Archivio di luglio 1991

Psicoanalisi contro n. 74 – De vita solitaria

lunedì, 1 luglio 1991

La solitudine può anche essere una scelta: un piacere sottile di sentirsi avvolti da un tenue diaframma, al di là del quale ci sono gli altri, che lottano, litigano, si amano, vivono. Come tutti ben sappiamo, quell’involucro in cui ci siamo voluti avvolgere è un’illusione: il mondo riesce ugualmente a penetrarlo con grande facilità. Essere soli consiste più che altro nel pensare di esserlo: gli altri però sono là e noi qui non possiamo non percepirli e non essere a nostra volta percepiti. Questo reciproco essere presenti impedisce realmente che ci si chiuda del tutto in qualche luogo, assolutamente soli con noi stessi.
Finché si è vivi si è nel mondo. È bello permettersi di rifiutare il mondo solo quando si è certi di non essere d totalmente rifiutati. Il piacere di sentirsi soli, appena ve- s lato di sado-masochismo può permetterei di gustare un v silenzio che è in realtà impossibile, che è un diverso rumore.
Molti sono coloro che amano restare desti la notte, quando i suoni si dilatano ed il silenzio stesso sembra diventare rumore: è come quando si mette l’orecchio sulla valva di una conchiglia e si sente il rumore delle interne risonanze del nostro corpo. L’esperienza del silenzio e allora ei fa accendere la luce, magari prendere un libro o accendere la radio o il televisore, in modo che la notte affolli subito di presenze lontane che ci facciano senti: soli sì, ma in compagnia.

2

l solitario è colui che «se ne va alacre alla vicina selva, pieno di pace e di tranquillità, e dove prima si ferma, trovato un sedile di fiori, ovvero un colle aperto, incomincia a godere dello splendore del sole, e lieto canta :on voce gaia le quotidiane lodi al Signore, tanto più dolcemente se ai devoti sospiri si accompagna il murmure lene di una cascatella e gli armoniosi lamenti degli uccelli» (cfr.
F. Petrarca, De Vita solitaria). Quello della solitudine è un piacere che induce all’ozio, che è in sé buono: «sia l’ozio modesto e dolce, non arcigno; sia la solitudine tranquilla, non feroce: solitudine appunto, non selvatichezza, tale che chiunque vi capiti debba ammirarne l’umanità» (ibidem).
Così anche i poeti del passato hanno esaltato la solitudine, con frasi tornite ed armoniose. Come si vede Petrarca è compiaciuto del proprio isolamento, ma allo stesso tempo si sente su di una scena:
è solo, ma gode nell’immaginare un visitatore che, ammirato, contempli lo spettacolo della sua saggia solitudine, di uomo immerso nella contemplazione della natura e assorto nello studio; anch’egli cerca la solitudine per il piacere di non sentirsi davvero solo. Non voglio dire che chi si compiace della solitudine sia un ipocrita; certo anche il grande poeta era combattuto tra il piacere forte di essere nella mischia, di trovarsi assorbito dalle «cure» del mondo, nella lotta per gli onori e il desiderio di una solitudine ancor più desiderabile in quanto vagheggiata e mai raggiunta. Allo stesso modo, isolato nella sua Valchiusa, al tavolo di lavoro, tra i volumi degli amati classici, oppure durante una passeggiata tra i viottoli di quelle campagne, egli sarà certamente volato col pensiero alle gioie della vita mondana, al rumore delle feste, al clamore delle dispute cittadine.
È fin troppo umano godere di una condizione desiderando allo stesso tempo qualcosa di diverso; gustando la nostalgia di ciò che in quel preciso momento manca; qualche privilegiato poeta riesce anche a fame elemento della sua poesia.

3

C’è chi intende la solitudine come momento di concentrazione su se stesso, come punto di partenza di un viaggio verso l’autoconsapevolezza; al ritrovamento di un equilibrio che è impossibile raggiungere nella dispersione dei contatti troppo frequenti e superficiali della vita con gli altri. Se ci si concentra sulle proprie sensazioni ed emozioni, fantasie e desideri li si comprende meglio, giudicandoli ed arrivando ad eliminare quelli per qualche ragione inaccettabili. La domanda che mi viene di porre ora è se questo obiettivo sia realmente raggiungibile in una condizione di completa solitudine. Sentirsi in equilibrio significa avere ben presenti i punti di riferimento esterni coi quali si vuole essere in armonia. lo non posso costruirmi come voglio se non so con chi e con che cosa stabilirò il confronto, quale è il mio modello. Questo orientamento è possibile solo se si riferisce all’esterno. lo solo con me stesso, cosa penso di me? Se la mia solitudine fosse assoluta non potrei neppure pronunciarla: io non sarei e· basta. Chi non è non può stare né in equilibrio né in squilibrio, ma resta confuso in uno sfondo senza contorni o sfumature. Se si potesse raggiungere l’atarassia o il nirvana non se ne potrebbe avere alcuna consapevolezza. Cosa è allora questo desiderio di consapevolezza di sé dell’uomo occidentale? È la stessa voglia di vivere che spinge tutti a continuare a sognare, a desiderare anche la solitudine che ci appaga finché la percepiamo in rapporto con qualcosa che la nega.

4

Si può anche cercare la fuga dal mondo, alla ricerca del trascendente; attraverso l’estasi mistica che mette direttamente in contatto con la divinità, oppure cercando di entrare in rapporto con un principio superiore. Il religiosissimo ateismo di Leopardi gli faceva dire: «..e naufragar m’è dolce in questo mare». L’infinità di Dio coincideva per lui con quella dell’assoluto. Il cielo spaventa, perché è troppo vasto confrontato con la piccolezza dell’essere umano. Possono essere commisurati la finitezza umana e l’infinito senza dimensioni? L’uomo è piccolo o grande?
Piccolo in confronto ad alcune e grande in confronto ad altre realtà finite come lui? Ci si può perdere nella trascendenza e ugualmente lasciarsi ingoiare dall’immanenza: entrambe le scelte esprimono un rifiuto del mondo, alla ricerca di una dimensione che non ci appartiene. Cosa significa allora la scelta degli asceti? La loro non è che la ricerca di una dimensione impossibile, di una solitudine in cui continuano a perdersi e che affollano con la loro fantasia. Credo possibili il desiderio onesto dell’ascesi e l’intimo piacere della contemplazione; ma guardo con scettica sufficienza coloro che si propongono l’annientamento di sé, lo smarrimento. Forse soltanto non capisco. Penso che la ricerca dell’uomo si possa rivolgere soltanto verso il rapporto con qualcos’altro da sé, qualcosa di identificabile e conoscibile, fosse anche l’immagine di Dio.

5

Da sempre lo scienziato e il pensatore, il ricercatore e il teologo hanno svolto il loro compito in relazione con altri. Non è solo un’invenzione dei nostri giorni l’équipe interdisciplinare. La ricerca scientifica sembrerebbe dunque quanto di più lontano possibile dalle scelte di solitudine;
ciononostante il nostro inconscio sociale si è sempre rappresentato lo studioso, come il personaggio solitario, che vive con la testa nelle nuvole, immerso nei propri pensieri. Il grido: «Eureka» di Archimede esprime la soddisfazione di chi da solo è pervenuto alla scoperta di una verità:
esce nudo dall’acqua e si esibisce, compiaciuto di offrire sé stesso e la propria scoperta al mondo degli astanti di cui solo ora, dopo il lungo lavorio solitario, richiama l’attenzione. Anche chi lavora in gruppo pensa però in solitudine e segretamente rivendica per sé tutto il merito per i risultati ottenuti, convinto davvero di essere egli solo a donare al mondo il frutto migliore del lavoro collettivo: ciascuno si sogna in qualità di vittorioso Archimede. Nessuno ad ogni modo prescinde da quell’immensa platea che è il mondo: si pensa da soli, ma in funzione ed in rapporto con gli altri.

