Psicoanalisi contro n. 15 – Le terzine della salute

luglio , 1985

Da sempre, si parla dell’influenza che l’arte esercita sulla psiche e, basandosi su quest’influenza, c’è chi ha pensato di usare una o più espressioni artistiche in psicoterapia.

La più nota e la più pubblicizzata, è quella che va sotto il nome di musicoterapia; ma anche il disegno, la danza, la rappresentazione di scene teatrali vengono usati come mezzi terapeutici. Servendosi dell’espressione artistica, un essere umano può liberarsi di molte inibizioni, sbloccare nodi intricati della personalità, sciogliere sintomi; in poche parole: ritrovare maggior armonia con il proprio corpo e l’ambiente.
C’è un uso più attivo che consiste nel chiedere al paziente di esprimersi cantando, danzando, suonando, recitando; e c’è un uso più passivo che propone al paziente l’ascolto di musica, l’osservazione di figure e colori, o che lo invita ad assistere a forme di spettacolo allestite da altri. In ogni caso, anche quando la proposta è di fruizione passiva, il tutto viene sempre montato con uno scopo preciso: quello di curare; di aggredire, cioè, i sintomi patologici, per aiutare l’individuo a liberarsene. Tutte queste tecniche, se pur estremamente civili e umane, non sono però, nel loro fondamento, molto lontane dal principio del condizionamento imposto dall’esterno. Infatti sono, in ultima analisi, parte di quel sistema di interventi coercitivi quali gli elettroshock, i bombardamenti psicofarmacologici, i condizionamenti comportamentistici, etc.
Invece, a mio avviso, le sole tecniche corrette di intervento sono quelle basate sul rispetto della persona e sulla ricerca delle motivazioni del disagio. Questo solo può essere il fondamento di un corretto agire terapeutico che porti verso la salute; gli altri metodi, che non si fondano sulla presa di coscienza e sulla gestione comune della cura tra terapeuta e paziente, sono sempre esproprianti e, tutto sommato, castratori.
Il ricorso a queste tecniche che sopraffanno il paziente può rendersi però inevitabile. Io sono contrario alla demonizzazione dei farmaci (e degli psicofarmaci in particolare) che sono spesso guardati con orrore dagli psicoterapeuti, come se in questi stesse la fonte di ogni male. È solo l’uso acritico dei farmaci che danneggia seriamente ogni possibilità di una buona terapia: quando sono imposti dal terapeuta ed esprimono quindi il rifiuto a prendere in considerazione la problematica esistenziale del paziente.
Se rimane però chiaro che il fine della cura è l’acquisizione della consapevolezza dell’insieme delle cause patogene, può essere lecito anche l’uso di qualche elemento chimico che possa aiutare il paziente — si badi bene: aiutare, non ottundere o reprimere —. Perché allora escludersi le possibilità messe a disposizione dalla ricerca scientifica?

Io ho fatto ricorso alle tecniche dell’arte, particolarmente mi sono servito della musica, nel tentativo di intervenire con persone disturbate anche in modo grave: i cosiddetti matti.

Ho fatto loro ascoltare musica, ho cercato di insegnare ad eseguirla e a comporla; li ho invitati ad abbandonarsi alle melodie e ai ritmi, a esprimersi attraverso di essi. Ho visto atteggiamenti rattrappiti sciogliersi, sguardi illuminarsi, persone isolate da sempre, articolare suoni e movimenti, in sintonia con quelli di altri; ma tutto ciò mi è sempre parso aleatorio e impreciso, ambiguo, senza la capacità di raggiungere la fonte della consapevolezza.

