Psicoanalisi contro n. 74 – De vita solitaria

luglio , 1991

La solitudine può anche essere una scelta: un piacere sottile di sentirsi avvolti da un tenue diaframma, al di là del quale ci sono gli altri, che lottano, litigano, si amano, vivono. Come tutti ben sappiamo, quell’involucro in cui ci siamo voluti avvolgere è un’illusione: il mondo riesce ugualmente a penetrarlo con grande facilità. Essere soli consiste più che altro nel pensare di esserlo: gli altri però sono là e noi qui non possiamo non percepirli e non essere a nostra volta percepiti. Questo reciproco essere presenti impedisce realmente che ci si chiuda del tutto in qualche luogo, assolutamente soli con noi stessi.
Finché si è vivi si è nel mondo. È bello permettersi di rifiutare il mondo solo quando si è certi di non essere d totalmente rifiutati. Il piacere di sentirsi soli, appena ve- s lato di sado-masochismo può permetterei di gustare un v silenzio che è in realtà impossibile, che è un diverso rumore.
Molti sono coloro che amano restare desti la notte, quando i suoni si dilatano ed il silenzio stesso sembra diventare rumore: è come quando si mette l’orecchio sulla valva di una conchiglia e si sente il rumore delle interne risonanze del nostro corpo. L’esperienza del silenzio e allora ei fa accendere la luce, magari prendere un libro o accendere la radio o il televisore, in modo che la notte affolli subito di presenze lontane che ci facciano senti: soli sì, ma in compagnia.

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l solitario è colui che «se ne va alacre alla vicina selva, pieno di pace e di tranquillità, e dove prima si ferma, trovato un sedile di fiori, ovvero un colle aperto, incomincia a godere dello splendore del sole, e lieto canta :on voce gaia le quotidiane lodi al Signore, tanto più dolcemente se ai devoti sospiri si accompagna il murmure lene di una cascatella e gli armoniosi lamenti degli uccelli» (cfr.
F. Petrarca, De Vita solitaria). Quello della solitudine è un piacere che induce all’ozio, che è in sé buono: «sia l’ozio modesto e dolce, non arcigno; sia la solitudine tranquilla, non feroce: solitudine appunto, non selvatichezza, tale che chiunque vi capiti debba ammirarne l’umanità» (ibidem).
Così anche i poeti del passato hanno esaltato la solitudine, con frasi tornite ed armoniose. Come si vede Petrarca è compiaciuto del proprio isolamento, ma allo stesso tempo si sente su di una scena:
è solo, ma gode nell’immaginare un visitatore che, ammirato, contempli lo spettacolo della sua saggia solitudine, di uomo immerso nella contemplazione della natura e assorto nello studio; anch’egli cerca la solitudine per il piacere di non sentirsi davvero solo. Non voglio dire che chi si compiace della solitudine sia un ipocrita; certo anche il grande poeta era combattuto tra il piacere forte di essere nella mischia, di trovarsi assorbito dalle «cure» del mondo, nella lotta per gli onori e il desiderio di una solitudine ancor più desiderabile in quanto vagheggiata e mai raggiunta. Allo stesso modo, isolato nella sua Valchiusa, al tavolo di lavoro, tra i volumi degli amati classici, oppure durante una passeggiata tra i viottoli di quelle campagne, egli sarà certamente volato col pensiero alle gioie della vita mondana, al rumore delle feste, al clamore delle dispute cittadine.
È fin troppo umano godere di una condizione desiderando allo stesso tempo qualcosa di diverso; gustando la nostalgia di ciò che in quel preciso momento manca; qualche privilegiato poeta riesce anche a fame elemento della sua poesia.

