74 – Luglio ‘91

luglio , 1991

Martedì undici giugno la stagione da camera di S. Cecilia ha riproposto, nell’Auditorium di via della Conciliazione, all’ascolto del pubblico romano il giovane pianista jugoslavo Ivo Pogorelic.
Il ragazzo di Belgrado ha ormai più di trent’anni ed ha già fatto in tempo ad istituire un festival che porta il suo nome, per la promozione dei giovani musicisti, forse memore del premio Casagrande che nel 1978 gli diede fama internazionale, confermata subito dopo a Montreal; e a Varsavia dove vinse il concorso Chopin nel 1980.
Da allora è passata acqua sotto i ponti del Tevere: ma oggi abbiamo tuttavia di fronte un esecutore che, nonostante i molti anni di studio e di successo, sembra avere ancora tanto da imparare. Nel suo pianismo dominano due componenti: una grande tecnica, brillante e virtuosistica e una continua persistenza di monotona inespressività, ma i funambolismi delle sue dita non riescono a coinvolgere realmente l’ascoltatore.
La serata ha avuto inizio con tre Notturni di Chopin: in do minore op.48 n.1; in mi bemolle maggiore op.55 n.2; in mi maggiore op.62 n.2, caratterizzati da un bel melodiare nitido: nella successiva Sonata in si minore op.58 si sono rivelate mani molto sciolte e robuste; con suoni ben amalgamati; anche se talvolta, soprattutto alla mano sinistra un po’ confusi; tutto sommato l’esposizione è stata molto corretta e tradizionale, sebbene leggermente monotona.
Più che adeguata e sufficientemente «nobile e sentimentale» l’interpretazione successiva di Maurice Ravel, Valses nobles et sentimentales.
Precisa infine l’esecuzione della Sonata in si bemolle minore op.36 n.2 di Sergej Rachmaninov, che è passata dall’esposizione tematica chiara dell’inizio ad una certa confusione ed opacità particolarmente negli «accordi pieni».
È stato, questo, un concerto onesto, ma poco stimolante, che ha lasciato in noi un certo imbarazzo. Prima abbiamo detto che Pogorelic ha ancora molto da imparare; però ci siamo anche resi conto che suona come se fosse giunto al termine della sua vita artistica: continuare a ripetersi in questo modo, non ha senso, secondo noi; ma nello stesso tempo non riusciamo ad intravedere in lui spunti che preludano a qualche progresso. Tutto sembra già inesorabilmente compiuto. Speriamo di sbagliarci.

Mercoledì 12 giugno al Palazzetto dello Sport dell’EUR si sono esibiti in un chilometrico concerto gli Yes.
La formazione originaria risale al ‘68, la loro fama è esplosa nei primi anni ‘70; poi sono scomparsi e solo da non molto sono tornati a produrre e ad esibirsi nuovamente. La ricca compagine di musicisti di quest’ultimo concerto a Roma raccoglieva sinteticamente tutti i componenti storici del complesso, salvo forse un tastierista: dalla voce Jon Anderson a Chris Squire, Rick Wakeman, Tony Kaye, Alan White, Steve Howe e Trevor Rabin.
Questi rappresentanti di un rock non particolarmente duro propongono brani di notevole ampiezza, con molte trovate e trovatine; indubbiamente però, per la lunghezza dei pezzi le idee musicali sono un po’ ripetitive: si passa da suggestioni jazz a momenti schiettamente ballabili: valzerini e polchette; molta esibizione di virtuosismo tecnico, spesso gratuito, ma qualche volta indice di ottimo mestiere. Noi abbiamo trovato una notevole differenza tra alcune canzoni degli anni ‘70 come: Your’s no disgrace, I’ve seen all good people o Awaken e le più recenti: Owner of lonely heart, Hold on Shock, The rythm of love. Le prime sono più articolate e si caratterizzano per una certa ricchezza armonica; le seconde sono più rozze, costruite con meno cura, per un effetto facile e immediato.
Il cantante Jon Anderson ha aperto il concerto con la sua voce bianca e semi-bianca in modo piuttosto sgangherato, calando sovente oltre il sopportabile; poi si è messo lentamente in carreggiata, con continue scivolate però. Noi comunque continuiamo a ripetere che questi sono concerti per sadomasochisti: i brani si apprezzano e si sentono meglio in disco, invece che in quell’ambiente infernale, dove le onde sonore, come boati, s’infrangono e si sovrappongono, gli equilibri vengono distorti del tutto, tanto che per raccapezzarsi davvero bisogna ripercorrere con la mente l’audizione discografica dei brani. Comunque è stato un concerto anche divertente, sebbene. dopo due ore e venti do musica ci fossimo rotti tanto le scatole da andarcene, mentre quelli gorgheggiavano e strimpellavano qualcosa di funebremente celestiale, di insopportabile monotonia.