Archivio di gennaio 1991

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

Tutto il lavoro di questa nostra pubblicazione mensile sarà, per il 1991, improntato alla celebrazione della grandezza artistica ed umana di W. A. Mozart, musicista come non ce ne furono altri, vera «voce di Dio» sulla terra; uomo tenerissimo e grande, superiore anche infinitamente a tutti quelli che oggi, per convinzione o per opportunismo, hanno scelto di celebrarlo in questo «anno mozartiano». È probabile che alcuni (certo pochi) si stupiranno di questa decisione; altri crederanno di poterla spiegare con l’impegno musicale di Sandro Gindro. Chissà quanti (certo pochissimi) la interpreteranno come un gesto d’amore? Può sembrare patetico che, in un clima di tensione come quello che caratterizza questo inizio d’anno, con il ritorno di spettri che credevamo di aver relegato per sempre in aree limitate e remote, ci si preoccupi di dedicare il lavoro dei prossimi dodici mesi a qualcuno che i più ritengono un mito del passato, come W. A. Mozart. Eppure non è il gusto di far rivivere un’Arcadia che ci spinge – anche se qualunque Arcadia, passata, presente o futura sarebbe preferibile al clima attuale -. Il fatto è che sottolineare l’intenzione di dedicare a Mozart il nostro lavoro significa per noi credere fermamente nelle possibilità dell’Uomo. Mozart è, in questo momento, un simbolo e l’incarnazione di una fede concreta per la quale ci diciamo che vale comunque la pena di vivere, anche a costo di tante sofferenze quante se ne contano nello scorrere di ogni giorno. L’umanità e il suo significato non possono essere circoscritti ad un progetto clinico, a un modello filosofico o a una pratica terapeutica; che pure sono elementi fondamentali di una realtà che di questo anche ha bisogno. Mozart rappresenta, per decisione consapevole nostra e per debito d’amore, quel di più che solo può dare senso al vivere, realizzare con assoluta pienezza il desiderio: sia la gioia dell’arte, sia la completezza di Eros, che dell’arte e del divino partecipa. Ecco allora che contro lo scetticismo derisorio e conformista, si riafferma la necessità di riconoscere in noi stessi un lo indiviso.

Dalla lotta al gioco, dalla scienza alla poesia, dalla cura alla musica, dal teatro all’amore noi passiamo con coerenza; ad un tempo vigili ed autocritici, entusiasti ed innamorati. Mozart, oltre che essere l’amore di un amore, è stato (o comunque è diventato, in una serie di proiezioni-identificazioni) un personaggio capace di spiazzare il giudizio della sua epoca e di tutte le epoche successive; irriducibile a qualsivoglia stereotipo umano od artistico. Neppure noi saremmo in grado di «dire» le qualità per cui lo abbiamo scelto come l’Eroe attuale che si contrappone ad un mondo frastornato dai protagonismi di burattini, sfuggiti al controllo, portatori e fautori della propria e altrui disperazione. A duecento anni dalla data di un decesso anagrafico, Mozart è oggi, per noi, la scelta della vita «contro» la morte.

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

Il Teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la stagione 1990/91 con la Tosca di Giacomo Puccini, su libretto di Illica e Giacosa, dal dramma di Victorien Sardou. La prima esecuzione andò in scena esattamente novant’anni fa in questo stesso teatro allora chiamato Costanzi. Tutti conoscono la musica e la trama di questo drammone verista. Il libretto scricchiola continuamente: situazioni inverosimili, spesso ridicole e sempre esagerate lo contraddistinguono. Le azioni però sono emblematiche; e i sentimenti essenziali hanno una loro forza intrinseca, spesso travolgente. L’amore disgraziato e disperato di Tosca e Cavaradossi, la diabolica perfidia lasciva di Scarpia sono inoltre rivestite da una musica talora possente e in altri momenti appassionata. Il diatonismo scoperto di molte melodie famosissime e di grande efficacia si mescola con un’orchestrazione ricca ed astutissima. Gli impasti sonori costruiscono macchie di colore che cangiano continuamente e si assottigliano in una strumentazione accattivante che talvolta poi torna ad ispessirsi, in un’alternanza che accompagna l’orecchio in avventure sonore semplici ma coinvolgenti.

Il 13 dicembre all’Opera c’erano tanti addobbi floreali, e tra i fiori spuntavano le teste di due capi di Stato, quelle di tanti primi ministri, moltissimi ministri secondi e uomini politici di ogni parte e poi ancora uomini di spettacolo, stilisti e signore e signori del pettegolezzo; scarseggiavano forse i rappresentanti del mondo della cultura. I maschi erano quasi tutti in «smoking» e le donne in abiti da sera brutti quanto costosi.

L’orchestra guidata da Daniel Oren ha aperto la serata con l’Inno di Mameli e con quell’orribile e funebre brano impapocchiato (ci sembra di ricordare da Karajan), tratto dal finale della Nona di Beethoven, che è l’Inno d’Europa; eseguito dai fiati in modo addirittura raccapricciante.

Sulla scena due colossi del teatro lirico: Luciano Pavarotti e Rajna Kabaivanska.

