74 – Luglio ‘91

luglio , 1991

Per il terzo anno consecutivo questo giornale rinuncia a quella che era diventata in qualche modo una tradizione e non pubblica più i due numeri speciali dedicati interamente al Festival dei Due Mondi e alla Città di Spoleto. La ragione principale e senz’altro che i due Farfalloni sono in questo periodo dell’anno assorbiti dal lavoro di preparazione degli Incontri di Musica Sacra Contemporanea che – dal 1989 – si svolgono regolarmente a Roma sul finire di settembre; ma, accanto alla spiegazione più evidente, ci sono piccole inconfessate sensazioni che li hanno spinti a prendere le distanze.

Di lontano, qualche volta, si ha più chiaro il significato complessivo delle cose; mentre il coinvolgimento ravvicinato rischia di far perdere il senso delle proporzioni.

Visto con più distacco, ci sembra proprio che il Festival dei Due Mondi rappresenti un evento di grande valore culturale, malgrado le molte riserve che possono essere avanzate. Fuori, per qualche tempo, dalla baraonda festaiola e forsennata, dalla lotta strenua combattuta anche per il più piccolo dei privilegi da una folla avida; ci sembra di meglio apprezzare il significato di un lavoro che si è costruito in trentaquattro anni, senza lasciarsi mai troppo spingere dall’adulazione o frenare dal dileggio.

La realtà culturale italiana è – purtroppo – quello che è: i festival e i premi letterari affollano ogni estate di presenze paganti località marine e montane, piazze storiche o casinò, luoghi che, per il resto del lunghissimo anno, della cultura e dell’arte non praticano neppure i bordi. Ciò fa contenti alcuni politici e industriali che nel mecenatismo vedono la possibilità di recuperare una dignità che la concentrazione sugli affari ha fatto spesso perdere; appaga anche coloro che, per dovere d’ufficio, dovrebbero operare perche l’arte e la cultura si caratterizzino come bene pubblico e non siano invece preclusi ai più.

Il festival dei Due Mondi non è per tutti, ma è per molti; indulge, alla sponsorizzazione, ma ottiene in cambio spesso livelli elevati di qualità; non rappresenta il meglio, ma è di buon livello.

In gran parte artefice ed indiscutibilmente uomo-simbolo di tutto questo è il Maestro Giancarlo Menotti, al quale gli ottant’anni hanno tolto assai poco della consueta energia. Noi non siamo mai stati e non lo siamo neppure ora, d’accordo con le scelte estetiche, morali e persino politiche dell’ultimo Duca di Spoleto, anche se gli abbiamo sempre riconosciuto la capacità di valorizzare la creatura alla quale ha voluto dare vita. Anche grazie a lui il mondo culturale americano non ha avuto la possibilità di imporsi ancora una volta come colonizzatore. L’Umanesimo di cui l’Italia è ricca e che è forse la sua sola imprendibile ed inesauribile ricchezza, ha potuto nel festival dei due mondi impartire al «mondo nuovo» la sua grande lezione di civiltà.

La possibilità, per molti talenti di casa nostra è stata quella di sprovincializzarsi, per quelli venuti di lontano di conoscere orizzonti fino ad un momento prima inconcepibili.

Purtroppo né gli uni né gli altri hanno potuto sconfiggere un tipo di mercantilismo e di massificazione che sono piaghe universali, sia che si manifestino come trionfo della Coca Cola, sia che si esprimano come forme di taglieggiamento turistico spicciolo.

Appunto: il Festival, visto di lontano, non è né un’Arcadia, né un Eden; anche se, per fortuna, non é solo una fiera delle vanità; o un’occasione di mercificazione della cultura e dell’arte. È invece una realtà complessa e faticosa che deve i suoi aspetti positivi e negativi anche alle debolezze di un uomo che pure in essa ha posto tutto se stesso.

Dal punto di vista artistico, le conseguenze più evidenti sono alcune scelte un po’ «snervate» nei programmi, in cui si riversa un residuo estetizzante e frivolo, incapace di soluzioni vigorose.

