingue l’uomo in anima e corpo. A costoro dico che si deve intervenire, che si deve curare, perché curare vuol dire: prendersi cura, lottare con, lottare per. L’altro atteggiamento, è quello di chi si assume la responsabilità di curare, ma rispettando il più possibile la dignità e l’autonomia di colui che viene curato. La terapia è sempre violenza, è inutile pensare di essere un terapeuta non violento. Ci sono però modi diversi di manipolare l’altro, psichicamente o fisicamente: lo si può aggredire con scariche elettriche, con dosi massicce di farmaci, o con interventi più o meno approssimativi, senza mai spiegargli nulla, senza mai discutere con lui. Oppure si può affrontare la cura, decidendo insieme. Indubbiamente il terapeuta avrà in mano strumenti che il paziente non conosce, ma che può imparare a conoscere e può imparare a gestire. Il paziente deve essere ascoltato, anche nelle sue supposizioni assurde e bizzarre. Guai se la cura viene calata dall’alto come una violenza incomprensibile. La lotta contro la sofferenza deve essere fatta in due. Questo è proprio l’atteggiamento della cosiddetta psicoanalisi: la terapia consiste nel far prendere coscienza, nell’aiutare l’altro a liberarsi dalla propria paura di capire il perché del disagio, permettendogli di imparare a gestirlo ed anche a sconfiggerlo. Questo, secondo me, è l’unico tipo di cura civile. Allora, coloro che rifiutano l’atteggiamento psicoanalitico, ma non ritengono giusto non intervenire cosa scelgono? Ognuno tragga le proprie conclusioni.

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L’ultimo atteggiamento difensivo nei confronti della psicoanalisi, di cui voglio parlare, è quello che spesso vedo mettere in atto da un gruppo di persone, non molto numeroso, ma che ha un grosso significato nella nostra cultura: il gruppo degli artisti. Io non so bene cosa sia l’arte, quindi non so bene chi siano gli artisti, però esistono persone che si qualificano come tali; io, ad esempio, ritengo di essere un artista, lo sono ed ho le carte in regola: tanto è vero che sono iscritto alla Società Italiana Autori Editori, perché compongo musica e scrivo per il teatro. Più sopra, ho detto che sono uno scienziato, forse dovrei decidere cosa voglio essere. Ma perché, se scrivo un quartetto d’archi, lo debbo fare sentendomi un dilettante, oppure debbo sentirmi uno scienziato poco serio, se voglio considerarmi un vero artista? Io sono io e so fare quello che so fare: se lo faccio bene meglio per me. Molte persone che si dicono artisti, affermano che la psicoanalisi è pericolosa perché rende sterili; può risanare da una sofferenza psichica, ma manda perduta poi la ricchezza della creatività. Lucrezio, Tasso, Schumann, Van Gogh erano matti, chi sa cosa avrebbero scritto o prodotto, se fossero stati curati da uno psicoanalista che li avesse resi tranquilli e pacati signori con moglie e figli e un posto sicuro. Anch’io ho avuto paura che la psicoanalisi distruggesse la mia creatività; ma, poi, addentrandomi nei meandri del mio inconscio e dell’inconscio altrui mi accorsi di quanto ero stato ridicolo in questa mia paura. Io non credo che l’arte coincida con la follia, io non penso che l’arte coincida con qualche cosa. L’arte è l’arte e basta, coincide con se stessa, è la voglia dell’uomo di comunicare fantasie, sogni, emozioni; di raccontare agli altri la propria storia anche per aiutarli. Aiutarli a che cosa? A capire. Allora l’arte coincide con la psicoanalisi?

L’arte non coincide con la psicoanalisi, e di ciò sono profondamente convinto. Io so che la psicoanalisi ha alcuni aspetti che la avvicinano all’arte, perché so che l’arte scaturisce dall’inconscio degli uomini, del singolo e della collettività. Indubbiamente ci sono teorie psicoanalitiche che impoveriscono l’uomo e tecniche terapeutiche che castrano e che sono pericolose non solo per l’artista, ma per l’essere umano in generale. Se la psicoanalisi però, oltre che essere un approccio all’inconscio, serve a rendere l’uomo più sano, essa è profondamente utile all’artista e all’arte. Gli artisti non solo possono essere sani, ma debbono cercare di esserlo. È per un gesto sano che Lucrezio ha scritto il De rerum natura, Tasso ha scritto la Gerusalemme liberata, Schumann la sinfonia Renana, e Van Gogh ha fatto nascere i girasoli. La loro salute consisteva nella capacità di capirsi e di comunicare; il loro disagio e la loro sofferenza debbono essere rispettati, come si deve rispettare ogni sofferenza. Ma, se uno psicoanalista li avesse curati, avrebbero fatto quello che hanno fatto, prodotto quello che hanno prodotto? Con i se non si fa la storia, neppure la storia dell’arte.