15 – Luglio ‘85

luglio , 1985

Gnoli
A Palazzo Ràcani Arroni, quasi sulla piazza del Duomo, si è aperta martedì 25 giugno la mostra antologica di Domenico Gnoli, organizzata da Bruno Mantura, con un catalogo curato da Mario Quesada.
Domenico Gnoli è nato a Roma nel 1933, il padre era uno storico dell’arte e la madre una artista che si è occupata anche di ceramica; ma un po’ tutta la famiglia è sempre stata interessata alle cose dell’arte, in particolare, sono noti, come letterati, lo zio Tommaso e il nonno Domenico. Ebbe la sua prima mostra personale nel 1950. Decise poi di occuparsi di scenografia teatrale e dopo alcune esperienze In Italia sfondò all’Old Vic di Londra nel 1955 con le scene ed i costumi per una edizione di As you like it di Shakespeare. Stancatosi anche del teatro tornò da autodidatta alla pittura e visse tra Londra, New York, Parigi e Roma in un ambiente artistico e snob; il lancio mondano gli assicurò collaborazioni ad importanti riviste come illustratore. Nel 1964 si presentò come pittore a Parigi con grandi tele in acrilico, tutte raffiguranti oggetti visti con ottica particolare, esasperati e ingranditi con una tecnica cui non è estranea l’influenza dell’arte pop americana. Uomo di successo, ma artista in conflitto tra il mestiere di illustratore che gli rubò tempo prezioso e il proprio lavoro di pittore, morì a New York nel 1970.
L’esposizione di Spoleto raccoglie 26 dipinti del periodo tra il 1964 e il 1969 e oltre un centinaio di documenti dell’opera grafica e scenografica dell’artista, dal 1950 fino alla morte.
Il mondo estetico e poetico di Gnoli è compatto e organico. Si nota, ovviamente, una evoluzione: mutamenti, acquisizioni, suggestioni, che si stratificano; però tutto sembra al tempo stesso, coerente. Non sappiamo quale senso possa avere distinguere troppo tra le opere cosiddette pittoriche e quelle grafiche o scenografiche: tutte sono unite da quel comune denominatore che è la voglia di guardare da un altro punto di vista; una voglia che è macroscopicamente evidente nei grandi quadri dove è persino troppo scoperta e, talvolta, superficiale o ingenua; mentre, nelle opere grafiche l’altro punto di vista non tanto si realizza attraverso la prospettiva sghemba, il taglio inconsueto dell’immagine, il particolare troppo ravvicinato, quanto attraverso modi di vedere o di inventare realtà inconsuete e fantastiche. In ogni sua opera si avverte l’ossessivo terrore di cadere nel banale e lo sforzo per non esserlo. La suggestione della pop-art è molto superficiale e, in fondo, neanche i grandi maestri del Rinascimento italiano lo influenzano così tanto quanto egli stesso voleva far credere. In Gnoli il gioco dell’arte si completa e si esaurisce entro una fantasia rococò: non la spessa profondità barocca e neppure la magniloquenza euritmica del neo-classicismo, ma la tenerezza lieve di una galanteria vagamente onirica. I suoi quadri, a dire il vero, non ci piacciono troppo: li troviamo così ovvii nella loro voglia di accompagnare lo sguardo in una visione diversa, che risulta però scontata tanto è ripetuta, non solo da lui, in quello stesso periodo, prima e anche dopo.
Cassetti aperti, poltrone, letti e materassi, colletti, cravatte e ricci, asole sbottonate e cerniere lampo mal chiuse si esauriscono in un gioco fine a se stesso, dopo che l’affermazione programmatica è stata fatta. Opere cui nel complesso manca nerbo, come càpita a certe brevi melodie, sempliciotte, accompagnate con tonica e dominante. Non che sia sempre da pretendere il contrappunto, ma almeno qualche modulazione.
Preferiamo decisamente quel Domenico Gnoli, sconosciuto, crediamo anche a se stesso, che sbuca improvvisamente, con intensa vena caustica eppur dolce e accattivante, di sapore govoniano, capace di una osservazione tradizionale; dal carattere psicologico preciso di chi ha una schiettezza di fondo e molta voglia di lavorare, malgrado una grande paura del mondo. Ci riferiamo ad annotazioni intime, come la Madonna sottovetro nel Man by the win dow (Uomo alla finestra), 1963; o le chine e acquerelli della serie di illustrazioni per il Barone rampante del 1957 e quelle per Orestes or the art of smiling (Oreste o l’arte di sorridere), 1960. Anche in, teatro Gnoli ha saputo accennare a una sua capacità di esprimere cose importanti, proprio perché la scenografia è una pittura mobile per cui non è necessario, anzi è impossibile, imporre un punto di vista. Consigliamo di vedere la mostra senza farsi condizionare dai giudizi della critica ufficiale, che troviamo frivoli e inessenziali, andando alla scoperta del proprio Gnoli, quello con cui è possibile un intimo dialogo.

