15 – Luglio ‘85

luglio , 1985

La fanciulla del West
L’opera che ha aperto, al Teatro Nuovo, per la ventottesima volta, il Festival dei Due Mondi è stata La Fanciulla del West. Tra le opere famosissime di Giacomo Puccini, questa non è quella che ha goduto il maggior favore del pubblico e della critica passata e presente. Dopo la trionfale serata dell’esordio al Metropolitan di New York, il 10 dicembre del 1910, sono incominciate quasi immediatamente le perplessità che ancora permangono.
Ciò che a tutti apparve evidente fin da subito è la poca maestria che si ritrova nella stesura del libretto, che, pur volendo essere astuto, risulta invece assai ingenuo, perché lascia allo scoperto tutti i trucchetti tecnici e di contenuto cui fa ricorso per apparire convincente: Zingarini prima e Civinini poi, manipolarono molto l’originario drammone di David Belasco. L’azione prende le mosse nel «saloon» La Polka, locale di evasione per uomini soli, in un campo di cercatori d’oro, sulle montagne della California, diretto dalla bella Minnie, la quale, oltre a procurare whisky e divertimento a quei poveretti, costretti a vivere lontano da casa, li edifica con la lettura di passi della Bibbia e custodisce in un barile i loro risparmi. I rudi uomini sono ovviamente tutti innamorati di lei, e più di tutti lo è lo sceriffo Jack Rance. Improvvisamente giunge uno straniero, che dice di chiamarsi Dick Johnson, ma in realtà è il bandito Ramerrez, lì giunto col proposito di rapinare i cercatori, del prezioso barile.
La bella e il bandito si amano a prima vista, suscitando la gelosia dello sceriffo. La vicenda si sposta poi nella capanna di Minnie, dove un colloquio tra i due innamorati è interrotto dagli uomini che cercano Ramerrez. Non trovano l’uomo che si è precipitosamente nascosto dietro un paravento. Lo sceriffo, che è entrato con loro, convince la ragazza che il bandito non l’ama, ma che vuole servirsi di lei. Minnie allora scaccia Ramerrez che, però, ferito, torna poco dopo a bussare alla sua porta. Lei, commossa, lo riaccoglie e lo nasconde in soffitta. Torna anche Rance, sulle tracce del bandito e alcune gocce di sangue che filtrano dall’alto gliene rivelano la presenza. Disperata, Minnie, propone allo sceriffo una partita a carte la cui posta saranno i suoi favori contro la libertà per il bandito, la ragazza bara e vince; ma Johnson-Ramerrez viene ugualmente catturato dagli altri del campo. Mentre stanno per impiccarlo, sopraggiunge Minnie, che perora la sua causa e ottiene dai cercatori, commossi, di potersene andare con lui.
Gli ingredienti del libretto sono però tantissimi: molti di più di quanti non appaiano da questa sintesi della trama. Il protagonista unico di quest’opera è, in realtà, l’orchestra, che prevale su tutto, mentre il canto, anche nei momenti più felici, è pleonastico e talvolta dà addirittura fastidio. Ciò non solo perché i versi sono stucchevoli, Minnie un personaggio ridicolo e anche gli altri personaggi sono convenzionali; ma proprio perché la concezione musicale di questa opera fa della vocalità un orpello inutile; il canto è solo un melodiare spezzato ed eccessivamente ripetitivo, che desta anche irritazione. L’orchestra dice tutto quello che c’è da dire: gli impasti sonori sono variati in continuazione, non soltanto per l’uso di strumenti insoliti come la macchina del vento, il vibrafono e il fischietto – che pur sono usati in modo magistrale -, ma proprio per il tessuto armonico che incastona melodie, ora lunghe, ora brevi, che ritornano a proporre, con la loro presenza, le splendide battute di un lungo monologo. Le tonalità si susseguono caleidoscopicamente: si odono qua e là leggere dissonanze, appena accennate, poi suggestioni non diatoniche, ritmi di danza popolareschi che acquistano la preziosità degli antichi balli nelle «suites» barocche.
È giusto che Puccini abbia voluto una grande compagine orchestrale, per poter giocare indefinitamente con timbri e coloriture che si susseguono e si dipanano ininterrotti. Che importanza ha quello che si canta sulla scena? La stupidissima partita a carte, per esempio, è pienamente ed esaurientemente raccontata dall’ossessivo pulsare dei timpani, che ricorda il battito di un cuore. Vi sono melodie cantate ora tratte dal folclore americano, ora inventate, che acquistano un reale significato solo quando sono ripetute dall’orchestra. La ricerca, dal punto di vista del linguaggio musicale, non è – come spesso si è detto – particolarmente ardita; ma è piuttosto come se Puccini ripensasse a se stesso, giocando con la fantasia e con i propri ricordi. Si dice anche che il musicista abbia voluto descrivere soprattutto atmosfere; ma queste si realizzano non tanto nella scena farraginosa quanto nello splendore orchestrale.
Indubbiamente si sentono suggestioni di Debussy e Strauss; ma anche di Wagner: il momento dell’arrivo in scena di Minnie al terzo atto è fin troppo wagneriano! Per noi, questa è la grande opera strumentale di Giacomo Puccini e non ci pare contraddire questa nostra opinione la considerazione che, mentre appare inutile la vocalità dei solisti è invece splendido l’impiego del coro virile, dalle sonorità ora secche, ora sensuali, ora struggenti e malinconiche, che risultano efficacissime anche per il fatto che non si capiscono le parole. Christian Badea pare aver compreso tutto questo anche troppo bene: ottimo l’inizio, irruento e appassionato; abbiamo sentito, nel leggero indugiare ritmico, una punta di ironia che ci avrebbe fatto piacere risentire anche in altri momenti: così non è stato, eppure nella partitura orchestrale di ironia ce n’è parecchia! Il direttore ha saputo però non mandare perduto nessun altro possibile effetto. L’orchestra dello Spoleto Festival era abbastanza precisa, benché suonasse sempre un po’ troppo forte.
I cantanti, intanto, sulla scena, chissà perché, cantavano.
Non ci è piaciuta la Minnie del soprano Anne-Marie Antoine, dal timbro giusto per una rozza fanciulla che conduce una vita non certo facile, ma con alcune pesantezze bovine veramente eccessive e qualche imprecisione nell’intonazione; la sua recitazione non sufficientemente disinvolta si sforzava di rendere credibili situazioni non sempre verosimili.
Grigio, il Johnson-Ramerrez del tenore Maurice Stern, più adatto ad impersonare caratteri borghesi che non un rude brigante; spesso sopraffatto dalla prorompente voce di Minnie, ha saputo trovare accenti di giusta intensità solo nell’aria famosa: «Ch’ella mi creda libero e lontano….».
Il migliore è stato, secondo noi, senz’altro, il baritono Benito Di Bella: voce calda e vibrante, dal fraseggiare accurato e dalla convincente presenza drammatica. Il Nick del tenore Jonathan Green ci è parso il più valido fra tutti gli altri.
Un plauso meritano poi i giovani del Westminster Choir, guidati da Glenn Parker, i quali con le loro belle voci e la vitalità scenica hanno ravvivato sia l’aspetto musicale, sia quello teatrale.
La regia di Bruce Beresford ci è parsa poco capace di affrontare l’impresa della realizzazione di un’opera lirica, tanto da lasciarsi scappare un’eccessiva rumorosità in scena, tale da disturbare persino l’ascolto della musica. Benché abbia avuto il pregio di non cadere nella trappola di fastidiose ricostruzioni moderne, oggi tanto di moda, e abbia cercato di rispettare gli autori, pure, forse condizionato da esigenze di realismo cinematografico, ha finito per rendere un po’ ridicola la situazione, trasformando il saloon in un postribolo, in cui l’improbabile «maitresse» legge ai clienti le Sacre Scritture; e poi non siamo riusciti a capire perché non abbia fatto arrivare Minnie a cavallo nella scena dell’ultimo atto: poco sostenibile ci è parso infatti quel suo arrivo a piedi, dopo che il canto l’aveva così wagnerianamente preannunciata quale galoppante Walchiria!
Le scene e i costumi di Ken Adam sono stati una lettura accattivante e un po’ scontata di una storia «western», dalle grazie rudi e manierate ad un tempo, che ha avuto piacevoli intuizioni soprattutto nella scelta di luminosità e colori.
Uno spettacolo che, a ben considerare, ci è parso un po’ sgangherato, malgrado il grosso sforzo esteriore di «apparato»; in ogni caso al di sotto di quella che è la miglior tradizione del Festival.

