74 – Luglio ‘91

luglio , 1991

Non crediamo che sia soprattutto per una forma di delirio persecutorio che la psicologia dinamica, in generale, e la psicoanalisi in particolare, da quando sono sorte come sistemi scientifici alla fine dell’Ottocento debbano continuare a difendersi, quasi’ ossessivamente, da attacchi su attacchi. Le accuse di oggi sono le stesse di un tempo: non è scienza; la psicoanalisi ha l’ossessione del sesso; non serve a mente; non ha un buon metodo di ricerca; e così via.
Gli psicoanalisti, dal canto loro, offrono decisamente il fianco perché troppo spesso sono di un’ingenuità disarmante. Anche professionisti seri che sono riusciti ad alleviare il disagio psichico di moltissimi pazienti, quando teorizzano, sono di un’ovvietà sconvolgente, oppure astrusamente e inqualificabilmente bizzarri. Eppure un atteggiamento psicoanalitico è estremamente utile alla comprensione della realtà del mondo. Ormai ‘non è più possibile fare un discorso scientificamente assennato prescindendo da un’analisi dell’inconscio sociale e individuale.
Il libro Umberto Saba: lettere sulla psicoanalisi, a cura di Arrigo Stara (Ed. SE, Milano 1991, pagg. 126. Lit. 23,000) raccoglie un gruppo di lettere di Saba allo psicoanalista Joachim Flescher (presso cui non fu mai in cura), un paio di lettere al suo ex-analista Edoardo Weiss, emigrato a Chicago, dopo essere stato l’antesignano del freudianesimo in Italia; ed, in più, due interventi pubblicati a loro tempo sulla Fiera letteraria e sull’Europeo. Del carteggio con Flescher sono pubblicate anche le risposte del medesimo, per cui si riesce ad avere un quadro sufficientemente completo dei termini e dell’oggetto di quella corrispondenza.
Stimoli alla riflessione il volumetto ne offre parecchi: i saggi discorsi di Joachim Flescher sulla religione e sull’antisemitismo; alcune osservazioni di Saba sulla tracotanza dei filosofi e il terrore della circoncisione sono stuzzicanti ed incuriosiscono. Noi però vogliamo soffermarci su due errori indecenti che anche qui ritornano, che la psicoanalisi porta con sé fin dalle sue origini.
Il primo è l’uso scorretto ed antipsicoanalitico del concetto di «transfert».
Il transfert, come tutti – e non solo gli psicoanalisti – dovrebbero sapere, è un elemento fondamentale della cura e consiste nel rapportarsi del paziente al terapeuta come se questi fosse realmente ora l’una ora l’altra delle figure significative del proprio passato. Invece profani e tecnici continuano ad usare questo concetto come sinonimo di «innamoramento», con grave nocumento per il rapporto terapeutico. Non parliamo poi dell’uso sconsiderato del termine «transfert negativo» (negative Uebertragung). Noi non mettiamo in dubbio che si possano riprovare per il terapeuta gli stessi sentimenti di amore e di odio provati per qualcun altro nel passato, però continuare a fare questa confusione dopo circa un secolo ci sembra imperdonabile. Non sarà forse ciò causato dall’intrinseco puritanesimo giudaico che opprimeva S. Freud e di cui non ci siamo ancora liberati? L’altro errore è quello di ritenere che la nevrosi sia indispensabile all’artista. Riconosciamo che l’atteggiamento di Flescher è meno rozzo di quello di Saba, il quale proprio dice: « …come sarei stato un poeta senza essere, al tempo stesso, un Narciso?» Non ci stancheremo mai di ripetere che la poesia e l’arte non si fondano sulla «sublimazione» delle pulsioni sessuali, più o meno perverse: l’arte è una situazione in cui sublimazione e de-sublimazione si intrecciano e l’opera d’arte è il massimo grado della salute dell’artista.
Dalle lettere del poeta scaturisce anche un ritratto psicologico ed umano molto tenero, anche se un po’ querulo. Un uomo grande e piccolo allo stesso tempo, però, come forse siamo o dovremmo essere tutti.

«Il treno ha appena lasciato la stazione di Rabat. È sera e scrivo tenendo l’agenda in equilibrio sulle ginocchia. È stata una giornata molto lunga, di quelle che non finiscono mai. Ora che si è conclusa però vorrei tornare indietro – solo di qualche ora – per essere ancora a casa.» Così comincia, pianamente, senza eroismi, ma con un’astuta e semplicistica abilità letteraria il libro di Mohamed Bouchane: Chiamaterni Alì (Ed. Leonardo, Milano 1991, pagg.188, Lit. 12.000). Si dice che questo sia il diario che veramente un tenero giovinotto marocchino avrebbe scritto nel suo primo soggiorno in Italia alla ricerca della «fortuna». Il giovinotto è probabilmente troppo buono, troppo pulito, di dentro e di fuori, troppo onesto, troppo debolmente coraggioso, carico come è di rimorsi per le piccole truffe che è costretto a commettere. In fondo questo è un «libro Cuore» nord-africano. Proprio perciò ci sono anche i cattivi, che però, e il fatto ci ha persino turbati, sono razzisticamente individuati in una precisa etnia: quella dei tunisini: «Vedo che il tunisino mette subito la mano nella tasca. Ha un coltello, e lo vuole usare.» Poco più avanti: «Non possiamo reagire, siamo pochissimi e i tunisini sono una ventina.» E ancora: «La polizia, bande di ladri che cercano di entrare negli scompartimenti, tunisini che urlano.» Ed ecco far capolino l’amor di mamma, il valore dell’amicizia, l’importanza di una fede religiosa e l’utilità delle docce quotidiane.
Forse il diario è realmente stato scritto in questi termini; ma a noi sembra lo stesso irrimediabilmente falso, come se da qualche parte ci fosse !’inganno. Quelli che racconta sono episodi di tristezza dickensiana, triti e ritriti, anche se veri: dormitori squallidi, cibi cattivi conquistati con violenza, ma l’animo puro, dell’uomo sempre timorato di Dio, passa quasi indenne tra le brutture del mondo. Il lieto fine è appena accennato, ma è molto efficace e qui il racconto diviene un meta-racconto: si parla della pubblicazione del volume di cui ci stiamo occupando e delle prospettive che si aprono per l’autore. Tutto rimane serenamente vago, perché tutto rimane nelle mani di Dio.
Il sentimento religioso è forse l’aspetto più sincero del testo, che, come abbiamo detto, per il resto non ci convince: troppo 0100grafico e «furbastro». Non ci viene detto nulla di nuovo sulle peripezie di chi decide di buttarsi all’avventura in un mondo diverso dal proprio alla ricerca di qualcosa che non si sa (o che forse si sa fin troppo), ma che si decide, con grande abilità di non dire mai chiaramente. Un elemento che è desolantemente e totalmente assente in un diario che vorrebbe essere tanto sincero è il riferimento a qualsiasi tipo di esperienza, pulsione o desiderio sessuale. Pur concedendo all’autore di fare la tara del nostro voyeurismo morboso, riteniamo fastidioso questo terrore di qualunque allusione al sesso, che pur non può essere una problematica tanto assente, Se si vuol essere apprezzati per la sincerità bisogna per lo meno voler essere fino in fondo sinceri.