Faruffini
Martedì 25 giugno, poco prima di mezzogiorno, siamo entrati nelle fresche sale dell’appartamento Piccolomini, alla rocca del cardinale Albornoz, per l’inaugurazione della mostra dedicata a Federico Faruffini e alla sua opera di pittore e di fotografo.
Dopo il caldo della lunga ascesa, ci siamo immersi con estremo interesse in questa bella mostra che, sebbene, come lamentano gli organizzatori, manchi di alcune opere fondamentali, riesce a dare una visione completa ed esauriente di un percorso artistico, tecnico e spirituale di un uomo sicuro e incerto allo stesso tempo, un artista che non riesce ad avere uno stile proprio, ma che è sempre lì sul punto di conquistarlo.
Federico Faruffini nacque a Sesto S. Giovanni nel 1833 da una famiglia borghese che gli fece compiere prima studi filosofici e poi giuridici a Pavia; dedicatosi alla pittura fu allievo di Giacomo Trécourt prima, poi di Gricoletti a Venezia e Bertini a Milano. Amico della famiglia Cairoli visse da vicino l’epopea garibaldina; dopo soggiorni a Torino, Milano e Roma si trasferì a Parigi, dove partecipò all’esposizione del 1866 e del 1867, anno in cui tornò in Italia e si trasferì a Roma.
Dopo il matrimonio decise di dedicarsi alla fotografia, senza riuscire a trovarvi soddisfazione. Nel 1869 realizzò il gesto del suicidio (già tentato e fallito con un tuffo nel Tevere due anni prima) e morì dopo aver bevuto del cianuro di potassio, a Perugia, dove si era nel frattempo trasferito con la famiglia e la figlia Teresa nata da quasi un anno.
Lo sforzo di Faruffini artista di esprimersi e di comunicare è enorme: il suo linguaggio è sempre affannoso. Lasciandoci andare ad un banale semplicistico biografismo, diciamo che il suicidio che pose termine alla sua breve vita è stata l’ovvia conclusione di un’esistenza passata solo attraverso conflitti, senza che sia mai riusciti ad avere, né dentro né fuori di sé, validi punti di riferimento. Guardare il mondo, volerlo cogliere, volerlo comunicare agli altri, è pericoloso: l’artista, come lo psicoanalista, può perdervisi, impazzire, esplodere, morirne. Un artista, o uno psicoanalista, hanno il dovere di capire il mondo e debbono anche saperselo inventare, altrimenti il mondo li sopraffà. Nel complesso dell’opera di Faruffini, il mondo non ha sempre la meglio; spesso l’artista riesce ad imprigionarlo ed inventarlo, pur in mezzo ad accademismi, titubanze ed ingenuità. Una pittura piena di luci, colori, ricordi di maestri più o meno remoti; ma una pittura che rivela anche l’assenza di un maestro che sia possibile amare totalmente, che sia possibile, magari, contraddire. Gli autodidatti in amore non saranno mai grandi artisti! Perché, però, secondo noi, Federico Faruffini è un valido e stimolante artista? Perché in lui la ricerca di questo amore è continua e presente, come rivela uno dei più bei quadri della mostra: L’amore del poeta. Sordello e Cunizza, contessa di S. Bonifacio. Il quadro è suddiviso in due scene, di cui una è una specie di lunetta superiore, dove, su fondo oro, si stagliano le figure di Virgilio, Dante e Beatrice; e l’altra, di grandi dimensioni e con taglio verticale, raffigura Sordello inginocchiato che bacia la mano di Cunizza, in un giardino fiorito e reso un po’ finto dalla maniera di rappresentare il carattere medioevale dell’ambiente e dei personaggi. Al di là della delicatezza romantica con cui sono ritratte le due figure centrali ed una atmosfera quasi preraffaellita che domina su tutto, ci pare di poter leggere una vicenda artistica e spirituale appassionata in quelle tre piccole figurette scure in alto, in cui conscio ed inconscio si mescolano, come si mescolano presente e passato della storia e della poesia, dell’amore e dell’arte.