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C’è chi intende la solitudine come momento di concentrazione su se stesso, come punto di partenza di un viaggio verso l’autoconsapevolezza; al ritrovamento di un equilibrio che è impossibile raggiungere nella dispersione dei contatti troppo frequenti e superficiali della vita con gli altri. Se ci si concentra sulle proprie sensazioni ed emozioni, fantasie e desideri li si comprende meglio, giudicandoli ed arrivando ad eliminare quelli per qualche ragione inaccettabili. La domanda che mi viene di porre ora è se questo obiettivo sia realmente raggiungibile in una condizione di completa solitudine. Sentirsi in equilibrio significa avere ben presenti i punti di riferimento esterni coi quali si vuole essere in armonia. lo non posso costruirmi come voglio se non so con chi e con che cosa stabilirò il confronto, quale è il mio modello. Questo orientamento è possibile solo se si riferisce all’esterno. lo solo con me stesso, cosa penso di me? Se la mia solitudine fosse assoluta non potrei neppure pronunciarla: io non sarei e· basta. Chi non è non può stare né in equilibrio né in squilibrio, ma resta confuso in uno sfondo senza contorni o sfumature. Se si potesse raggiungere l’atarassia o il nirvana non se ne potrebbe avere alcuna consapevolezza. Cosa è allora questo desiderio di consapevolezza di sé dell’uomo occidentale? È la stessa voglia di vivere che spinge tutti a continuare a sognare, a desiderare anche la solitudine che ci appaga finché la percepiamo in rapporto con qualcosa che la nega.

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Si può anche cercare la fuga dal mondo, alla ricerca del trascendente; attraverso l’estasi mistica che mette direttamente in contatto con la divinità, oppure cercando di entrare in rapporto con un principio superiore. Il religiosissimo ateismo di Leopardi gli faceva dire: «..e naufragar m’è dolce in questo mare». L’infinità di Dio coincideva per lui con quella dell’assoluto. Il cielo spaventa, perché è troppo vasto confrontato con la piccolezza dell’essere umano. Possono essere commisurati la finitezza umana e l’infinito senza dimensioni? L’uomo è piccolo o grande?
Piccolo in confronto ad alcune e grande in confronto ad altre realtà finite come lui? Ci si può perdere nella trascendenza e ugualmente lasciarsi ingoiare dall’immanenza: entrambe le scelte esprimono un rifiuto del mondo, alla ricerca di una dimensione che non ci appartiene. Cosa significa allora la scelta degli asceti? La loro non è che la ricerca di una dimensione impossibile, di una solitudine in cui continuano a perdersi e che affollano con la loro fantasia. Credo possibili il desiderio onesto dell’ascesi e l’intimo piacere della contemplazione; ma guardo con scettica sufficienza coloro che si propongono l’annientamento di sé, lo smarrimento. Forse soltanto non capisco. Penso che la ricerca dell’uomo si possa rivolgere soltanto verso il rapporto con qualcos’altro da sé, qualcosa di identificabile e conoscibile, fosse anche l’immagine di Dio.

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Da sempre lo scienziato e il pensatore, il ricercatore e il teologo hanno svolto il loro compito in relazione con altri. Non è solo un’invenzione dei nostri giorni l’équipe interdisciplinare. La ricerca scientifica sembrerebbe dunque quanto di più lontano possibile dalle scelte di solitudine;
ciononostante il nostro inconscio sociale si è sempre rappresentato lo studioso, come il personaggio solitario, che vive con la testa nelle nuvole, immerso nei propri pensieri. Il grido: «Eureka» di Archimede esprime la soddisfazione di chi da solo è pervenuto alla scoperta di una verità:
esce nudo dall’acqua e si esibisce, compiaciuto di offrire sé stesso e la propria scoperta al mondo degli astanti di cui solo ora, dopo il lungo lavorio solitario, richiama l’attenzione. Anche chi lavora in gruppo pensa però in solitudine e segretamente rivendica per sé tutto il merito per i risultati ottenuti, convinto davvero di essere egli solo a donare al mondo il frutto migliore del lavoro collettivo: ciascuno si sogna in qualità di vittorioso Archimede. Nessuno ad ogni modo prescinde da quell’immensa platea che è il mondo: si pensa da soli, ma in funzione ed in rapporto con gli altri.