Il primo, secondo noi, canta sempre malissimo, però quella sera ha ecceduto: il tenoruccio di un’operetta di provincia avrebbe cantato con voce più espressiva e intonata. Il suo era un melodiare sempre identico, senza sfumature, con i fiati presi in modo inverosimile, dai ritmi imprecisi, la dizione insopportabilmente incolore, che non risparmiava alcuni dei più stantii moduli ottocenteschi. Letteralmente insopportabile è stato il suo Lucean le stelle dall’interpretazione molliccia ed assolutamente senza nerbo. La sua presenza scenica non era da meno: oscillante tra un Gambadilegno e Hulk, molto più pachidermico di quanto la sua stessa figura fisica richiederebbe.

Nonostante timbro e colorito della sua voce non siano i più adatti per il personaggio di Tosca, la straordinaria vocalità della Kabaivanska le ha permesso di essere sempre all’altezza del ruolo. Inoltre la sua grande sapienza teatrale le ha concesso di essere giustamente tenera, espressiva e disperata. Realmente superba la sua interpretazione di Vissi d’arte: tesa fino allo spasimo, dolce ed accorata.

Che dire degli altri interpreti? Tutti ci sono parsi adeguati. Ingvar Wixell nella sua parte di Scarpia è risultato corretto, senza però entusiasmare.

L’orchestra, sufficientemente attenta e precisa, seguiva onestamente le indicazione del direttore che pur in buona fede ha sempre diretto troppo forte, soprattutto nei primi due atti.

Il coro è risultato nell’insieme capace di un buon impasto sonoro.

Le scenografie sono state fin troppo discusse; a noi è parso semplicemente che mentre si può intervenire con giudizio, pur nella coerenza cui non si vuole rinunciare, come ha fatto Ceroli, non ha invece senso violentare un’atmosfera scenica e poetica con l’inserimento di un linguaggio narcisisticamente isolato ed autocentrico, oltre che intrinsecamente brutto, come ha preteso di fare il transavanguardista Cucchi: nel complesso anche con l’apporto di Fini è venuto fuori un certo pasticcio, che non ha favorito le intenzioni registiche di Mauro Bolognini, timidissimo più che altro.

79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92

martedì, 1 gennaio 1991

Il regista Terry Gilliam è indubbiamente un buon confezionatore di film. Il suo La leggenda del re pescatore, nonostante un’eccessiva lunghezza riesce sempre a tener viva l’attenzione, a divertire e qualche volta persino a commuovere. Certo, questa è soprattutto un’operazione commerciale che sta alla vera arte filmica come i San Pietro di plastica, con i carillons stonati, e il Papa che s’affaccia alla finestra, in vendita nei negozi di souvenirs stanno alla vera spiritualità. In questo film tutto è fasullo e un po’ stupido. La storiella è melensa e non viene riscattata neppure dal finale dichiaratamente omosessuale. L’emergente conduttore radiofonico di una trasmissione di grande successo, cade vittima del proprio potere di persuasione, inducendo, senza volerlo davvero, un suo ascoltatore a commettere una strage in una discoteca. Ridotto al fallimento da quell’errore che ha compromesso la sua carriera, una notte si trova salvato in extremis da un barbone allucinato e pazzo di nome Perry, che non è altri che lo stravolto marito di una delle vittime della strage, alla ricerca di se stesso e del Sacro Graal tra la spazzatura di New York. Convinto di dover compiere qualcosa che ripari ai danni così tragici che non sapeva di aver provocato e per ricambiare la «cortesia», Jack (così si chiama il bell’eroe) si lascia progressivamente coinvolgere dal delirio poetico dell’ex professore impazzito e straccione, fino a travestirsi da Robin Hood e a rubare il Sacro Graal dalla biblioteca del palazzo neo-gotico di un magnate newyorkese. I due contenti e rinsaviti vanno poi ad esprimere la loro soddisfazione e il loro sentimento amoroso, mettendosi nudi al chiar di luna nel Central Park insieme ad un allusivo e simbolico Pinocchietto di legno.
Ciò che abbiamo trovato più squallido e forse irritante è vedere ripetuto il solito discorso che tende ad esaltare una supposta poeticità della follia. È vero che le allucinazioni del «matto» nel film sono esplicitamente rappresentate per coinvolgere lo spettatore ed accentuare l’aspetto favolistico, però il messaggio che passa è sempre lo stesso: i veri sani sono i matti, in questo mondo di convenzioni e banalità. Robin Williams interpreta il personaggio di Perry con grande maestria retorica, spacciando alla perfezione un messaggio di «finto realismo» che persuade proprio per la sua falsità che però va incontro ai desideri dello spettatore. Jeff Bridges si incarica soprattutto di distrarre chi osserva dall’assurdità delle situazioni in cui il suo Jack viene a trovarsi sprigionando ad ogni inquadratura tutte le possibilità di una fascinazione sensuale e talvolta esplicitamente sessuale assolutamente «fantastica». A questa impostazione decisamente non realistica dei due attori, fa da contraltare una stridente scelta interpretativa dei due personaggi femminili sostenuti da Amanda Plummer e Mercedes Ruhel. Le due attrici si impegnano in uno sforzo di grande realismo drammatico che impedisce loro sempre di entrare in sintonia con i loro compagni, nella storia e nella tecnica recitati va. Il regista dimostra ottime capacità narrative e un bel ritmo che non sono compromessi più di tanto dalle scelte di una ideologia qualunquistica. La fotografia sotto la direzione di Roger Pratt si dimostra elemento decisivo nell’opera di convinzione. Le musiche di George Fenton sono di buona fattura e spaziano dal sinfonismo neo-romantico, al jazz e al rock.