6

C’è anche la solitudine degli avari, di chi non vuole dividere con gli altri quello che può possedere da solo, di chi tiene per sé non solo le cose, ma anche i pensieri ed i sentimenti. Sono queste, persone , tristi, che sempre hanno paura di vedersi c sottrarre ciò che hanno. Temono di dare
più di quanto possono avere e per non r rischiare scelgono l’isolamento. Si chiudono in casa, si concentrano sul lavoro, scelgono vacanze solitarie. Sono convinti è che spetti a ciascuno il suo, delimitano con accanimento il territorio e le loro proprietà. Rifuggono dall’ansia che sale l per aver lasciato troppo a disposizione altrui. Anche affettivamente l’avaro preferisce la solitudine; se indulge ad un sentimento ad una intimità sessuale, lo fa calolando con precisione il dare e l’avere e non si concede mai il lusso di un rapporto d’amore generoso. Chi è avaro non si sente mai una cosa sola con l’altro, non sente la gioia di donare senza la prospettiva di ricevere in cambio. Non voglio dire che sia assolutamente negativo conservare il sentimento di sè e ci si debba assolutamente annullare nell’altro senza alcun senso critico, non è sempre giusto godere dell’espropriazione che si può subire; ma la paura di dare condanna l’avaro alla solitudine.

7

Ci sono anche i violenti che si impongono e impongono ogni cosa a non importa chi, ansiosi di riempire ogni spazio con i loro doni. Il loro è un piacere sadomasochistico delirante ed è follia narcisistica allo stesso tempo. Godono sadicamente di umiliare con il dono l’altro, masochisticamente poi si lamentano di quanto hanno perso, su tutto calano il velo narcisistico che nasconde l’altro, il quale perde l’identità propria, fino a diventare un’ombra, una proiezione. La violenza si traduce anche in una disponibilità così totale, che diventa indisponibilità, in un continuo sacrificarsi, purché il sacrificio segua le modalità che loro stessi impongono.
Il piacere massimo di costoro consiste nel far nascere negli altri il rimorso; li appaga ricevere e dare dolore anziché gioia, così trovano motivo per rinchiudersi a mugolare nel loro angolo di solitudine, nel loro mondo distorto e malato di solipsismo.
Sono incapaci di trovare un modo felice di essere con gli altri, ma sofferenti perché comunque non riescono a negarne del tutto la presenza.

8

C’è una forma di solitudine, brutale ed SII arcigna, simile a quella che viene dall’avarizia e nasce invece dalla diffidenza. Nel diffidente è percepibile una sorta di castrazione originaria, direi ontologica per cui manca quel «qualcosa» che fa piacere l dare e non se ne sospetta la presenza dI neppure negli altri. Si potrebbe simbolizzare questa realtà in senso fallico? O più cl ampiamente genitale? Lasciamo pure che ingenuamente qualcuno lo fantastichi. Questo è un caso in cui la distruzione delle ti capacità di relazione con l’altro è molto Il antica, confermata poi dalla storia successiva dell’individuo. La castrazione ha coinciso però col primo gesto, col primo tentativo di relazione con l’altro; è stato rifiutato il primo sorriso. Queste persone v non hanno nemmeno la velleità di recuperare sentimenti di potenza quali quelli che derivano dall’eccesso del dare, ma re- stano torvamente bloccate dal loro bisogno d’amore rinsecchito, paghe di spandere solo odio intorno a sé. Il «castrato ontologico» è il cattivo ontologico, la sua è una situazione disperata e disperante, teme il mondo perché lo desidera e il suo desiderio è ormai così lontano da non essere che un’ombra. È una condizione in cui si vive di frasi fatte e di proverbi, di sentenze negative. Gli altri chiamano il diffidente col nome di «cinico», ma il suo modo di vivere è proprio l’opposto di quello dei cani: irrimediabilmente entusiasti di tutto ciò che è dare o ricevere amore.

9

Vi è anche un’altra forma di castrazione ontologica: quella che si esprime con una e dolente e patetica paura degli altri e del n mondo. È una castrazione subentrata in un secondo tempo, conseguenza di uno stillicidio di esperienze negative: il mondo è brutto, la vita è terribile. Un tempo si tentava di sfuggire a quest’angoscia chiudendosi nei conventi; ma il mondo astuto inseguiva fin nelle clausure più rigorose chi non riusciva a liberarsi dalle fantasie del passato e a non sentire tuttavia i rumori del presente, distruggendo ogni illusione di solitudine. Questa è una parodia della solitudine: la vita solitaria si consuma nella comunità. La vita in comune non libera dalla solitudine, oggi come ieri, l’eremita, l’anacoreta o chi nel nostro tempo si isola nel suo privato, sopraffatto e spaventato dal possibile coinvolgimento, chiuso in realtà famigliari o professionali che allo stesso tempo costituiscono le sole possibilità di vita e di difesa dal mondo.

lO

Ultima poi è la solitudine di chi chiude la porta di casa, soddisfatto dell’illusione di aver lasciato fuori il mondo intero.
La famiglia, il partner, il compagno o la compagna sono magari inizialmente percepiti con tenerezza; la loro scelta ha coinciso con un gesto d’entusiasmo, con un atto di fiducia reciproca. Poi lentamente la vita famigliare, priva dell’apporto di energie vitali dall’esterno divienI;( una prigionia, prima inconsapevole e poi insopportabile. La porta chiusa tiene a bada le intrusioni, ma isola in una prigionia fatta di giorni e notti tutti uguali, di periodi di lavoro e di vacanza che diventano indistinti. Ci si aggrappa qualche volta ai figli, costretti fino ai limiti del possibile dentro le mura dì casa, cercando di scoraggiarli parlando loro male degli altri e del mondo di fuori. Se il tentativo fallisce, quelli che riescono ad evadere sono caricati del peso del rimorso per un’emancipazione che è letta come abbandono.
È questa la chiusura definitiva nel piccolo orizzonte del pettegolezzo del voyeurismo televisivo più becero di chi si sente assediato.

11

Una forma anomala della solitudine è quella di gruppo, di chi si stringe coi propri simili costituendo un codice di comportamento che permetta l’immediato riconoscimento, escludendo chi non vi corrisponde. È utile e positivo sentire di avere qualcosa in comune con alcuni che troviamo più simili e vicini a noi, godere della possibilità di reciproco scambio amoroso, identificarsi in un inconscio sociale che ci accomuna e ci differenzia da altri;
ma è importante che il gruppo o la comunità sappiano mantenere intatte le capacità di scambio con gli altri gruppi. L’isolamento comporta grossi rischi: il mondo potrebbe irrompere con gravi danni sull’equilibrio complessivo individuale e collettivo, col pericolo di una disintegrazione che implica anche l’incapacità del rinnovamento. La conseguenza può essere quella di individui perduti nel mondo, nostalgici di un paradiso lontano, resi anonimi dalla loro sconfitta. Il gruppo può permettere di attingere ad un patrimonio comune intellettuale ed affettivo, può costituire un humus da cui ricavare nutrimento, a patto che la convinzione delle proprie scelte non escluda la comprensione delle altre, la conoscenza di ciò che si trova nel mondo, la fiducia nella comunicazione dall’esterno e verso l’esterno, che deve essere sempre tenuto presente. La solitudine è un’illusione, che rischia di ridurci ad una vita basata sul ricatto. Chi si sente solo si chieda prima di tutto perché ciò avviene, cosa c’è in lui che ha determinato una realtà così dolorosa. Soltanto dopo rivolga agli altri la sua protesta.