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Pur non escludendo la possibilità di un effetto terapeutico delle forme artistiche, io mi sono allontanato da questo tipo di prospettiva ed ho preferito affrontare l’arte direttamente. L’arte è terapeutica di per sé e non quando è prescritta e somministrata in dosaggi di tipo farmacologico, in situazioni e luoghi che sono della cura e non dell’arte. Lo studio specialistico e la casa di cura vanificano gran parte delle possibilità terapeutiche dell’arte. L’arte è terapeutica di per sé, quando agisce nel suo mondo, e il terapeuta non può fare altro che educare all’amore per l’arte, se vuole servirsene come strumento della comprensione del mondo e dell’inconscio. Per questo, è fondamentale la preparazione, anche artistica, del futuro psicoterapeuta: chi non ama l’arte, chi non la conosce a fondo, non è in grado di fare il mestiere di «curatore di anime»; sarebbe solo un ciarlatano, se ci si provasse. Chiaramente, non si può pretendere dal terapeuta la professionalità nella pratica dell’arte, ma almeno un coinvolgimento e una conoscenza più profonde di quelle che abitualmente vengono richiesti all’uomo di media cultura, frequentatore e fruitore di qualche buon film, spettacolo, mostra o concerto. Lo psicoterapeuta ha il dovere di impegnarsi ad affrontare il mondo dell’arte, perché l’arte è presente sempre, nel panorama complessivo in cui si muovono le persone che ricorrono alla cura; sia nell’aspetto paludato e ufficiale, sia nella veste di creatività popolare o istintiva — e non intendo solo il folclore —. È anzi dovere dello psicoanalista saper distinguere e scegliere in quel marasma di spazzature pseudo﷓-artistiche che inquinano la civiltà odierna. L’ecologia deve infatti andare oltre la pura e semplice lotta alle buste di plastica e alle lattine che inquinano mari e boschi, alle piogge acide e ai residui del petrolio; ma deve prendere consapevolezza anche dei disastri acustici, cromatici, estetici, armonici e ritmici che, sotto forma di cascami delle varie arti, insidiano l’integrità e l’equilibrio dell’uomo; si pensi, tanto per fare un esempio, al bombardamento sonoro cui siamo continuamente sottoposti da riproduttori e diffusori di rumori pseudo﷓musicali: l’ecologia del suono è una battaglia da combattere non solo in vicinanza di aeroporti o alle catene di montaggio.

È quindi fondamentale che l’analista abbia un proprio concetto di ciò che è artisticamente sano; deve saper scegliere quale musica e quale poesia, se l’arte colta o folclorica, aulica o dimessa. Deve avere scelto il suo rapporto con l’arte e deve sapere quale scelta proporre ai suoi pazienti.

Ciò non significa che il terapeuta debba spingere il depresso a suonare il piffero e l’ossessivo a scrivere terzine di endecasillabi e che guarisca solo chi è diventato Dante Alighieri.

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Queste mie righe non riflettono forse una grande lucidità di idee, il rapporto tra arte e psicoanalisi mi ha sempre coinvolto; ma dopo averci tanto pensato mi capita spesso di scrollare la testa dicendo: «Io sono un artista e mi basta!» o anche: «Ma io sono uno psicoanalista! L’uno e l’altro possono coesistere senza intralciarsi». Ma poi sento che queste conclusioni non mi bastano; infatti sono convinto che l’arte sia salute; l’arte guida verso la salute, è strumento di salvezza. Sono consapevole che, affermando questo, mi comprometto come psicoanalista, se parlo di arte, e come artista, se parlo di psicoanalisi. Ho scelto di diffondere le mie teorie psicoanalitiche al di là della cerchia dei miei pazienti, perché penso che siano utili alla maggior comprensione degli esseri umani tra di loro, alla lotta contro il male che tutti ci insidia.
Così anche ho scelto di parlare dell’arte, perché la considero una presenza che deve essere costante nella vita di tutti e non un patrimonio di pochi e non mi dispiace l’immagine di una folla di popolo che, come nell’Atene di Pericle, si reca, in una bella giornata di sole, ad assistere alle rappresentazioni che si susseguono, dal mattino alla sera, nel pubblico teatro della città. Che importa se qualcuno si annoia, o se, in un angolo buio, un altro bacia la bocca amata!