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

Tanto di cappello a coloro i quali hanno costruito il trailer televisivo di presentazione dell’ultimo film di Chatiliez, l’autore del discreto successo di La vita non è un fiume tranquillo: aggressivo, scattante e soprattutto intrigante, che ci ha convinto ad andare al cinema per vedere tanta opera. Però … I personaggi pestiferi, infernali e insopportabili sono tipiche figure presenti negli spettacoli di tutti i tempi: possono essere «burberi benefici» o rompiscatole assoluti che talvolta in effetti’ sanno far ridere e destano anche un po’ di simpatia. Tutti ci sentiamo sempre un po’ dalla loro parte, perché spesso dicono la verità in faccia al mondo con bella spudoratezza, senza lasciarsi sopraffare. Inoltre poi servono ad alimentare le nostre fantasie; dovrebbero essere vecchi decrepiti e imbelli ed invece riescono ad opprimere e a tiranneggiare persone molto più giovani di loro, il che ci permette di sperare in qualcosa di- simile per la nostra vecchiaia. Nessuno desidera diventare vittima; tutti vorremmo continuare ad essere tiranni. Il film di Etienne Chatiliez Zia Angelina, racconta la storia di una vecchietta di quelle che dovrebbero iscriversi all’università della terza età, la quale però invece di ascoltare insegnanti della sesta età che sproloquiano su scavi archeologici e semeiotica, scarica le sue ultime potenzialità infestando e devastando l’ambiente circostante. Il regista francese non ha purtroppo grandi capacità descrittive: la vecchiaccia non risulta sufficientemente cattiva, né spiritosa, non è arguta, non conosce l’autoironia; è soltanto una donnetta un po’ cattiva e molto petulante. Qualcuno potrebbe scambiare questa scelta per realismo: proprio così sono la maggioranza dei vecchi, inutili e noiosi. Noi invece non lo crediamo: i vecchierelli non sono più cattivi né più buoni degli altri, talvolta semplicemente sono più lagnosi, però quando riescono a spezzare il narcisismo in cui sono quasi sempre rinchiusi hanno tenerissimi squarci di poesia e tratti di acume folgorante. Questo film non risulta essere né in difesa né contro i vecchi; è solo un film cretino; fatto di battute stantie, prive di umorismo, prevedibilissimo e senza ritmo.
Zia Angelina vive la sua perfida senilità in una cittadina della provincia francese perseguitando il piccolo mondo circostante e soprattutto la vecchia serva Odile. Alla morte di costei, si trasferisce armi e bagagli a Parigi in casa dei nipoti che la ospitano, dopo essersi spartiti il malloppo ricavato dalla vendita della vecchia casa. Qui la «zietta», priva di pudori, esercita la sua cattiveria su di una famiglia di sprovveduti ignobili non meno di lei. Quando arriva l’estate la famiglia esasperata decide di partire al gran completo per un villaggio di vacanze, di quelli in cui si fa ballare agli «iloti» il sirtaki, affidando la vecchia alle cure di una governante giovane e grintosa. Finalmente la zia trova pane per i suoi denti, ma fallito un tentativo di corrompere la ragazza portandola dalla sua parte, viene ancora una volta abbandonata. La sua reazione è una simulazione bella e buo.na di abbandono di incapace, che culmina con un incendio sul quale si avventano i mass-media felici di dare in pasto all’opinione pubblica una storia lacrimosa di abbandono e di crudeltà generazionale. Il risvolto imprevisto è una riappacificazione con fuga finale tra la giovane governante e la vecchiaccia che vanno a spassarsela alla faccia di tutto il mondo per bene.
Il difetto principale del trattamento cinematografico di una storia del genere è il suo respiro «televisivo», per più di novanta minuti si susseguono infatti scenette da situation comedy che non riescono però a prendere un respiro narrativo adeguato al grande schermo e che ingenerano noia proprio per la loro ripetitività. Gli attori ci sono sembrati eccellenti tutti dalla vecchia Tsilla Chelton ai comprimari Catherine Jacob, Isabelle Nanty ed Eric Prat, perfetti nel riprodurrre la sordida normalità di una società piccolo-borghese. La fotografia di Philippe Welt dà un efficace contributo alla creazione di giuste atmosfere, con ironiche sottolineature. Le musiche di Gabriel Varled potrebbero anche non esserci: né tolgono né aggiungono alcunché.