75 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Se pure non è del tutto vero che nulla avvenga di nuovo sotto il sole, non è tuttavia il caso di illudersi più di tanto: il processo che sta scuotendo il mondo non è che un moto di assestamento che succede ad una scossa di terremoto la quale fece scambiare un ‘illusione per una rivoluzione, un imbroglio per una speranza, un regime per la libertà. Molti di noi oggi si risvegliano e desolati si guardano intorno alla ricerca dei padri; ma intorno non trovano che brandelli di carta, parole ed immagini da buttare via. Essere orfani è una triste esperienza, ma spesso è meglio che subire la tutela di padri e madri disonesti. Non affrettiamoci dunque troppo ad aggregarci a nuove grandi famiglie rassicuranti: la continuità dei regimi si perpetua anche attraverso la subitaneità dei ribaltamenti. Non è sicuro che il capitalismo sia la sola strada percorribile in economia, proprio come è certo che non esiste oggi una democrazia che operi per il bene di tutti su questa terra. Se si vedono le vecchie targhe della toponomastica comunista per le vie di Budapest lasciare il posto a nomi non compromessi, non ci si scordi ugualmente che a New York qualche tratto di strada è dedicato a Malcolm X. Del resto, in casa nostra, abbiamo cambiato nome a tante strade, senza che la situazione ne abbia riportato il minimo vantaggio. Il regime nostrano si perpetua da più di quarant’anni, scovando sempre nuovi modi per rimbecillire le coscienze: magari falsando i confronti con realtà drammatiche che il pressapochismo delle tavole rotonde non basta davvero a spiegare. Il pericolo totalitario è oggi anche per noi in agguato più che mai, ma non viene più dalla mistificazione delle ideologie: viene dalla povertà di pensiero. . Giornali e libri hanno raggiunto un livello di omologazione che neppure Pier Paolo Pasolini avrebbe potuto sospettare: non c’è dibattito perché non ci sono idee. L’analfabetismo ci riduce come bambini che sanno guardare solo le figure, ma quelle che ci fanno vedere sono solo immagini volgari e stupide. Per questo ridiamo delle istituzioni rappresentate dai buffoni della politica e assistiamo alle tragedie del mondo con la stessa passiva partecipazione con cui vediamo i brutti filmacci che la televisione ci porta in casa alternandoli ai telegiornali. Orfani ed ignoranti siamo tutti diventati marionette disponibili Cl qualunque ruolo il primo burattinaio vorrà farci interpretare, senza neppure accorgerci dei fili. Forse la sola possibilità è di partire dall’accettazione che la morte dei padri è inevitabile e che la memoria non significa sempre rimpianto:

la delusione può essere una buona medicina, purché non ci si affretti verso la più vicina nuova illusione. La speranza è una virtù che costa fatica raggiungere ed è irraggiungibile senza la consapevolezza.

74 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Per il terzo anno consecutivo questo giornale rinuncia a quella che era diventata in qualche modo una tradizione e non pubblica più i due numeri speciali dedicati interamente al Festival dei Due Mondi e alla Città di Spoleto. La ragione principale e senz’altro che i due Farfalloni sono in questo periodo dell’anno assorbiti dal lavoro di preparazione degli Incontri di Musica Sacra Contemporanea che – dal 1989 – si svolgono regolarmente a Roma sul finire di settembre; ma, accanto alla spiegazione più evidente, ci sono piccole inconfessate sensazioni che li hanno spinti a prendere le distanze.

Di lontano, qualche volta, si ha più chiaro il significato complessivo delle cose; mentre il coinvolgimento ravvicinato rischia di far perdere il senso delle proporzioni.

Visto con più distacco, ci sembra proprio che il Festival dei Due Mondi rappresenti un evento di grande valore culturale, malgrado le molte riserve che possono essere avanzate. Fuori, per qualche tempo, dalla baraonda festaiola e forsennata, dalla lotta strenua combattuta anche per il più piccolo dei privilegi da una folla avida; ci sembra di meglio apprezzare il significato di un lavoro che si è costruito in trentaquattro anni, senza lasciarsi mai troppo spingere dall’adulazione o frenare dal dileggio.

La realtà culturale italiana è – purtroppo – quello che è: i festival e i premi letterari affollano ogni estate di presenze paganti località marine e montane, piazze storiche o casinò, luoghi che, per il resto del lunghissimo anno, della cultura e dell’arte non praticano neppure i bordi. Ciò fa contenti alcuni politici e industriali che nel mecenatismo vedono la possibilità di recuperare una dignità che la concentrazione sugli affari ha fatto spesso perdere; appaga anche coloro che, per dovere d’ufficio, dovrebbero operare perche l’arte e la cultura si caratterizzino come bene pubblico e non siano invece preclusi ai più.

Il festival dei Due Mondi non è per tutti, ma è per molti; indulge, alla sponsorizzazione, ma ottiene in cambio spesso livelli elevati di qualità; non rappresenta il meglio, ma è di buon livello.

In gran parte artefice ed indiscutibilmente uomo-simbolo di tutto questo è il Maestro Giancarlo Menotti, al quale gli ottant’anni hanno tolto assai poco della consueta energia. Noi non siamo mai stati e non lo siamo neppure ora, d’accordo con le scelte estetiche, morali e persino politiche dell’ultimo Duca di Spoleto, anche se gli abbiamo sempre riconosciuto la capacità di valorizzare la creatura alla quale ha voluto dare vita. Anche grazie a lui il mondo culturale americano non ha avuto la possibilità di imporsi ancora una volta come colonizzatore. L’Umanesimo di cui l’Italia è ricca e che è forse la sua sola imprendibile ed inesauribile ricchezza, ha potuto nel festival dei due mondi impartire al «mondo nuovo» la sua grande lezione di civiltà.

La possibilità, per molti talenti di casa nostra è stata quella di sprovincializzarsi, per quelli venuti di lontano di conoscere orizzonti fino ad un momento prima inconcepibili.

Purtroppo né gli uni né gli altri hanno potuto sconfiggere un tipo di mercantilismo e di massificazione che sono piaghe universali, sia che si manifestino come trionfo della Coca Cola, sia che si esprimano come forme di taglieggiamento turistico spicciolo.

Appunto: il Festival, visto di lontano, non è né un’Arcadia, né un Eden; anche se, per fortuna, non é solo una fiera delle vanità; o un’occasione di mercificazione della cultura e dell’arte. È invece una realtà complessa e faticosa che deve i suoi aspetti positivi e negativi anche alle debolezze di un uomo che pure in essa ha posto tutto se stesso.

Dal punto di vista artistico, le conseguenze più evidenti sono alcune scelte un po’ «snervate» nei programmi, in cui si riversa un residuo estetizzante e frivolo, incapace di soluzioni vigorose.