Una breve scappata l’abbiamo però fatta anche quest’anno, per ritrovare i pochi amici, per curiosità, per nostalgia. Se vogliamo dame conto su queste pagine è però perché qualcosa ha scatenato la nostra indignazione ed è l’indecorosa, dilettantesca e ridicola messa in scena di uno splendido gioiello nascosto tra il folto dell’immensa produzione di W.A. Mozart: Apollo et Hyacinthus (Seu Hyacinti metamorphosis) K.38, Intermezzo musicale (commedia latina) per 5 voci ed orchestra, scritto dal padre benedettino Rufinus Widl per essere rappresentato fra gli atti della tragedia in latino «Clementia Croesi» dello stesso autore; eseguito per la prima volta nella Sala Grande dell’Università di Salisburgo il 13 maggio 1767. Il libretto è un po’ pasticciato: uno degli emblematici miti dell’amore omosessuale, quello di Apollo e Giacinto è stato malamente velato dal frate benedettino con l’introduzione di un personaggio femminile che non ha alcuna funzione in un meccanismo fatto solo di amori, gelosie ed impetuosità maschili. Noi siamo sempre irritati quando sentiamo esprimere sulla musica mozartiana, commenti di frigida e brutale sufficienza, da parte di critici ed «intenditori», i quali, essendo probabilmente sforniti di apparato acustico, si credono in diritto davanti a quella che definiscono la creazione di un ragazzo undicenne. di trovarla: «graziosa, soprattutto nel secondo tempo, ma che rivela pienamente l’ingenuità infantile dell’autore». Questa musica è indubbiamente tenera e fresca; unisce però allo stupore di cui è capace un bambino la profondità d’inventiva di un genio.

I recitativi sono già teatralmente maturi, le arie sono di una pienezza tornita e sapiente, ed i concertati, che costituiscono il nerbo di tutto, sbalordiscono per l’abilità armonica, vocale e psicologica. Il Caio Melisso, con le sue caratteristiche di «teatrino di corte» ci sembrava una sede adatta alla rappresentazione di un simile gioiellino e noi sprofondati in uno degli abituali palchetti ci pregustavamo alcuni momenti di gioia intensa e di commozione. Ma, fin dai primi accordi dell’orchestra del Collegium Aureum ci si sono rizzati i capelli in testa: il loro era uno schitarramento inqualificabile, il suono degli «strumenti d’epoca» risultava bofonchiante e stonato; i sottilissimi giochi imitativi non erano mai in rapporto tra di loro, le note rotolavano per la sala senza connessione; i gesti del direttore Gerhard Schmidt-Gaden falciavano l’aria per conto loro. Il clavicembalista, il cui nome non risulta nei programmi (beato lui), inventava glissati e «arpeggioni» da piano-bar. Contemporaneamente sulla scena cinque malcapitati (ma forse il malcapitato era il pubblico) gorgheggiavano, perdendo continuamente il tempo, stonando, totalmente afoni nelle note basse, striduli e queruli in quelle alte. Non riuscivano mai ad intonare neppure una quarta ascendente (dominante-tonica). Ci sembra incredibile che questi imbelli provengano da una scuola famosa come quella del Toelzer Knabenchor e che per di più ne siano i solisti! l’allestimento appariva disastroso fin dal levar di sipario: nulla pareva più vieto e baraccone che quell’increspar di veli, di facce imbellettate, di freschi ragazzini conciati mostruosamente da un’ispirazione perversa: non conosciamo lo scenografo John Pascoe, ma la sua ci è parsa una furia iconoclasta degna di una checca sadica. La regia di Giancarlo Menotti si è purtroppo resa complice di tanto scempio con trovate atroci, delle quali la peggiore ci è sembrata quella del funerale di Giacinto sulla cui bara-lettiga-dormeuse vengono fatti spuntare rigidi strali ondeggianti come banderillas sulla schiena del toro nell’arena; infine in un assoluto vuoto di idee costringeva tutti a iterare gesti e passetti in un meccanismo da marionette mal coordinate, «intruppantesi» continuamente l’una nell’altra. Che tanto scempio fosse anche mal preparato è risultato evidente quando allo scoppio del fulmine di Apallo l’impianto d’allarme del teatro si è messo furiosamente a suonare coprendo cantanti e orchestra. L’effetto comico che ne è derivato per quanto non voluto è stata l’unica vera nota eccitante della serata.