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

Lo spazio espositivo della Sala Uno di Piazza di Porta san Giovanni 10, viene messo a disposizione per una rassegna di musica contemporanea dal 10 al 31 gennaio, dal titolo Animato 1991.
Sono sei concerti caratterizzati da una certa omogeneità stilistica, introdotti il 10 gennaio da una compagine di esecutori di talento riuniti sotto l’etichetta di Logos Ensemble (Luigi Mariozzi, clarinetto; Eugenio Becherucci, chitarra; Cristiano Becherucci, pianoforte; Paolo Capasso, violoncello) e impegnati in un programma che spaziava dal 1913 al 1990.
La serata si è aperta con la recentissima composizione di Antonio Iafigliola: Come un lunare richiamo notturno, (1990) per clarinetto, chitarra, violoncello e pianoforte; dalle sonorità evanescenti e cromatizzanti da cui sbucava un persistente frinire di grillo. Sono seguiti di Anton Webern, dall’op. 11: Sehrbewegt (1914) per violoncello e pianoforte; prima potente e aggressivo e poi culminante a piene arcate; e Drei kleine Stucke, dalle perplesse sonorità «armoniche».
Il Capriccio per Siegfried Palm (1968) di Krysztof Penderecki per violoncello solo, era sgraziato ed ovvio nelle scontate sonorità; mentre ci è sembrato un superficiale e salottiero gioco rococò il brano di Francesco Pennisi, Dal manoscritto Sloan (1988) per chitarra e pianoforte.
Dopo il volgare brontolio viscerale dell’inizio, Charisma (1971) di Yannis Xenakis, per clarinetto e violoncello, si disperdeva in un tronfio sbrodolamento di suoni.
Nella pagina di Mauro Cardi, Per il teatro di documenti (1989), per clarinetto solo, abbiamo apprezzato il «ricercare» suggestivo e con tracce di Messiaen.
È stato un momento di entusiasmo quello offertoci dai Vier Stucke (1913) per clarinetto e pianoforte dall’op.5 di Alban Berg, dove abbiamo visto sviluppare in modo magistrale un dialogo ricco di pathos e profondo tra i due strumenti. Forse un po’ estetizzante, ma di solida fattura abbiamo trovato Cane di pietra (1989) di Michele Dall’Ongaro, per chitarrra.
La serata si è conclusa con gli Appunti per un trio (1974), per clarinetto, violoncello e pianoforte, di Mauro Bortolotti: una ricerca sonora molto interessante benché con qualche difficoltà nel coagulare un proprio discorso musicale.
L’esecuzione di tutti i brani oltre che ineccepibile è stata partecipe ed espressiva. Non ci resta che rallegrarci per questa nuova prova di vitalità della musica contemporanea, sia per quanto concerne gli autori sia gli esecutori.

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

È praticamente impossibile isolare nella storia dell’arte un gruppo di artisti ed applicare loro un’etichetta. Questo vale per i «bamboccianti» come per il «gruppo di Barbizon». Sono sì reperibili alcune costanti, ma le contraddizioni interne sono sempre più numerose delle coerenze. L’Otto e il Novecento, affascinati dagli «ismi», hanno inventato etichette a dismisura, appiccicandole dappertutto, come per i vini, assai più facilmente riconoscibili, vi è infatti una certa coerenza nella tecnica di fabbricazione; ma poi le differenze e le ambiguità hanno il sopravvento. Bisogna riconoscere che, spesso, gli stessi artisti amano etichettarsi anche con l’aggiunta di cartigli che ne caratterizzino la d.o.c. (denominazione di origine controllata). Ciò serve a ciascuno per meglio insultare i titolari delle altrui etichette. Che cosa sia l’espressionismo è difficilissimo dirlo, ancor più di quanto non lo sia definire ogni altra corrente artistica.
Nel catalogo di presentazione della mostra Espressionismo: da Van Gogh a Klee. Capolavori della Collezione Thyssen-Bornemisza, ospitata nel restauratissimo e per ora poco visibile Palazzo Ruspoli di Via del Corso 418, si legge, riportata da Peter Vergo, l’invettiva contro gli impressionisti di Kurt Hiller, scritta nel 1911, nella quale essi erano accusati di fabbricare: «null’altro che riproduzioni in cera della natura (…) al pari di macchine impostate in modo efficiente e sensibili ad ogni sfumatura. Noi siamo espressionisti. Per noi è questione di contenuto, l’essenza; l’ethos».
Come si vede, molto rancore verso gli altri e un tentativo impossibile di autodefinirsi. ‘ Terre promesse e conquistate, diaspore, «Die Brücke» e «Der Blaue Reiter», accordi e discordie continui. E poi i grandi ispiratori: Van Gogh e Munch. Ma ispiratori di che?
Questa bella rassegna non guida il visitatore lungo un percorso, ma attraverso il succedersi di emozioni disparate e ricche.
Come giustamente dice lo stesso Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza, creatore della raccolta: «È stato all’inizio degli anni Sessanta che ho acquistato la mia prima opera di un espressionista tedesco. Si trattava di un acquarello di Emil Nolde (…) Rimasi subito colpito dalla gamma dei suoi vividi colori e dall’atmosfera assai particolare che esso emanava.» Una scelta del genere può essere soltanto legata alla storia di un amore e di una passione piuttosto che frutto di una ricerca razionale e filologica.
Di fatto, passando attraverso le sale della mostra ci è accaduto di stupirci per la varietà delle poetiche che le opere e gli autori presenti ci parevano esprimere: dai colorati e fiabeschi mondi del Circo di August Macke, e de Il sogno di Franz Marc, ai tormentati grafismi dell’Autoritratto di Egon Schiele; dal geometrismo polidirezionale e vitreo della Casa ruotante o di Omega 5 (295) «Attrappem» di Paul Klee, alla scomposizione di stampo cubista ricca di cromie sgargianti di Lyonel Feininger. L’osservazione psicologistica del ritratto di Hugo Erfurth con il cane di Otto Dix, contrasta ed integra ad un tempo l’affresco di costume e d’epoca in cui George Grosz immerge i protagonisti della Scena di strada (Kurfiirstendamm). A sé stante, ma non isolato da un discorso estetico, che per quanto contraddetto non viene mai interrotto, risplende l’olio di Van Gogh del 1890 Les Vessenots, Auverse, pennellate e colori da cui nessuno può più prescindere come si può notare osservando la Cava d’argilla di E. L. Kirchner, oppure le pennellate dense e rapide della Fornace di Erich Heckel; anche i Fiori rossi di Emil Nolde ci paiono averne ben presente il ricordo che comunque persiste nei Girasoli splendenti, come è facile intuire sin dal titolo.
Vasilij Kandinskij, il Cavaliere azzurro per eccellenza, galoppa lungo un suo itinerario irripetibile che lo porta dalle ombre suggestive de la Ludwigskirche a Monaco al delirio informale di segni e di luci circoscritte Nell’ovale luminoso, dove solo la geometria pare legare ancora l’artista alla dimensione della realtà.
Ciascuno può comunque trovare il suo riferimento d’elezione, il suo espressionismo anche fuori dalle dottrine: nel Teatro di maschere di Ensor, come ne La casa grigia di Marc Chagall.
Arbitrario o legittimo che sia il raggruppamento delle etichette, resta l’opportunità, non così frequentemente concessa, di riflettere su un mondo che ha segnato un’epoca importante, le cui conseguenze ancora incidono sulla realtà non solo artistica, in cui noi stessi stiamo vivendo.