Una breve scappata l’abbiamo però fatta anche quest’anno, per ritrovare i pochi amici, per curiosità, per nostalgia. Se vogliamo dame conto su queste pagine è però perché qualcosa ha scatenato la nostra indignazione ed è l’indecorosa, dilettantesca e ridicola messa in scena di uno splendido gioiello nascosto tra il folto dell’immensa produzione di W.A. Mozart: Apollo et Hyacinthus (Seu Hyacinti metamorphosis) K.38, Intermezzo musicale (commedia latina) per 5 voci ed orchestra, scritto dal padre benedettino Rufinus Widl per essere rappresentato fra gli atti della tragedia in latino «Clementia Croesi» dello stesso autore; eseguito per la prima volta nella Sala Grande dell’Università di Salisburgo il 13 maggio 1767. Il libretto è un po’ pasticciato: uno degli emblematici miti dell’amore omosessuale, quello di Apollo e Giacinto è stato malamente velato dal frate benedettino con l’introduzione di un personaggio femminile che non ha alcuna funzione in un meccanismo fatto solo di amori, gelosie ed impetuosità maschili. Noi siamo sempre irritati quando sentiamo esprimere sulla musica mozartiana, commenti di frigida e brutale sufficienza, da parte di critici ed «intenditori», i quali, essendo probabilmente sforniti di apparato acustico, si credono in diritto davanti a quella che definiscono la creazione di un ragazzo undicenne. di trovarla: «graziosa, soprattutto nel secondo tempo, ma che rivela pienamente l’ingenuità infantile dell’autore». Questa musica è indubbiamente tenera e fresca; unisce però allo stupore di cui è capace un bambino la profondità d’inventiva di un genio.

I recitativi sono già teatralmente maturi, le arie sono di una pienezza tornita e sapiente, ed i concertati, che costituiscono il nerbo di tutto, sbalordiscono per l’abilità armonica, vocale e psicologica. Il Caio Melisso, con le sue caratteristiche di «teatrino di corte» ci sembrava una sede adatta alla rappresentazione di un simile gioiellino e noi sprofondati in uno degli abituali palchetti ci pregustavamo alcuni momenti di gioia intensa e di commozione. Ma, fin dai primi accordi dell’orchestra del Collegium Aureum ci si sono rizzati i capelli in testa: il loro era uno schitarramento inqualificabile, il suono degli «strumenti d’epoca» risultava bofonchiante e stonato; i sottilissimi giochi imitativi non erano mai in rapporto tra di loro, le note rotolavano per la sala senza connessione; i gesti del direttore Gerhard Schmidt-Gaden falciavano l’aria per conto loro. Il clavicembalista, il cui nome non risulta nei programmi (beato lui), inventava glissati e «arpeggioni» da piano-bar. Contemporaneamente sulla scena cinque malcapitati (ma forse il malcapitato era il pubblico) gorgheggiavano, perdendo continuamente il tempo, stonando, totalmente afoni nelle note basse, striduli e queruli in quelle alte. Non riuscivano mai ad intonare neppure una quarta ascendente (dominante-tonica). Ci sembra incredibile che questi imbelli provengano da una scuola famosa come quella del Toelzer Knabenchor e che per di più ne siano i solisti! l’allestimento appariva disastroso fin dal levar di sipario: nulla pareva più vieto e baraccone che quell’increspar di veli, di facce imbellettate, di freschi ragazzini conciati mostruosamente da un’ispirazione perversa: non conosciamo lo scenografo John Pascoe, ma la sua ci è parsa una furia iconoclasta degna di una checca sadica. La regia di Giancarlo Menotti si è purtroppo resa complice di tanto scempio con trovate atroci, delle quali la peggiore ci è sembrata quella del funerale di Giacinto sulla cui bara-lettiga-dormeuse vengono fatti spuntare rigidi strali ondeggianti come banderillas sulla schiena del toro nell’arena; infine in un assoluto vuoto di idee costringeva tutti a iterare gesti e passetti in un meccanismo da marionette mal coordinate, «intruppantesi» continuamente l’una nell’altra. Che tanto scempio fosse anche mal preparato è risultato evidente quando allo scoppio del fulmine di Apallo l’impianto d’allarme del teatro si è messo furiosamente a suonare coprendo cantanti e orchestra. L’effetto comico che ne è derivato per quanto non voluto è stata l’unica vera nota eccitante della serata.

74 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Il film di Carlo Lizzani Cattiva, sceneggiato anche da Scarpelli e Archibugi, non è un «brutto film», però… è un polpettone, che di poetico non ha nulla ed inoltre mistifica un’intenzione pseudo-scientifica, che tutt’al più è solo banalmente divulgativa e diseducatrice. Il suo merito resta quello di riuscire ad interessare mamme ingenue e suorine d’ospedale: non c’è nerbo, il racconto si dipana stancamente con trovatine di debole efficacia narrativa. La vicenda è inserita in un ambiente primo novecento, fotografato con effetto flou o grana grossa, sulle orme di un gusto post-viscontiano e post-bologniniano. Ci rendiamo conto che, dopo aver detto che non è un brutto film, abbiamo espresso soltanto giudizi pesantemente negativi; noi comunque insistiamo nel sostenere che la vicenda di questa signora della buona società, oppressa dal «senso di colpa» per aver lasciato bere alla figlioletta l’acqua inquinata dello stagno, che le causerà la morte per tifo, e del suo «psicoanalista in erba» Gustav (Jung?) si lascia vedere senza troppa fatica, masticando bruscolini. Noi abbiamo visto film più stupidi ed anche insopportabili.
Nella clinica svizzera dove la dama è ricoverata, il giovane psichiatra, in opposizione al primario, burbero e retrogrado (nonché lambito da un riflesso di acume), si impegna nella sua battaglia. Prima di tutto si innamora della bella e tormentata paziente, infine si traveste da Sherlock Holmes per riandare sulle tracce della colpa che ha determinato quella che evidentemente deve essere un’oscura nevrosi e non già un’espressione di squallida dementia praecox. Incomincia torturandola con l’estorsione compulsiva di libere associazioni, prosegue intervistando la sorella riluttante della signora e la madre pazza, scocciando un’amica gallerista, disturbando l’ex-innamorato e persino il figlio letto; dopo aver tutto scoperto, completa il lavoro buttandole in faccia, piuttosto bruscamente, la verità. La povera Emilia (tale è il nome della signora) «abreagisce»: piange disperatamente, tanto da far supporre che forse è guarita; dopo di che torna a casa col marito, stringendo la mano al coraggioso pioniere, che tra l’amore e la scienza sceglie quest’ultima. Giuliana De Sio è una «depressa» poco verosimile: si limita a qualche stereotipo, qualche bizza, ma resta in fondo una bambolona romantica, che percepisce solo l’innamoramento del suo curante. Non si capisce perché regista e sceneggiatori abbiano poi tratteggiato come personaggio decisamente più pazzo di quello della protagonista la figura della fidanzata del medico Gustav: una pianista sommersa di gesti stereotipi e risatine «atimiche» affetta, lei sì, da profonda aggressività ed incontenibile cattiveria. Julian Sands è sprofondato nell’oleografia più vieta del biondo pioniere della scienza, bello e tormentato, poco acuto, più adatto al mestiere di segugio che a quello di «strizzacervelli». Erland Josephson ha cercato di trasfondere carica umana in un fantoccio, condannato fin dall’inizio ad essere dalla parte del torto. Sola figura simpatica Mitzi, la cameriera cicciottella, stralunata e bislacca.
Le musiche di Armando Trovaioli sottolineano in modo amorfo, con qualche sdilinquimento, le varie scene e per di più hanno una sonorità sgradevolmente falsa.