Faruffini tentò anche un rinnovamento del quadro di genere storico, senza però troppo riuscirvi, eccetto forse che nella dichiarazione corale ed antieroica della Battaglia di Varese, non presente a Spoleto. Essenziale è il suo uso del colore e della luce, che si accordano per costruire immagini che raccontano sempre un avvenimento: sia un Convegno amoroso o la Romanza sul Ticino in cui la narrazione è più ampia, sia la Natura morta con frutta oppure la Natura morta con ortaggi, dove la vivacità dei colori, il gioco delle ombre, la disposizione delle forme si fanno racconto essenziale. A volte prevale una teatralità esplicita come nella Annunciazione o ne L’estasi di S. Teresa dove l’incorniciatura che scompone le piccole composizioni nelle forme del dittico, scandisce in due tempi la narrazione degli episodi. C’è un rapporto ambiguo di Faruffini con la figura femminile: l’unico quadro forse noto al grosso pubblico, La lettrice o Clara ritrae una giovane signora borghese, ben assestata nel suo privilegio culturale e sociale, che legge un libro, seduta in poltrona, tenendo nella mano sinistra una sigaretta, con un gesto che è di conquista e di provocazione, ed è vista dal pittore con sguardo di ammirata timidezza. Ma l’ammirazione timida si trasforma e si scatena altrove in fantasie morbosamente aggressive: La morte di Ofelia, che affoga in un trionfo di colori di una natura decisamente allegra; davanti alla sua morte L’assassinata, riversa sui gradini della chiesa, in un inutile elaborato atteggiamento melodrammatico; o La vergine al Nilo, statuaria bellezza che galleggia sulle acque del fiume, dimenticata da una folla intenta alla celebrazione di un rito che non la riguarda. Insistere troppo sull’aspetto veristico della ricerca pittorica di Faruffini, ci pare scorretto; oltre tutto noi siamo convinti che il verismo, in arte, non sia mai esistito – e non solo nell’arte figurativa -; ma qui fino all’ultimo, sono tante e tali le suggestioni che si sovrappongono che l’aspetto oggettivo della descrizione della realtà è praticamente assente. Questo disinteresse per il realismo è poi rivelato dalle fotografie: bruttine nel loro tentativo di non essere solo fotografiche. La mostra è stata allestita per il Festival da Bruno Mantura ed ha goduto della collaborazione della Regione Umbria e del Ministero dei Beni culturali e ambientali. Il catalogo è J a cura di Anna Finocchi, alla cui grazia e intelligenza siamo debitori anche del piacevole spettacolo di buona cultura non saccente che ci ha offerto con il suo commento durante la visita inagurale alla mostra.

La Radio, storia di sessant’anni
È giunta a Spoleto, nella Chiesa di San Nicolò, la mostra la Radio, storia di sessant’anni, reduce dall’esposizione di Torino, patrocinata dalla RAI con la collaborazione del Comune di Spoleto e del Festival dei Due Mondi. La ricerca del tempo perduto è sempre coinvolgente, per cui ci si addentra volentieri nella babele di suoni che escono dai riproduttori messi al centro delle vetrine rotonde, sistemate a coppie per ricordare le cuffie delle prime radio a galena da cui la radiofonia prese le mosse. Ad ogni coppia di altoparlanti corrisponde un periodo di quella particolare vicenda sonora che è stata la radio in Italia. Che la radio sia stata una presenza importante è persino troppo ovvio, perché lo si debba ripetere; oggi la televisione le ha sottratto forse alcune funzioni importanti e ne ha diminuito l’ascolto, ma la sua presenza rimane continua. Oltre ai documenti sonori sono esposte anche apparecchiature che in un periodo relativamente breve hanno acquistato un sapore archeologico e quindi fa piacere oltre che ascoltare, anche guardare e toccare, meglio se non seguendo proprio il proposto itinerario cronologico. Riteniamo che questa sia una mostra interessante e valida, pensiamo però che gli allestitori siano stati eccessivamente timidi e forse depressi, per cui è mancato il coraggio di prendere quest’occasione per esaltare l’importanza reale della radio. Va bene far sentire le dichiarazioni di guerra dalla voce del Duce, o la cronaca della partita contro la Germania che ha dato all’Italia il campionato del mondo o lo stralcio di un giornale radio o di una trasmissione di varietà; ma limitando la radio alla parola si è, per esempio, trascurata la sua importanza per la cultura musicale: dalla costruzione degli auditorium di Torino e di Roma, ai concerti in diretta, alla promozione dei giovani esecutori e della musica contemporanea che le sale da concerto spesso trascurano; ancora: sarebbe stato interessante uno studio approfondito del linguaggio radiofonico in rapporto alla spettacolarità. Alla radio, Shakespeare diventa tutto suono, eppure buone realizzazioni radiofoniche hanno saputo costruire spettacoli validi, senza la presenza fisica e senza ausilio di immagini. La radio, che è suono nel senso più ampio del termine, ci fa capire quanto la sonorità stessa ci costituisca.