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C’è anche la solitudine degli avari, di chi non vuole dividere con gli altri quello che può possedere da solo, di chi tiene per sé non solo le cose, ma anche i pensieri ed i sentimenti. Sono queste, persone , tristi, che sempre hanno paura di vedersi c sottrarre ciò che hanno. Temono di dare
più di quanto possono avere e per non r rischiare scelgono l’isolamento. Si chiudono in casa, si concentrano sul lavoro, scelgono vacanze solitarie. Sono convinti è che spetti a ciascuno il suo, delimitano con accanimento il territorio e le loro proprietà. Rifuggono dall’ansia che sale l per aver lasciato troppo a disposizione altrui. Anche affettivamente l’avaro preferisce la solitudine; se indulge ad un sentimento ad una intimità sessuale, lo fa calolando con precisione il dare e l’avere e non si concede mai il lusso di un rapporto d’amore generoso. Chi è avaro non si sente mai una cosa sola con l’altro, non sente la gioia di donare senza la prospettiva di ricevere in cambio. Non voglio dire che sia assolutamente negativo conservare il sentimento di sè e ci si debba assolutamente annullare nell’altro senza alcun senso critico, non è sempre giusto godere dell’espropriazione che si può subire; ma la paura di dare condanna l’avaro alla solitudine.

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Ci sono anche i violenti che si impongono e impongono ogni cosa a non importa chi, ansiosi di riempire ogni spazio con i loro doni. Il loro è un piacere sadomasochistico delirante ed è follia narcisistica allo stesso tempo. Godono sadicamente di umiliare con il dono l’altro, masochisticamente poi si lamentano di quanto hanno perso, su tutto calano il velo narcisistico che nasconde l’altro, il quale perde l’identità propria, fino a diventare un’ombra, una proiezione. La violenza si traduce anche in una disponibilità così totale, che diventa indisponibilità, in un continuo sacrificarsi, purché il sacrificio segua le modalità che loro stessi impongono.
Il piacere massimo di costoro consiste nel far nascere negli altri il rimorso; li appaga ricevere e dare dolore anziché gioia, così trovano motivo per rinchiudersi a mugolare nel loro angolo di solitudine, nel loro mondo distorto e malato di solipsismo.
Sono incapaci di trovare un modo felice di essere con gli altri, ma sofferenti perché comunque non riescono a negarne del tutto la presenza.

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C’è una forma di solitudine, brutale ed SII arcigna, simile a quella che viene dall’avarizia e nasce invece dalla diffidenza. Nel diffidente è percepibile una sorta di castrazione originaria, direi ontologica per cui manca quel «qualcosa» che fa piacere l dare e non se ne sospetta la presenza dI neppure negli altri. Si potrebbe simbolizzare questa realtà in senso fallico? O più cl ampiamente genitale? Lasciamo pure che ingenuamente qualcuno lo fantastichi. Questo è un caso in cui la distruzione delle ti capacità di relazione con l’altro è molto Il antica, confermata poi dalla storia successiva dell’individuo. La castrazione ha coinciso però col primo gesto, col primo tentativo di relazione con l’altro; è stato rifiutato il primo sorriso. Queste persone v non hanno nemmeno la velleità di recuperare sentimenti di potenza quali quelli che derivano dall’eccesso del dare, ma re- stano torvamente bloccate dal loro bisogno d’amore rinsecchito, paghe di spandere solo odio intorno a sé. Il «castrato ontologico» è il cattivo ontologico, la sua è una situazione disperata e disperante, teme il mondo perché lo desidera e il suo desiderio è ormai così lontano da non essere che un’ombra. È una condizione in cui si vive di frasi fatte e di proverbi, di sentenze negative. Gli altri chiamano il diffidente col nome di «cinico», ma il suo modo di vivere è proprio l’opposto di quello dei cani: irrimediabilmente entusiasti di tutto ciò che è dare o ricevere amore.