74 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Martedì undici giugno la stagione da camera di S. Cecilia ha riproposto, nell’Auditorium di via della Conciliazione, all’ascolto del pubblico romano il giovane pianista jugoslavo Ivo Pogorelic.
Il ragazzo di Belgrado ha ormai più di trent’anni ed ha già fatto in tempo ad istituire un festival che porta il suo nome, per la promozione dei giovani musicisti, forse memore del premio Casagrande che nel 1978 gli diede fama internazionale, confermata subito dopo a Montreal; e a Varsavia dove vinse il concorso Chopin nel 1980.
Da allora è passata acqua sotto i ponti del Tevere: ma oggi abbiamo tuttavia di fronte un esecutore che, nonostante i molti anni di studio e di successo, sembra avere ancora tanto da imparare. Nel suo pianismo dominano due componenti: una grande tecnica, brillante e virtuosistica e una continua persistenza di monotona inespressività, ma i funambolismi delle sue dita non riescono a coinvolgere realmente l’ascoltatore.
La serata ha avuto inizio con tre Notturni di Chopin: in do minore op.48 n.1; in mi bemolle maggiore op.55 n.2; in mi maggiore op.62 n.2, caratterizzati da un bel melodiare nitido: nella successiva Sonata in si minore op.58 si sono rivelate mani molto sciolte e robuste; con suoni ben amalgamati; anche se talvolta, soprattutto alla mano sinistra un po’ confusi; tutto sommato l’esposizione è stata molto corretta e tradizionale, sebbene leggermente monotona.
Più che adeguata e sufficientemente «nobile e sentimentale» l’interpretazione successiva di Maurice Ravel, Valses nobles et sentimentales.
Precisa infine l’esecuzione della Sonata in si bemolle minore op.36 n.2 di Sergej Rachmaninov, che è passata dall’esposizione tematica chiara dell’inizio ad una certa confusione ed opacità particolarmente negli «accordi pieni».
È stato, questo, un concerto onesto, ma poco stimolante, che ha lasciato in noi un certo imbarazzo. Prima abbiamo detto che Pogorelic ha ancora molto da imparare; però ci siamo anche resi conto che suona come se fosse giunto al termine della sua vita artistica: continuare a ripetersi in questo modo, non ha senso, secondo noi; ma nello stesso tempo non riusciamo ad intravedere in lui spunti che preludano a qualche progresso. Tutto sembra già inesorabilmente compiuto. Speriamo di sbagliarci.

Mercoledì 12 giugno al Palazzetto dello Sport dell’EUR si sono esibiti in un chilometrico concerto gli Yes.
La formazione originaria risale al ‘68, la loro fama è esplosa nei primi anni ‘70; poi sono scomparsi e solo da non molto sono tornati a produrre e ad esibirsi nuovamente. La ricca compagine di musicisti di quest’ultimo concerto a Roma raccoglieva sinteticamente tutti i componenti storici del complesso, salvo forse un tastierista: dalla voce Jon Anderson a Chris Squire, Rick Wakeman, Tony Kaye, Alan White, Steve Howe e Trevor Rabin.
Questi rappresentanti di un rock non particolarmente duro propongono brani di notevole ampiezza, con molte trovate e trovatine; indubbiamente però, per la lunghezza dei pezzi le idee musicali sono un po’ ripetitive: si passa da suggestioni jazz a momenti schiettamente ballabili: valzerini e polchette; molta esibizione di virtuosismo tecnico, spesso gratuito, ma qualche volta indice di ottimo mestiere. Noi abbiamo trovato una notevole differenza tra alcune canzoni degli anni ‘70 come: Your’s no disgrace, I’ve seen all good people o Awaken e le più recenti: Owner of lonely heart, Hold on Shock, The rythm of love. Le prime sono più articolate e si caratterizzano per una certa ricchezza armonica; le seconde sono più rozze, costruite con meno cura, per un effetto facile e immediato.
Il cantante Jon Anderson ha aperto il concerto con la sua voce bianca e semi-bianca in modo piuttosto sgangherato, calando sovente oltre il sopportabile; poi si è messo lentamente in carreggiata, con continue scivolate però. Noi comunque continuiamo a ripetere che questi sono concerti per sadomasochisti: i brani si apprezzano e si sentono meglio in disco, invece che in quell’ambiente infernale, dove le onde sonore, come boati, s’infrangono e si sovrappongono, gli equilibri vengono distorti del tutto, tanto che per raccapezzarsi davvero bisogna ripercorrere con la mente l’audizione discografica dei brani. Comunque è stato un concerto anche divertente, sebbene. dopo due ore e venti do musica ci fossimo rotti tanto le scatole da andarcene, mentre quelli gorgheggiavano e strimpellavano qualcosa di funebremente celestiale, di insopportabile monotonia.

74 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Il segno del genio in mostra a Palazzo Ruspoli di via del Corso, a cura della Fondazione Memmo, raccoglie «Cento disegni di grandi Maestri del passato dall’Ashmolean Museum di Oxford».
È un’occasione piuttosto preziosa questa che vede trasferiti sulla riva del Tevere schizzi, sanguigne, matite e incisioni di un periodo alquanto vasto e che vede quasi a confronto Michelangelo e Rembrandt, Raffaello e Brueghel, Leonardo e Diirer.
Ognuna delle opere meriterebbe un’analisi dettagliata ed ampia. Nelle superfici sempre minime di piccoli fogli, viene quasi distillata l’essenza artistica di questi genii della pittura; talvolta condensandosi in pochi incisivissimi segni, come nel Sansone che uccide i Filistei,che il Tintoretto riprende da Michelangelo, trasformando in disegno una scultura che il fiorentino non realizzò mai; altre volte dilatandosi in un infinito reticolo di linee che costruiscono immagini realistiche od inverosimili, la cui teoria sembrerebbe non doversi arrestare più, come nel disegno in cui sono descritti da Albrecht Dürer I piaceri mondani, in cui alla complessità dell’impostazione generale di un brulichio orgiastico di forme, si aggiungono i segni «gratuiti» dei numerosi «pentimenti» dell’autore, indeciso sull’esito finale della propria opera.
Ci sono schizzi di una sinteticità impensabile come quello di Jael che uccide Sisera, in cui Rembrandt sembra inseguire l’elementarità di un illustratore d’appendice e disegni di ponderata riflessione su se stessi come l’Autoritratto di Raffaello di rarefatta purezza e di intimo compiacimento.
Per concludere: a noi non sembra che l’effetto, nel senso migliore, «didattico» di questa mostra sia da trascurare: sono sempre troppo poche le occasioni per imparare presto e bene!

Pericle Fazzini, scomparso nel 1987 è stato un significativo scultore del Novecento italiano; la sua opera più nota è senz’altro il complesso scultoreo installato nella Sala Nervi del Vaticano, dal titolo La resurrezione (o Cristo risorto) che appare alle spalle del Papa ogni volta che là si reca per le udienze o altre pubbliche circostanze e quindi viene ripreso continuamente da operatori cinematografici e televisivi.
In questa mostra alla Galleria L’Isola di via Gregoriana, sono esposti sedici bronzi e bronzetti, dalla famosa Donna nella tempesta del 1932, sino al Cavallino rampante del 1979.
La scultura di Fazzini è ricca di suggestioni, ma rimane negli anni unitaria. In ogni «pezzo» si trova un approfondimento di qualche elemento che altrove è magari solo accennato e si accenna a qualcosa che in altra occasione è stato affrontato in tutta la sua pienezza.
Esempio di questo rimando può essere, prendendo in esame due tra le sculture che più ci affascinano, lo scambio fra la tragicità della morte che viene però pervasa di sensualità, nel potentissimo bronzo che rappresenta Il fucilato (1945-46) e la gioiosità sensuale del Ragazzo con i gabbiani (1940-44) in cui l’effetto di istantaneità fissato nel bronzo viene potenziato da una eco dell’eterno proiettata sull’attimo appena trascorso. La rapidità del vivere e l’immobilità del corpo da cui la vita è appena fuggita, suscitano lo stesso struggimento per un «erotismo» (nel senso più metafisico) che non si ha mai tempo e modo di godere appieno.
Ancora forti sensazioni di stampo «espressionistico» non si possono non provare davanti all’Uomo che urla (1949-50) dove in cinquanta centimetri di bronzo è raggrumato il senso dell’assurdo e del dolore, sintetizzato in una figura che quasi si disgrega intorno al punto focale delle mani sulla bocca aperta. Ma c’è posto anche per la serenità descrittiva e intimamente poetica dei Gatti che giocano (1957) o de La sorridente. (1948), accovaccia!a in un’ironica posa di seduzione senza incantamenti.