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Da sempre anche si è parlato delle prerogative educatrici dell’arte. Nelle scuole si insegna la letteratura e non solo a leggere e a scrivere; si insegna persino un po’ di storia dell’arte figurativa e si dà qualche nozione musicale. Sebbene io creda che l’arte, già di per sé, sia educativa, ritengo ugualmente che si debba educare all’arte. L’arte non può essere solo un mezzo, deve essere un fine. L’arte è la salute trovata, la maturità conquistata, patrimonio dell’uomo sano e civile.
Non mi piace l’idea di usare l’arte o la scienza come mezzo, preferisco siano fini. Per fortuna, io credo poco alla logica dei mezzi e dei fini: per me esistono soprattutto i desideri, che devono essere realizzati. I desideri sono fini? Certo: sono gli unici fini in vista dei quali l’essere umano agisce.
In che cosa consiste, allora, l’educazione? Nel riuscire a trasmettere l’amore per l’arte e non soltanto: anche l’amore per la scienza.

Nessuno di noi è sano, nessuno di noi è maturo, ognuno di noi deve tendere alla guarigione ed alla buona educazione; l’arte ha questa duplice funzione di essere terapeutica ed educativa; ma, per fortuna, è anche molto di più; i terapeuti e gli educatori debbono saperlo e debbono indirizzare i lori desideri e quelli dei loro pazienti e discenti a confondersi con le meravigliose costruzioni dell’arte: l’arte del passato e del presente. Di quale arte? Quella per uomini sani; ma gli uomini sani non esistono; esiste invece l’arte.

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Voglio ritornare un po’ sui discorsi precedenti, perché temo di essere stato eccessivamente oscuro e contraddittorio. Forse è sufficientemente esplicito ciò che ho detto intorno all’arte come strumento terapeutico: sono scettico nei confronti di una somministrazione per dosi dell’arte a persone più o meno passive. Io so che l’arte è terapeutica, ma bisogna trovarla nei luoghi ad essa consacrati o saperla scoprire ogni giorno leggendo un libro o suonando uno strumento. Ciò che più mi rimane oscuro è come sia possibile che l’arte, che per un verso è strumento della cura, per l’altro possa costituire il premio e il privilegio di chi ha già raggiunto la salute. Per godere fino in fondo dell’arte bisogna essere sani; ma senza la conoscenza dell’arte non si potrà mai essere sani. Chi non ama l’arte è malato, gravemente malato.
L’amore per l’arte è una tensione che porta a scoprire, a guardare, ad osservare, ad ascoltare e quindi a guarire. Ma, se siamo giunti all’arte significa che eravamo già sani. L’arte è salute e mezzo per la salute.

Forse, ora queste mie considerazioni sono un po’ più esplicite, ma ancora resta l’ambiguità del mio discorso sull’educazione. Io impongo, nella scuola che ho fondato per la preparazione di psicoanalisti, un approfondito studio di tutte le forme artistiche — spero che non sia solo un’imposizione perché vorrei che coloro che hanno scelto di studiare con me lo avessero fatto anche per amore, se pur riconosco che lo studio intorno all’arte che io pretendo è senz’altro faticoso e tutt’altro che superficiale —. L’arte quindi educa, tanto che serve anche per diventare psicoanalisti. Nessuna scuola, di nessun tipo però avrebbe senso se non vi si insegnasse l’arte. Ciò che mi fa orrore della nostra scuola, da quella materna all’università, è che l’arte gravi come un peso, un dovere, mentre dovrebbe essere invece quasi un premio. È una gioia leggere «l’ira di Achille» o le «variazioni Goldberg» di Bach. È una scuola esangue, che illividisce l’arte, la rende flaccida, noiosa, imponendola senza amore. L’educazione dovrebbe essere soprattutto educazione all’amore, quindi anche all’amore per l’arte. Nonostante tutto, le opere del passato brillano davanti agli studenti nel loro splendore e qualcuno ne rimane affascinato, superando l’ostacolo costituito dalla rancida bava che su di esse spande la cadaverica concezione che ne dà il sistema di nozioni scolastico.

Continua la contraddizione tra arte che è obiettivo da raggiungere e mezzo per raggiungere quell’obiettivo; voglio che rimanga questo carattere duplice: educativo e terapeutico. Si guarisce e si educa solo nell’amore per l’arte e tramite di questo amore può essere solo l’amore di un maestro.