Che noi abbiamo un grande amore per tutto ciò che è francese è risaputo: amiamo sia la cultura, sia la cucina gallicane e siamo sempre molto e faziosamente affascinati da ciò che ci giunge d’oltralpe.
Perciò è forse segno di partigianeria questo nostro parlare così spesso di ciò che avviene all’Accademia di Francia, attualmente a Villa Medici. Però, pur facendo la tara dei nostri personali gusti, ci sembra di poter obiettivamente affermare che nel bailamme farraginoso e poco serio che contraddistingue la vita culturale di, Roma, Villa Medici offre proposte tra le più serie e stimolanti, sebbene in molti casi appaiano anche discutibili.
Dal sei dicembre 1990 al 24 febbraio 1991 nel bello e articolato spazio sul Pincio si tiene la mostra intitolata H. Fragonard e H. Robert a Roma.
I due artisti del Settecento, quasi contemporaneamente operarono e vissero nella Città dei Papi. Come tutti sanno a quel tempo Roma era poco più che un villaggio; frammezzati da boschi, paludi e praterie sbucavano gruppi di casupole addossati a ruderi vetusti e monumenti insigni. L’esplosine tridentina se riuscì a strutturare rituali fastosi e a costruire qualche monumentale basilica, non riuscì però a fare di Roma un’insigne capitale. Le greggi continuavano a pascolare pacificamente di fronte alla cattedrale di San Giovanni in Laterano. Roma era grande nel sogno di tutti quelli che nutrivano fantasie e memorie: Michelangelo, Bernini e Borromini avevano costruito opere stupende tra boschi e fratte. La città era anomala allora come è oggi: sempre troppo bella e troppo sgangherata. Ben poco certo furono poi in grado di aggiungere i Savoia o i miserabili burocrati della Repubblica, così opachi in confronto allo splendore delle tiare.
Gli artisti che nei tempi andati qui giungevano dai vari angoli del mondo si trovavano di fronte a qualcosa di unico: San Pietro e i pecorai; processioni fastose e risse di ubriachi. Fragonard e Robert furono testimoni di tanto contrasto e cercarono renderlo nelle loro opere. Per ragioni anche burocratiche dovevano produrre il più possibile; così vediamo ripetersi le pressioni: un Fragonard limpido, terso ed ritmico; un Robert dai toni più cupi ed ombrosi, vittime entrambi di una bellezza troppo intensa per non restarne sopraffatti. Lo si vede bene in questa bella mostra che mette a confronto (e noi non ci addentreremo in problemi di attribuzione) i due artisti spesso alle prese con gli stessi soggetti. La luminosità di Fragonard improvvisamente si addensa e si raggruma nelle tensioni di Robert. Sono due modi di cogliere stessa realtà. Chi li segue entrambi nel ro itinerario parallelo (almeno per un momento) artistico ed esistenziale ne ricava un’impressione straordinaria: Villa d’Este e i pastori, i cieli e i vicoli, le lavandaie e i monumenti, i giardini e le cascate si accatastano e si affastellano; diventa quasi entusiasmante ad un certo punto non riuscire più a raccapezzarsi. I due poi paiono moltiplicarsi dal momento che accanto alle loro si vedono anche immagini attribuite a Barthelemy, a Vincent, a Jobert, a Suvée, tutti diversi e tutti uguali. Gli storici e i critici dell’arte hanno materiale quasi infinito di discussione; più semplicemente a molti come noi resta l’ammirazione affascinata e forse nostalgica di un’esperienza artistica fuori del comune.