Un grande storico dell’arte, in auge negli anni sessanta perché tentò di inserire nel significato socio-economico complessivo anche i prodotti più alti dell’estetica: Arnold Hauser, in mezzo ad un cumulo di osservazioni variamente interessanti, pertinenti, qualunquistiche, demagogiche e scorrette, ha detto, dell’arte greca, che, in epoca democratica, i corpi erano raffigurati nudi, perché i nudi – si sa – sono tutti uguali. Quando invece le differenziazioni sociali e politiche acquistano importanza il corpo si copre, perché anche attraverso l’abbigliamento si possono meglio manifestare i segni del potere.
Sebbene noi pensiamo che i corpi nudi portino già in sé sufficienti elementi di connotazione sociale ed economica, ci domandiamo però perché i greci, anche in epoca democratica, abbiano sempre avvolto le figure femminili in abiti, riservando, almeno fino all’ellenismo, il nudo alle raffigurazioni di corpi maschili. Forse che i nostri antichi padri volessero significare che la donna altro non è che l’abito che indossa? Certo è però che il corpo femminile è quanto mai presente, nella storia dell’arte di quei tempi.
L’abito femminile sembra dunque avere qualche significato che noi non abbiamo ancora sufficientemente puntualizzato. In passato e non solo nell’epoca classica, la nudità virile era assai più presente nel vivere quotidiano. Con l’inizio dell’affermarsi della cultura borghese, nella seconda metà dell’Ottocento, anche i maschi si sono coperti e i loro abiti si sono progressivamente uniformati ed intristiti nella grigia banalità di mansioni e funzioni sempre più burocratiche, tanto che oggi il nudo virile, o la colorita fantasia di abbigliamenti che siano anche ornamento li ritroviamo solo più riprodotti nelle opere dell’arte figurativa. Dall’Ottocento in poi la fantasia nel vestire i maschi è riservata solo alle uniformi dei militari e dei prelati. La donna invece continua ancora oggi ad avvolgersi in rasi, trine e pizzi e ad ornarsi di gioielli e colori, fino a giungere, dopo il periodo déco ad un punto in cui – quasi – l’abito femminile sembra staccarsi dal corpo che lo indossa, per diventare un manufatto, tanto autonomo che può essere riprodotto in serie. L’unica moda che negli ultimi anni ha stabilito un rapporto non fittizio con una parte del corpo femminile è stata quella della minigonna che è in reale e diretto rapporto con le gambe. Linee a palloncino, ad «acca», a sacco, vivono di vita propria nella storia dell’abbigliamento: il corpo è assente. Eppure, proprio in questa standardizzazione anonima, il prèt-à-porter diventa una voce importante, nei bilanci nazionali, per il peso del suo fatturato. Perciò a parte le taglie: small, large o extra large, l’industria e anche i grandi sarti impongono alle donne di entrare nei vestiti e non si curano di costruire vestiti perché valorizzino i corpi. Accade così che in strada, nei salotti eal cinema si vedano mostruosi assemblaggi di abiti e membra costretti ad incongrue convivenze.
Anche la gloria nazionale Valentino Garavani non solo non si è ribellato a questo stato di cose, ma ha contribuito a costruirlo in qualità di massimo artefice. I suoi abiti possono essere giudicati belli o brutti, ma si presentano come oggetti a sé stanti, indossabili al massimo da una stampella, e talvolta questa pure è pleonastica. Alcuni modelli sono espressione di una fantasia veramente ricca, anche se troppo spesso aggredita da un’orgia inverosimile di gale e nastri. Proprio per questo è possibile fare una mostra degli abiti del sarto di V 0ghera, trionfanti in molteplici saloni, immobili su manichini, funebremente vittoriosi sui corpi delle donne finalmente assenti.
In piazza Mignanelli è allestito un teatrino in più ambienti di cartapesta dedicati ora ad un colore ora ad un momento della giornata: dal rosso al bianco, dal mattino alla notte del gran ballo: è infatti nella prestigiosa sede dell’ Accademia Valentino che è ospitata la mostra Le opere; trent’anni di magia che raccoglie più o meno duecento modelli realizzati negli ultimi trent’anni dal couturier più famoso d’Italia. Che il nostro sospetto che gli abiti siano concepiti più fine a se stessi che per vestire davvero le sue clienti sia fondato, ci sembra essere confermato da quella sezione che viene intitolata «Il Sogno» e in cui appaiono realizzati, solo per il piacere di mostrarli, dieci bellissimi abiti, mai indossati e che sono trionfi di colore e di tessuto perfettamente abbinati e non compromessi, oseremmo dire, dalla banalità carnale di modelle che rischiano ad ogni passo di risultare compromettenti per la prosaica banalità con cui cercano di adeguarsi a quello che indossano.
La cosa salta clamorosamente agli occhi visitando l’altra sezione della mostra, ospitata ai Musei Capitolini: Le immagini dove i fotografi più celebrati della moda non riescono a dare dignità alcuna ad indossatrici come Veruschka o a nobildonne ed attrici che sembrano preoccupate solo di esibirsi in concorrenza con l’abito che indossano; ma ne vengono irresistibilmente sconfitte, per un eccesso di carnalità che il sarto non ha mai tentato di far rientrare nel suo progetto.
Il trionfo di Valentino è scontato, come quello di Andreotti o della Coca Cola, in un mondo come il nostro, che si nutre di immagini la cui vistosa apparenza ha poco in comune con l’invisibile peso dell’essere; cui forse intende richiamare (speriamo non per bieco vezzo necrofilo) la decisione di dedicare gli incassi di questa fiera della vanità all’ Associazione L.I.F.E. per la lotta contro l’AIDS, da Garavani e Giammetti voluta e diretta.

La mostra simbolo del Festival (di Spoleto), a Palazzo Racani Arroni era quest’anno dedicata al pittore Antonio Mancini (1852-1929), romano di nascita, ma napoletano di formazione. È un pittore il cui nome non risveglia subito ricordi, ma la cui iconografia è entrata nel panorama visivo della nostra cultura: chi non ha negli occhi il Prevetariello, quel ragazzino la cui testa è sormontatata dalla nera enorme farfalla di un cappello da prete così in contrasto con il brillante sguardo da scugnizzo. Gli «scugnizzi», saltimbanchi o nobilini sono i suoi argomenti preferiti e quelli in cui l’emozione della scoperta passa dal pittore all’osservatore. Sono creature combinate di tenerezza e perversione che irradiano dai soggetti e che sono anche la proiezione dei sentimenti del pittore. È una pittura «pederastica» in un senso non solo deteriore, che ha avuto nella scultura del Gemito l’equivalente plastico ed il suo massimo rappresentante. Ragioni biografiche ed esistenziali hanno portato Mancini per qualche tempo ad avere una clientela borghese, per la cui committenza ha dipinto molteplici «ritratti» che non vanno al di là di una celebrazione ufficiale ed encomiastica, anche se la sua pennellata non perde completamente la vivacità tardo-impressionistica.

