74 – Luglio ‘91

luglio , 1991

Il segno del genio in mostra a Palazzo Ruspoli di via del Corso, a cura della Fondazione Memmo, raccoglie «Cento disegni di grandi Maestri del passato dall’Ashmolean Museum di Oxford».
È un’occasione piuttosto preziosa questa che vede trasferiti sulla riva del Tevere schizzi, sanguigne, matite e incisioni di un periodo alquanto vasto e che vede quasi a confronto Michelangelo e Rembrandt, Raffaello e Brueghel, Leonardo e Diirer.
Ognuna delle opere meriterebbe un’analisi dettagliata ed ampia. Nelle superfici sempre minime di piccoli fogli, viene quasi distillata l’essenza artistica di questi genii della pittura; talvolta condensandosi in pochi incisivissimi segni, come nel Sansone che uccide i Filistei,che il Tintoretto riprende da Michelangelo, trasformando in disegno una scultura che il fiorentino non realizzò mai; altre volte dilatandosi in un infinito reticolo di linee che costruiscono immagini realistiche od inverosimili, la cui teoria sembrerebbe non doversi arrestare più, come nel disegno in cui sono descritti da Albrecht Dürer I piaceri mondani, in cui alla complessità dell’impostazione generale di un brulichio orgiastico di forme, si aggiungono i segni «gratuiti» dei numerosi «pentimenti» dell’autore, indeciso sull’esito finale della propria opera.
Ci sono schizzi di una sinteticità impensabile come quello di Jael che uccide Sisera, in cui Rembrandt sembra inseguire l’elementarità di un illustratore d’appendice e disegni di ponderata riflessione su se stessi come l’Autoritratto di Raffaello di rarefatta purezza e di intimo compiacimento.
Per concludere: a noi non sembra che l’effetto, nel senso migliore, «didattico» di questa mostra sia da trascurare: sono sempre troppo poche le occasioni per imparare presto e bene!

Pericle Fazzini, scomparso nel 1987 è stato un significativo scultore del Novecento italiano; la sua opera più nota è senz’altro il complesso scultoreo installato nella Sala Nervi del Vaticano, dal titolo La resurrezione (o Cristo risorto) che appare alle spalle del Papa ogni volta che là si reca per le udienze o altre pubbliche circostanze e quindi viene ripreso continuamente da operatori cinematografici e televisivi.
In questa mostra alla Galleria L’Isola di via Gregoriana, sono esposti sedici bronzi e bronzetti, dalla famosa Donna nella tempesta del 1932, sino al Cavallino rampante del 1979.
La scultura di Fazzini è ricca di suggestioni, ma rimane negli anni unitaria. In ogni «pezzo» si trova un approfondimento di qualche elemento che altrove è magari solo accennato e si accenna a qualcosa che in altra occasione è stato affrontato in tutta la sua pienezza.
Esempio di questo rimando può essere, prendendo in esame due tra le sculture che più ci affascinano, lo scambio fra la tragicità della morte che viene però pervasa di sensualità, nel potentissimo bronzo che rappresenta Il fucilato (1945-46) e la gioiosità sensuale del Ragazzo con i gabbiani (1940-44) in cui l’effetto di istantaneità fissato nel bronzo viene potenziato da una eco dell’eterno proiettata sull’attimo appena trascorso. La rapidità del vivere e l’immobilità del corpo da cui la vita è appena fuggita, suscitano lo stesso struggimento per un «erotismo» (nel senso più metafisico) che non si ha mai tempo e modo di godere appieno.
Ancora forti sensazioni di stampo «espressionistico» non si possono non provare davanti all’Uomo che urla (1949-50) dove in cinquanta centimetri di bronzo è raggrumato il senso dell’assurdo e del dolore, sintetizzato in una figura che quasi si disgrega intorno al punto focale delle mani sulla bocca aperta. Ma c’è posto anche per la serenità descrittiva e intimamente poetica dei Gatti che giocano (1957) o de La sorridente. (1948), accovaccia!a in un’ironica posa di seduzione senza incantamenti.