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

I ministeri sono il male del mondo; hanno soltanto un grandissimo pregio: quello di aver dato spunto alla graffiante ironia di grandi scrittori. Sottosegretari, capi ufficio e vice capi, impiegati di concetto e d’or’ dine, inservienti e spazzini, fanno parte di un mondo ignobile e detestabile, però disperatamente reale. I grandi artisti ci hanno mietuto con necrofilo gusto abbondantemente; ma malgrado ogni trasfigurazione poetica quella ministeriale è una realtà schifosa.
Il libro di due onesti burocrati ministeriali:
Giovanni Carli Ballola e Roberto Parenti, Mozart (ed. Rusconi, 1990, pagg. 907, Lit. 63.000) tenta di ridurre, con disperata pervicacia, Wolfgang Amadeus Mozart ad un musicante da strapazzo che scriverebbe musica imitando questo e quello: Bach padre e figlio, Schobert, Haydn e magari persino Duke Ellington! Anche ci dicono che a sua volta Egli è stato imitato da compositorucoli, come Mendelssohn o Schubert, e non si capisce bene se uguagliandolo o superandolo. Su tutti poi troneggia il truculento Beethoven il quale chissà quale uso ha fatto della musica mozartiana.
Il signor Parenti racconta la vita del Divino Salisburghese con una pedissequa ovvietà di burocrate; tutto quello che riferisce è ovvio, banale ed inessenziale: il buon Leopold, sbagliando tutto, aggrappato all’Ancien régime, offriva ossessivamente Amadeus e Nannerl ad un’aristocrazia ormai in sfacelo, inconsapevole del fatto che il potere anche economico dell’epoca era in mano ai calzolai e agli altri bottegai.
Ancora ci dice Parenti con piatta banalità quanto fosse stupido l’arcivescovo Colloredo, e ci racconta di come il giovane musicista fu preso a calci nel sedere dal Conte Arco.
W. A. Mozart è stato secondo lui davvero quel piccolo impiegato così insignificante?
Non traspare da quelle righe una sola ragione che giustifichi la grandezza di una personalità che oggi, a duecento anni di distanza, ancora il mondo intero osanna come eccelsa. Noi siamo indicibilmente disturbati che tanto entusiasmo celebrativo venga sprecato per ricordare la sua morte. Ci sembra che noi tutti stiamo gettandoci su di essa come sciacalli necrofili. Questo che è appena iniziato dovrebbe essere un anno di raccoglimento e di mestizia. Nel breve arco di trentacinque anni è baluginata una cometa splendente e radiosa. Noi vorremmo chiedere al buon Dio: «Perché solo per così poco tempo?» Se Egli ci rispondesse, forse, troveremmo il senso della vita.
Dal canto suo Giovanni Carli Ballola, musicologo serio, attento e preparato, parla di Mozart come avrebbe potuto fare la sua portiera: tutte le sue composizioni assomigliano a qualcos’altro; le analisi strutturali sono di una banalità insopportabile; qua e là vengono seminati termini come «quartine», «terzine» e «settime» che non hanno alcun significato strutturale od estetico. In quest’opera monumentale avremmo voluto trovare almeno un’affermazione spudorata, un’analisi originale; invece tutto è scontato, banale, inutile.

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

La Trattoria Monti di via San Vito 13, a un passo da piazza Vittorio, è un localino gradevole, accogliente, senza pretese.
Talvolta noi parliamo dei ristoranti dopo esserci stati spesso; tal altra, presi dall’ispirazione, riferiamo le nostre impressioni subito, alla prima esperienza. In queste occasioni certo il nostro giudizio è necessariamente affrettato, così ci è capitato di dover cambiare qualche volta opinione nelle visite successive; però ci piace buttarci un po’ allo sbaraglio, seguendo, oltre che le impressioni di quello che abbiamo gustato, anche l’istinto di scopritori.
Così raccontiamo l’esperienza di una serata gradevole, affidati alle cure di Mario Camerucci, premuroso padrone di casa.
Sebbene non ci sia da gridare al miracolo, è piuttosto raro trovare una combinazione così gradevole di buona cucina, semplice e fragrante, accompagnata da una selezione di vini limitata, ma di qualità; il tutto proposto Con intelligenza e garbo.
Per venire al dettaglio, diremo che ci sono piaciuti l’antipasto di olive ascolane, ciauscolo e carciofi fritti, la ricchissima insalata di funghi e tartufi e gli ottimi ravioli di ricotta, dalla soffice pasta e dal gustoso . ragù. Benché di sapore casalingo abbiamo apprezzato le .proposte dei secondi: polpettine al pomodoro e funghi; timballo ( ma sarebbe più appropriato dire spezzato ) di coniglio con patate, sapido e ricco di aromi; e l’abbondantissimo piatto dei bolliti misti, accompagnati da un’ottima mostarda di frutta di Cremona e da una salsa verde forse un po’ «svanita». Abbiamo accompagnato i piatti con un buon Pinot grigio di Livio Felluga e un Taurasi di Mastroberardino dal nobile bouquet. Allegramente, abbiamo concluso con una buona torta di pere e noci e un più moscio crème caramel, con l’immancabile carosello di grappe finali, di buon livello.
Il conto, non basso, varia proporzionalmente alle caratteristiche di ogni piatto: noblesse oblige.