74 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Non crediamo che sia soprattutto per una forma di delirio persecutorio che la psicologia dinamica, in generale, e la psicoanalisi in particolare, da quando sono sorte come sistemi scientifici alla fine dell’Ottocento debbano continuare a difendersi, quasi’ ossessivamente, da attacchi su attacchi. Le accuse di oggi sono le stesse di un tempo: non è scienza; la psicoanalisi ha l’ossessione del sesso; non serve a mente; non ha un buon metodo di ricerca; e così via.
Gli psicoanalisti, dal canto loro, offrono decisamente il fianco perché troppo spesso sono di un’ingenuità disarmante. Anche professionisti seri che sono riusciti ad alleviare il disagio psichico di moltissimi pazienti, quando teorizzano, sono di un’ovvietà sconvolgente, oppure astrusamente e inqualificabilmente bizzarri. Eppure un atteggiamento psicoanalitico è estremamente utile alla comprensione della realtà del mondo. Ormai ‘non è più possibile fare un discorso scientificamente assennato prescindendo da un’analisi dell’inconscio sociale e individuale.
Il libro Umberto Saba: lettere sulla psicoanalisi, a cura di Arrigo Stara (Ed. SE, Milano 1991, pagg. 126. Lit. 23,000) raccoglie un gruppo di lettere di Saba allo psicoanalista Joachim Flescher (presso cui non fu mai in cura), un paio di lettere al suo ex-analista Edoardo Weiss, emigrato a Chicago, dopo essere stato l’antesignano del freudianesimo in Italia; ed, in più, due interventi pubblicati a loro tempo sulla Fiera letteraria e sull’Europeo. Del carteggio con Flescher sono pubblicate anche le risposte del medesimo, per cui si riesce ad avere un quadro sufficientemente completo dei termini e dell’oggetto di quella corrispondenza.
Stimoli alla riflessione il volumetto ne offre parecchi: i saggi discorsi di Joachim Flescher sulla religione e sull’antisemitismo; alcune osservazioni di Saba sulla tracotanza dei filosofi e il terrore della circoncisione sono stuzzicanti ed incuriosiscono. Noi però vogliamo soffermarci su due errori indecenti che anche qui ritornano, che la psicoanalisi porta con sé fin dalle sue origini.
Il primo è l’uso scorretto ed antipsicoanalitico del concetto di «transfert».
Il transfert, come tutti – e non solo gli psicoanalisti – dovrebbero sapere, è un elemento fondamentale della cura e consiste nel rapportarsi del paziente al terapeuta come se questi fosse realmente ora l’una ora l’altra delle figure significative del proprio passato. Invece profani e tecnici continuano ad usare questo concetto come sinonimo di «innamoramento», con grave nocumento per il rapporto terapeutico. Non parliamo poi dell’uso sconsiderato del termine «transfert negativo» (negative Uebertragung). Noi non mettiamo in dubbio che si possano riprovare per il terapeuta gli stessi sentimenti di amore e di odio provati per qualcun altro nel passato, però continuare a fare questa confusione dopo circa un secolo ci sembra imperdonabile. Non sarà forse ciò causato dall’intrinseco puritanesimo giudaico che opprimeva S. Freud e di cui non ci siamo ancora liberati? L’altro errore è quello di ritenere che la nevrosi sia indispensabile all’artista. Riconosciamo che l’atteggiamento di Flescher è meno rozzo di quello di Saba, il quale proprio dice: « …come sarei stato un poeta senza essere, al tempo stesso, un Narciso?» Non ci stancheremo mai di ripetere che la poesia e l’arte non si fondano sulla «sublimazione» delle pulsioni sessuali, più o meno perverse: l’arte è una situazione in cui sublimazione e de-sublimazione si intrecciano e l’opera d’arte è il massimo grado della salute dell’artista.
Dalle lettere del poeta scaturisce anche un ritratto psicologico ed umano molto tenero, anche se un po’ querulo. Un uomo grande e piccolo allo stesso tempo, però, come forse siamo o dovremmo essere tutti.

«Il treno ha appena lasciato la stazione di Rabat. È sera e scrivo tenendo l’agenda in equilibrio sulle ginocchia. È stata una giornata molto lunga, di quelle che non finiscono mai. Ora che si è conclusa però vorrei tornare indietro – solo di qualche ora – per essere ancora a casa.» Così comincia, pianamente, senza eroismi, ma con un’astuta e semplicistica abilità letteraria il libro di Mohamed Bouchane: Chiamaterni Alì (Ed. Leonardo, Milano 1991, pagg.188, Lit. 12.000). Si dice che questo sia il diario che veramente un tenero giovinotto marocchino avrebbe scritto nel suo primo soggiorno in Italia alla ricerca della «fortuna». Il giovinotto è probabilmente troppo buono, troppo pulito, di dentro e di fuori, troppo onesto, troppo debolmente coraggioso, carico come è di rimorsi per le piccole truffe che è costretto a commettere. In fondo questo è un «libro Cuore» nord-africano. Proprio perciò ci sono anche i cattivi, che però, e il fatto ci ha persino turbati, sono razzisticamente individuati in una precisa etnia: quella dei tunisini: «Vedo che il tunisino mette subito la mano nella tasca. Ha un coltello, e lo vuole usare.» Poco più avanti: «Non possiamo reagire, siamo pochissimi e i tunisini sono una ventina.» E ancora: «La polizia, bande di ladri che cercano di entrare negli scompartimenti, tunisini che urlano.» Ed ecco far capolino l’amor di mamma, il valore dell’amicizia, l’importanza di una fede religiosa e l’utilità delle docce quotidiane.
Forse il diario è realmente stato scritto in questi termini; ma a noi sembra lo stesso irrimediabilmente falso, come se da qualche parte ci fosse !’inganno. Quelli che racconta sono episodi di tristezza dickensiana, triti e ritriti, anche se veri: dormitori squallidi, cibi cattivi conquistati con violenza, ma l’animo puro, dell’uomo sempre timorato di Dio, passa quasi indenne tra le brutture del mondo. Il lieto fine è appena accennato, ma è molto efficace e qui il racconto diviene un meta-racconto: si parla della pubblicazione del volume di cui ci stiamo occupando e delle prospettive che si aprono per l’autore. Tutto rimane serenamente vago, perché tutto rimane nelle mani di Dio.
Il sentimento religioso è forse l’aspetto più sincero del testo, che, come abbiamo detto, per il resto non ci convince: troppo 0100grafico e «furbastro». Non ci viene detto nulla di nuovo sulle peripezie di chi decide di buttarsi all’avventura in un mondo diverso dal proprio alla ricerca di qualcosa che non si sa (o che forse si sa fin troppo), ma che si decide, con grande abilità di non dire mai chiaramente. Un elemento che è desolantemente e totalmente assente in un diario che vorrebbe essere tanto sincero è il riferimento a qualsiasi tipo di esperienza, pulsione o desiderio sessuale. Pur concedendo all’autore di fare la tara del nostro voyeurismo morboso, riteniamo fastidioso questo terrore di qualunque allusione al sesso, che pur non può essere una problematica tanto assente, Se si vuol essere apprezzati per la sincerità bisogna per lo meno voler essere fino in fondo sinceri.