Opera Kun di Nanchino
Dei tre spettacoli della Kun Opera di Nanchino, al Caio Melisso, scegliamo di parlare di quello costituito da tre brani di antico teatro dell’epoca Ming; non perché sia questo lo spettacolo più significativo, ma perché lo abbiamo vivo nella memoria, avendolo appena visto. Si impongono due considerazioni generali: la prima è che riesce molto difficile giudicare spettacoli che sono espressione di una cultura così lontana, non solo nello spazio, ma anche nel tempo; del resto è pure difficile per un europeo comprendere appieno le commedie di corte del Rinascimento, se non dispone di un buon retroterra culturale. La seconda considerazione è che questo tipo di teatro è, a nostro parere, in assoluto, il migliore che possa esistere, per il modo in cui è concepito: gli attori del teatro cinese recitano, cantano, danzano, mimano, suonano, e i linguaggi dei gesti, della musica e degli effetti sonori si intrecciano con la recitazione, senza sforzo, come presenze costanti stanti e indispensabili. Le tre storie che abbiamo visto avevano contenuti e atmosfere assai diversi tra loro. Nella prima: Quindici Guan, un prefetto, travestito da indovino, induce un ladro a confessare la sua colpa. Nella seconda: Il risveglio dell’amore, nasce, in un convento, l’amore tra un giovane e una monaca. Nella terza: La morte della tigre e il corteo trionfale, un cavaliere ubriaco uccide una tigre e ricava onori dall’impresa.
Le ambientazioni erano essenziali: due tappeti e pochi oggetti in scena, i costumi caratterizzavano fortemente i personaggi e lo sguardo seguiva con attenzione i gesti di un codice molto articolato e preciso, anche negli ammiccamenti e nelle acrobazie. Le orecchie ascoltavano una musica di cui era evidente la logica interna, senza però che noi fossimo in grado di farne una esauriente analisi strutturale. Le voci, nel canto, ma anche nella recitazione, esprimevano una melopea variamente accentuata: intervalli di quarta, terza e, più raramente, quinta si alternavano spesso nell’arco di un ottava e noi non sappiamo se ciò avesse qualche significato particolare.
Nonostante lo sforzo di attenzione che richiede, pensiamo che sia uno spettacolo di indubbio interesse e che lascia tracce nel ricordo.