69 – Gennaio ‘91

martedì, 1 gennaio 1991

Come tutti sanno, Don Chisciotte è un emblema: matto, saggio, stralunato, vigliacco, illuso, ma soprattutto sognatore.
Chissà perché tutti lo sovrappongono al Sigismondo di Calderon de la Barca, mettendo in atto una falsificazione anche se spesso si risolve in un trucco felice e di indubbia efficacia. Il Seicento è un’epoca che trascende se stessa: ha qualcosa dell’antichità ellenica; è qui, là e altrove.
Chiaroscuri e suggestioni si sovrappongono e quelle atmosfere e quelle figure assumono significato simbolico. Il Seicento è grande e miserabile, dorato e straccione;
rappresenta l’umanità perché gli uomini non sono riusciti mai ad essere diversi. Cervantes scrisse uno pseudo-romanzo monumentale e contraddittorio, in cui un hidalgo, nella sua demenza quotidiana vuole ripercorrere le gesta degli antichi cavalieri erranti. Tutti conosciamo le sue avventure strampalate; tutti conosciamo il meta-romanzo: storia nella storia in cui Don Chisciotte è raccontato e si racconta. La sua follia ha dato stura a fiumi di chiacchiere: Don Chisciotte è pazzo o non è pazzo? Tony Cucchiara dice di aver trovato anche un testo di certo abate Giovanni Meli in cui è riportata una versione della storia di Cervantes, inserita però in un contesto folcloristico siciliano. Alcune suggestioni sono le stesse dell’originale spagnolo, ma ovviamente lo sfondo è un po’ diverso e la lingua usata è un’invenzione pseudo-arcaica-siculo-iberica. I giri di frase, di fatto, sono una contaminazione tra Mimmo Modugno e Sciascia. Riconosciamo che l’effetto ottenuto da Cucchiara non è per nulla sgradevole ed ha una sua immediata efficacia; le disquisizioni filologiche le lasciamo poi ad altri più esperti di noi.
La storia di Don Chisciotto di Girgenti è in parte quella tradizionale e in parte conosce l’innesto di argomenti originali come l’orribile moglie persecutoria; la riduzione di Dulcinea ad apparizione onirica e la parentela tra il Cavaliere e Sancho Panza. I meccanismi scenici di Bruno Buonincontri sono ben costruiti: non realistici, ma concretamente efficaci, come i costumi di Silvia Polidori. La regia di Armando Pugliese fa muovere i singoli e le masse in un ottimo amalgama, senza stanchezza e cadute di ritmo.
Lando Buzzanca non mortifica la sua prestanza fisica, non priva di una certa fascinosa sensualità, tuttavia riesce ad essere un Don Chisciotto credibile. Abbiamo trovato il Sancho Panza di Mimmo Mignemi, reso con una recitazione ricca di sfumature e di sfaccettature. Molto bravo Sergio Sivori, ammiccante Pescatore. Molto puntuale la prepotente presenza di Clelia Piscitello, che sostituiva Anna Malvica, nei panni di Nunna «la bella». Tutti gli altri sono stati all’altezza della situazione.
Le musiche di Cucchiara, estremamente accattivanti, oscillano graziosamente tra il rock e il repertorio folc1oristico; ottima l’orchestrazione di Cicci Santucci.
Purtroppo, come troppo spesso accade, anche questa volta ci dobbiamo lamentare dell’amplificazione: Buzzanca con la «pulce» sul bavero, aveva la voce di un Plutone inviperito, ad un volume inverosimile ed insopportabile. Gli altri, che cantavano troppo spesso in play-back, finivano col sembrare marionette prive delle corde vocali. Per ragioni professionali sappiamo che registi e produttori impongono quegli infernali aggeggi che si chiamano «sintetizzatori», noi stessi ne siamo stati vittime! Come risuona meglio una semplice chitarra o una fisarmonica, invece di queste macchine roboanti ed infernali che fanno tutto, sì, ma tutto male: sonorità spettrali e inaccettabili, raccapriccianti e scostumate! Noi amiamo ricordare che in un nostro spettacolo inquinato da tali scelte indecorose, abbiamo dovuto operare un vero e proprio blitz contro il regista così che abolimmo a Benevento quelle invereconde vibrazioni mettendoci personalmente alla tastiera di un piccolo, ma umanissimo organetto; avendo la soddisfazione di variare ogni sera il commento musicale. Perché i musicisti non si ribellano, magari ritornando agli zufoli?