74 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Al ristorante Augustea in via della Frezza, affacciato su quel capolavoro di sintesi architettonica che è piazza Augusto Imperatore, abbiamo trovato soltanto due motivi per rallegrarci: l’aria condizionata e una bottiglia di Ribolla – di Collavini – molto armonica, dal buon profumo di pesca-noce e servita alla giusta temperatura. Tutto il resto ci ha letteralmente disgustato. Anche ciò che non era proprio immangiabile, infatti era servito con tanta violenta malagrazia che induceva il depresso avventore a rigirarlo nel piatto tristemente, lasciandolo freddare e languire inerte. I frittini dell’antipasto, abbastanza appetitosi a prima vista, risultavano poi unti; la mozzarella grondava acqua e il prosciutto era di carta. Tra i primi piatti si salvavano gli spaghetti alle vongole veraci, di giusta cottura, conditi generosamente con un buon sughetto piccantino; inqualificabile era invece il risotto ai funghi porcini, questi già di per sé insapori, ma che scomparivano sotto la prepotente predominanza organolettica del burro e del formaggio eccessivi. Il sugo al pomodoro degli gnocchi, non sgradevole, ma squallidino, si sviliva su quelle pallocchette gommose e insapori. La costata di manzo consisteva in un taglio non eccellente, banalmente approntato per fare nel piatto la più triste delle figure; irritante era il fritto di cervello e verdure: se queste infatti risultavano quasi sopportabili, quello invece risentiva di numerose rifritture che non riuscivano però a nascondere un poco allettante sentore di «passato». I calamari alla Luciana si distinguevano per l’insopportabile elastica durezza e la sogliola fritta non era che un ricordo di pesce perso in una troppo spessa impanatura.
La cassata siciliana e il tiramisù bruciavano in gola per l’eccesso di zuccheri. E difficile esprimere la meraviglia di fronte poi ad un vassoio di frutta di qualità tanto scadente: nespole, pesche, albicocche e ciliege avevano lo stesso sapore di rapa.
Non abbiamo ancora detto di un Frascati della casa, anonimo e caldo, e di uno Schioppettino dell’ottantanove, piuttosto piatto.
Su tutta questa desolazione di materie prime ambigue e non di prima scelta, preparate e offerte nel più squallido dei riti della routine di una ristorazione menefreghista ed arrogante, si è posato poi un conto così elevato da lasciarci allibiti. Per fortuna la zia di un nostro caro amico campano, ci aveva da poco mandato una bottiglia di quello squisito liquore di limone che è il vanto della regione e noi, seduti sul terrazzo di casa, abbiamo nelle sue fresche delizie ritrovato la gioia di vivere che l’infelice esperienza pareva averci tolto per sempre.

Memori delle tragiche esperienze culinarie di cinque anni consecutivi di Festival a Spoleto, nel pochissimo tempo che abbiamo passato li quest’anno non ce la siamo sentita di rischiare. Abbiamo sbirciato e annusato dall’esterno molti ristoranti: alcune nostre vecchie tremende conoscenze ed anche qualche nuovo e ci siamo poi decisi: la prima sera, per la Trattoria del Quarto, dove la gentilissima signora Joelle, nel suo gradevole giardinetto ci ha rapidamente allestito una simpatica cena di fragranti antipasti misti, ottimi strangozzi al tartufo e funghi, arista al tartufo, fresche verdure e una crescionda né troppo secca né troppo umida, il tutto accompagnato dal Grechetto della Cantina sociale, fresco e gradevole e dal rosso Decugnano dei Barbi, sufficientemente armonico. Il tutto sarebbe stato quanto mai gradevole se non fossimo inciampati nei fagottini alla Valnerina, gustosi involtini che un diavoletto ha suggerito allo chef di ricoprire con un mestolone di tremendissima panna che li ha compromessi col suo gusto dolciastro e ha dato loro una vischiosa consistenza. Lo sappiamo che ai clienti piace la panna, ma, se proprio la si vuol servire, bisogna scegliere con estrema cura i piatti che possono sopportarla, almeno in parte. Oltre tutto dobbiamo dire che il locale ha mantenuto in limiti accettabili il prezzo.

Ottima invece, senza riserva, la cena alla Trattoria del Mercato, nell’omonima piazza; abbiamo trovato materie prime eccellenti e preparazioni accurate: dagli antipasti misti, al salame d’oca, alle superlative lumache al serpillo; le pappardelle sommerse di ottimo tartufo e gli strangozzi all’aglio e olio, ci sono parsi primi piatti stuzzicanti e gustosi, saporiti e profumati di una cucina antica e sapiente. Le fondutine al tartufo e le frittelle di rana sono state proposte nuove e stimolanti anche perché realizzate con sicurezza. Persino l’audacissima tranciata all’aceto balsamico dal sapore deciso e difficilmente abbinabile a qualunque vino ci è piaciuta. La sorpresa vera ci è venuta dai dolci fatti in casa (<

74 – Luglio ‘91

lunedì, 1 luglio 1991

Ribes gratis, di Vittorio Amandola, messo in scena al teatro dei Cocci, ha costituito per i due Farfalloni una delle esperienze più punitive di anni e anni di impiccioneria critica. Il signor Autore, regista ed anche costumista, ha montato, o meglio raffazzonato, un insieme di urla, strepiti, pessime sonate e canzonacce, sotto un pretestuoso blasone pseudo-goldoniano e tutto questo ha creduto di poter rifilare ad un pubblico pagante. Una becera farsa in stile «napoletanesco» simulava un’altrettanto sgangherata sceneggiata veneziana, coinvolgendo un certo numero di giovinotti e giovinotte che, senza alcun senso del pudore, si esibivano credendo di «recitare». Nessuna filodrammatica, nessuna clownerie circense ci ha mai procurato un tale mal di testa, un così forte disgusto da farci scappare dalla sala in anticipo sulla fine dello «spettacolo», inducendoci a commettere un gravissimo peccato di omissione; ma il nostro senso del dovere non è stato sufficiente a vincere tanta sofferenza.

Alla sala Frau (Festival di Spoleto) abbiamo fatto visita ad una cara amica: Pamela Villoresi, impegnata nelle repliche di Dittico Coniugale, montaggio di due atti unici di Jules Renard (1864-1910): Il piacere di dirsi addio e Il pane di casa, con la regia di Marco Sciaccaluga. Sono due piccole inezie, rappresentative del teatro di boulevard francese di fine secolo: la prima è la storia di due amanti sul punto di lasciarsi; nella seconda, una coppia di persone per bene si lascia tentare dall’idea di tradire i rispettivi coniugi, ma ci rinuncia nel breve spazio di un dopo cena. La Villoresi, bravissima come al solito, ha tentato di disegnare i due personaggi femminili, differenziandoli fra di loro: il primo tratteggiato con coloriture di amarezza e disincanto, il secondo frivolo ed infantile; non è caduta nel tranello del testo italiano: in francese le battute sono una girandola di erre e di parole tronche, che hanno quasi un significato puramente sonoro, nella traduzione italiana di Luca Lamberti le parole corpose e un po’ sussiegose hanno bisogno di quella giustificazione psicologica che l’attrice ha sempre perseguito con maestria. Il suo partner Massimo Popolizio ci è invece cascato in pieno ed ha proposto per due volte un personaggio ridotto a manichino in vena di scioglilingua. Non riusciamo a capire cosa abbia fatto il regista, oltre che sbagliare completamente le luci.