74 – Luglio ‘91

luglio , 1991

Il film di Carlo Lizzani Cattiva, sceneggiato anche da Scarpelli e Archibugi, non è un «brutto film», però… è un polpettone, che di poetico non ha nulla ed inoltre mistifica un’intenzione pseudo-scientifica, che tutt’al più è solo banalmente divulgativa e diseducatrice. Il suo merito resta quello di riuscire ad interessare mamme ingenue e suorine d’ospedale: non c’è nerbo, il racconto si dipana stancamente con trovatine di debole efficacia narrativa. La vicenda è inserita in un ambiente primo novecento, fotografato con effetto flou o grana grossa, sulle orme di un gusto post-viscontiano e post-bologniniano. Ci rendiamo conto che, dopo aver detto che non è un brutto film, abbiamo espresso soltanto giudizi pesantemente negativi; noi comunque insistiamo nel sostenere che la vicenda di questa signora della buona società, oppressa dal «senso di colpa» per aver lasciato bere alla figlioletta l’acqua inquinata dello stagno, che le causerà la morte per tifo, e del suo «psicoanalista in erba» Gustav (Jung?) si lascia vedere senza troppa fatica, masticando bruscolini. Noi abbiamo visto film più stupidi ed anche insopportabili.
Nella clinica svizzera dove la dama è ricoverata, il giovane psichiatra, in opposizione al primario, burbero e retrogrado (nonché lambito da un riflesso di acume), si impegna nella sua battaglia. Prima di tutto si innamora della bella e tormentata paziente, infine si traveste da Sherlock Holmes per riandare sulle tracce della colpa che ha determinato quella che evidentemente deve essere un’oscura nevrosi e non già un’espressione di squallida dementia praecox. Incomincia torturandola con l’estorsione compulsiva di libere associazioni, prosegue intervistando la sorella riluttante della signora e la madre pazza, scocciando un’amica gallerista, disturbando l’ex-innamorato e persino il figlio letto; dopo aver tutto scoperto, completa il lavoro buttandole in faccia, piuttosto bruscamente, la verità. La povera Emilia (tale è il nome della signora) «abreagisce»: piange disperatamente, tanto da far supporre che forse è guarita; dopo di che torna a casa col marito, stringendo la mano al coraggioso pioniere, che tra l’amore e la scienza sceglie quest’ultima. Giuliana De Sio è una «depressa» poco verosimile: si limita a qualche stereotipo, qualche bizza, ma resta in fondo una bambolona romantica, che percepisce solo l’innamoramento del suo curante. Non si capisce perché regista e sceneggiatori abbiano poi tratteggiato come personaggio decisamente più pazzo di quello della protagonista la figura della fidanzata del medico Gustav: una pianista sommersa di gesti stereotipi e risatine «atimiche» affetta, lei sì, da profonda aggressività ed incontenibile cattiveria. Julian Sands è sprofondato nell’oleografia più vieta del biondo pioniere della scienza, bello e tormentato, poco acuto, più adatto al mestiere di segugio che a quello di «strizzacervelli». Erland Josephson ha cercato di trasfondere carica umana in un fantoccio, condannato fin dall’inizio ad essere dalla parte del torto. Sola figura simpatica Mitzi, la cameriera cicciottella, stralunata e bislacca.
Le musiche di Armando Trovaioli sottolineano in modo amorfo, con qualche sdilinquimento, le varie scene e per di più hanno una sonorità sgradevolmente falsa.