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Vi è anche un’altra forma di castrazione ontologica: quella che si esprime con una e dolente e patetica paura degli altri e del n mondo. È una castrazione subentrata in un secondo tempo, conseguenza di uno stillicidio di esperienze negative: il mondo è brutto, la vita è terribile. Un tempo si tentava di sfuggire a quest’angoscia chiudendosi nei conventi; ma il mondo astuto inseguiva fin nelle clausure più rigorose chi non riusciva a liberarsi dalle fantasie del passato e a non sentire tuttavia i rumori del presente, distruggendo ogni illusione di solitudine. Questa è una parodia della solitudine: la vita solitaria si consuma nella comunità. La vita in comune non libera dalla solitudine, oggi come ieri, l’eremita, l’anacoreta o chi nel nostro tempo si isola nel suo privato, sopraffatto e spaventato dal possibile coinvolgimento, chiuso in realtà famigliari o professionali che allo stesso tempo costituiscono le sole possibilità di vita e di difesa dal mondo.

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Ultima poi è la solitudine di chi chiude la porta di casa, soddisfatto dell’illusione di aver lasciato fuori il mondo intero.
La famiglia, il partner, il compagno o la compagna sono magari inizialmente percepiti con tenerezza; la loro scelta ha coinciso con un gesto d’entusiasmo, con un atto di fiducia reciproca. Poi lentamente la vita famigliare, priva dell’apporto di energie vitali dall’esterno divienI;( una prigionia, prima inconsapevole e poi insopportabile. La porta chiusa tiene a bada le intrusioni, ma isola in una prigionia fatta di giorni e notti tutti uguali, di periodi di lavoro e di vacanza che diventano indistinti. Ci si aggrappa qualche volta ai figli, costretti fino ai limiti del possibile dentro le mura dì casa, cercando di scoraggiarli parlando loro male degli altri e del mondo di fuori. Se il tentativo fallisce, quelli che riescono ad evadere sono caricati del peso del rimorso per un’emancipazione che è letta come abbandono.
È questa la chiusura definitiva nel piccolo orizzonte del pettegolezzo del voyeurismo televisivo più becero di chi si sente assediato.

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Una forma anomala della solitudine è quella di gruppo, di chi si stringe coi propri simili costituendo un codice di comportamento che permetta l’immediato riconoscimento, escludendo chi non vi corrisponde. È utile e positivo sentire di avere qualcosa in comune con alcuni che troviamo più simili e vicini a noi, godere della possibilità di reciproco scambio amoroso, identificarsi in un inconscio sociale che ci accomuna e ci differenzia da altri;
ma è importante che il gruppo o la comunità sappiano mantenere intatte le capacità di scambio con gli altri gruppi. L’isolamento comporta grossi rischi: il mondo potrebbe irrompere con gravi danni sull’equilibrio complessivo individuale e collettivo, col pericolo di una disintegrazione che implica anche l’incapacità del rinnovamento. La conseguenza può essere quella di individui perduti nel mondo, nostalgici di un paradiso lontano, resi anonimi dalla loro sconfitta. Il gruppo può permettere di attingere ad un patrimonio comune intellettuale ed affettivo, può costituire un humus da cui ricavare nutrimento, a patto che la convinzione delle proprie scelte non escluda la comprensione delle altre, la conoscenza di ciò che si trova nel mondo, la fiducia nella comunicazione dall’esterno e verso l’esterno, che deve essere sempre tenuto presente. La solitudine è un’illusione, che rischia di ridurci ad una vita basata sul ricatto. Chi si sente solo si chieda prima di tutto perché ciò avviene, cosa c’è in lui che ha determinato una realtà così dolorosa. Soltanto dopo rivolga agli altri la sua protesta.