Un grande storico dell’arte, in auge negli anni sessanta perché tentò di inserire nel significato socio-economico complessivo anche i prodotti più alti dell’estetica: Arnold Hauser, in mezzo ad un cumulo di osservazioni variamente interessanti, pertinenti, qualunquistiche, demagogiche e scorrette, ha detto, dell’arte greca, che, in epoca democratica, i corpi erano raffigurati nudi, perché i nudi – si sa – sono tutti uguali. Quando invece le differenziazioni sociali e politiche acquistano importanza il corpo si copre, perché anche attraverso l’abbigliamento si possono meglio manifestare i segni del potere.
Sebbene noi pensiamo che i corpi nudi portino già in sé sufficienti elementi di connotazione sociale ed economica, ci domandiamo però perché i greci, anche in epoca democratica, abbiano sempre avvolto le figure femminili in abiti, riservando, almeno fino all’ellenismo, il nudo alle raffigurazioni di corpi maschili. Forse che i nostri antichi padri volessero significare che la donna altro non è che l’abito che indossa? Certo è però che il corpo femminile è quanto mai presente, nella storia dell’arte di quei tempi.
L’abito femminile sembra dunque avere qualche significato che noi non abbiamo ancora sufficientemente puntualizzato. In passato e non solo nell’epoca classica, la nudità virile era assai più presente nel vivere quotidiano. Con l’inizio dell’affermarsi della cultura borghese, nella seconda metà dell’Ottocento, anche i maschi si sono coperti e i loro abiti si sono progressivamente uniformati ed intristiti nella grigia banalità di mansioni e funzioni sempre più burocratiche, tanto che oggi il nudo virile, o la colorita fantasia di abbigliamenti che siano anche ornamento li ritroviamo solo più riprodotti nelle opere dell’arte figurativa. Dall’Ottocento in poi la fantasia nel vestire i maschi è riservata solo alle uniformi dei militari e dei prelati. La donna invece continua ancora oggi ad avvolgersi in rasi, trine e pizzi e ad ornarsi di gioielli e colori, fino a giungere, dopo il periodo déco ad un punto in cui – quasi – l’abito femminile sembra staccarsi dal corpo che lo indossa, per diventare un manufatto, tanto autonomo che può essere riprodotto in serie. L’unica moda che negli ultimi anni ha stabilito un rapporto non fittizio con una parte del corpo femminile è stata quella della minigonna che è in reale e diretto rapporto con le gambe. Linee a palloncino, ad «acca», a sacco, vivono di vita propria nella storia dell’abbigliamento: il corpo è assente. Eppure, proprio in questa standardizzazione anonima, il prèt-à-porter diventa una voce importante, nei bilanci nazionali, per il peso del suo fatturato. Perciò a parte le taglie: small, large o extra large, l’industria e anche i grandi sarti impongono alle donne di entrare nei vestiti e non si curano di costruire vestiti perché valorizzino i corpi. Accade così che in strada, nei salotti eal cinema si vedano mostruosi assemblaggi di abiti e membra costretti ad incongrue convivenze.
Anche la gloria nazionale Valentino Garavani non solo non si è ribellato a questo stato di cose, ma ha contribuito a costruirlo in qualità di massimo artefice. I suoi abiti possono essere giudicati belli o brutti, ma si presentano come oggetti a sé stanti, indossabili al massimo da una stampella, e talvolta questa pure è pleonastica. Alcuni modelli sono espressione di una fantasia veramente ricca, anche se troppo spesso aggredita da un’orgia inverosimile di gale e nastri. Proprio per questo è possibile fare una mostra degli abiti del sarto di V 0ghera, trionfanti in molteplici saloni, immobili su manichini, funebremente vittoriosi sui corpi delle donne finalmente assenti.
In piazza Mignanelli è allestito un teatrino in più ambienti di cartapesta dedicati ora ad un colore ora ad un momento della giornata: dal rosso al bianco, dal mattino alla notte del gran ballo: è infatti nella prestigiosa sede dell’ Accademia Valentino che è ospitata la mostra Le opere; trent’anni di magia che raccoglie più o meno duecento modelli realizzati negli ultimi trent’anni dal couturier più famoso d’Italia. Che il nostro sospetto che gli abiti siano concepiti più fine a se stessi che per vestire davvero le sue clienti sia fondato, ci sembra essere confermato da quella sezione che viene intitolata «Il Sogno» e in cui appaiono realizzati, solo per il piacere di mostrarli, dieci bellissimi abiti, mai indossati e che sono trionfi di colore e di tessuto perfettamente abbinati e non compromessi, oseremmo dire, dalla banalità carnale di modelle che rischiano ad ogni passo di risultare compromettenti per la prosaica banalità con cui cercano di adeguarsi a quello che indossano.
La cosa salta clamorosamente agli occhi visitando l’altra sezione della mostra, ospitata ai Musei Capitolini: Le immagini dove i fotografi più celebrati della moda non riescono a dare dignità alcuna ad indossatrici come Veruschka o a nobildonne ed attrici che sembrano preoccupate solo di esibirsi in concorrenza con l’abito che indossano; ma ne vengono irresistibilmente sconfitte, per un eccesso di carnalità che il sarto non ha mai tentato di far rientrare nel suo progetto.
Il trionfo di Valentino è scontato, come quello di Andreotti o della Coca Cola, in un mondo come il nostro, che si nutre di immagini la cui vistosa apparenza ha poco in comune con l’invisibile peso dell’essere; cui forse intende richiamare (speriamo non per bieco vezzo necrofilo) la decisione di dedicare gli incassi di questa fiera della vanità all’ Associazione L.I.F.E. per la lotta contro l’AIDS, da Garavani e Giammetti voluta e diretta.

La mostra simbolo del Festival (di Spoleto), a Palazzo Racani Arroni era quest’anno dedicata al pittore Antonio Mancini (1852-1929), romano di nascita, ma napoletano di formazione. È un pittore il cui nome non risveglia subito ricordi, ma la cui iconografia è entrata nel panorama visivo della nostra cultura: chi non ha negli occhi il Prevetariello, quel ragazzino la cui testa è sormontatata dalla nera enorme farfalla di un cappello da prete così in contrasto con il brillante sguardo da scugnizzo. Gli «scugnizzi», saltimbanchi o nobilini sono i suoi argomenti preferiti e quelli in cui l’emozione della scoperta passa dal pittore all’osservatore. Sono creature combinate di tenerezza e perversione che irradiano dai soggetti e che sono anche la proiezione dei sentimenti del pittore. È una pittura «pederastica» in un senso non solo deteriore, che ha avuto nella scultura del Gemito l’equivalente plastico ed il suo massimo rappresentante. Ragioni biografiche ed esistenziali hanno portato Mancini per qualche tempo ad avere una clientela borghese, per la cui committenza ha dipinto molteplici «ritratti» che non vanno al di là di una celebrazione ufficiale ed encomiastica, anche se la sua pennellata non perde completamente la vivacità tardo-impressionistica.