Psicoanalisi contro n. 69 – Non sono un traditore

martedì, 1 gennaio 1991

Nella notte tra il quattro e il cinque dicembre 1791, moriva a Vienna W.A. Mozart. L’Austria e il mondo hanno già iniziato le celebrazioni del duecentesimo anniversario. Anniversario di che? Di uno dei lutti più tremendi che abbia colpito l’umanità. Per me questo è un anno di mestizia. Allora si interruppe un canto. Svanì tra le stelle in una notte di inverno colui che aveva raccolto direttamente dalle mani di Dio la Musica. Perché festeggiare una ricorrenza in occasione della quale si dovrebbe solo piangere? Nella Sua casa natale a Salisburgo vendono un bello e ingenuo calendario celebrativo di questo anno mozartiano. Duecento anni sono decisamente troppo tempo per qualunque vita d’uomo; ma ugualmente non capisco perché si voglia far festa.
Nonostante queste considerazioni, anch’io con quelli che mi stanno intormo, abbiamo deciso di partecipare a questa «commemorazione»; tutti i numeri del 1991 di questa rivista saranno dedicati a Mozart.
Non so precisamente cosa questo voglia dire, ma è un gesto che riveste per me un grande significato. Anche mi domando: perché pensare a Lui soltanto per un anno? Non so quando mi sono accorto di questo amore. Ero molto piccolo e non avevo ancora iniziato a studiare il pianoforte. Credo di ricordare, ma è quasi certamente un «falso ricordo», che fu in campagna. Su di un muro si proiettava l’ombra di una vite: merletti scuri su di una parete a calce color verde pallido. Credo di aver detto quel giorno: Ti amerò per sempre.
Ero davvero piccolo, magro e già portavo gli occhiali. Forse invece non è vero niente: non sarei stato neppure capace di formulare una frase come quella, così definitiva, così da canzonetta, parodia di qualche verso di un’ingenua poesia romantica. Poi ci fu direttamente la musica. II pianoforte, i tasti sotto le dita da cui scaturivano le note. lo ho suonato sempre male la musica di Mozart. Quando ci provo sento le dita insicure, incapaci di trasmettere agli altri quello che io sento. Forse è una musica che nessuno riesce a suonare in modo adeguato. Comunque ho l’impressione di suonarla peggio di tutti gli altri.

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Spesso qualcuno mi do manda, oziosamente, nel corso di una conversazione, quale sia a mio avviso il più grande musicista della storia. Io rispondo: Johann Sebastian Bach. Per lo più i miei interlocutori sgranano allora gli occhi e rimangono interdetti; si aspettavano che io rispondessi: Mozart. Se mi chiedono perché non ho fatto il nome di Mozart, io replico sempre allo stesso modo: Mozart non è stato il più grande musicista.
È stato il più grande artista che il mondo abbia avuto, in assoluto. Non solo è superiore a qualunque compositore, ma anche è al di sopra di tutti i pittori, poeti, scultori, architetti apparsi su questa terra. Mozart è stato il più grande uomo che sia mai esistito, secondo soltanto a Gesù di Nazareth. Mi guardano come se fossi pazzo. I più benevoli sorridono con tenerezza; gli altri si irrigidiscono irritati. Io riesco a rimanere tranquillo e sereno, perché detto ciò che realmente penso; ciò in cui credo ed ho sempre creduto, in cui crederò sempre. Gli donato tutto me stesso: cuore e mente, gli ho giurato amore; ed io non sono un traditore. Posso essere vigliacco, ipocrita, ambiguo e disonesto; ma non sono un traditore. O meglio: tradisco di rado e comunque non tradirò mai Mozart. Di questo sono certo. Questa è una sicurezza non solo umana; viene di più lontano: dalle stelle. Alle quali in una notte fredda di dicembre Egli è tornato.

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Ovviamente ho riempito la mia casa di partiture, dischi, nastri di musiche mozartiane, in più edizioni; di biografie e trattati, non solo in italiano; di ritratti e cimeli che spesso accarezzo dolcemente. Alcuni sapranno che io sono anche uno psicoanalista. Uno che si arroga il diritto di affrontare il disagio psichico delle persone. Sono anche un insegnante, supervisore e didatta. Costoro si domanderanno come una persona così squinternata, esaltata, possa sentirsi legittimato a curare ed insegnare. Io mi sono preparato alla mia professione di terapeuta con scrupolosa onestà. So di commettere ancora errori; ma so anche di conseguire eccellenti risultati coi miei pazienti. Cosa importa dunque che io sia un tipo bizzarro, dal momento che riesco a gestire con successo la mia vita professionale?
Voglio avere il diritto di affermare che un giorno mi sono innamorato di una persona che era la musica e l’arte insieme; attraverso Mozart io continuo ad amare la musica e l’arte. Se non lo avessi incontrato forse sarei rimasto ottusamente chiuso alla bellezza e all’amore. Quando tento di suonare la sua musica, quando l’ascolto, provo sensazioni così intense, profonde e sconvolgenti che spesso ne resto quasi annichilito. Vorrei che la vita non finisse più per poter ascoltare infinitamente. Spero comunque che potrò riascoltarlo tra le stelle dove Lui è sparito una notte di dicembre.

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Gesù disse: i tuoi peccati ti sono perdonati, poiché hai molto amato.
Io so di aver peccato e di continuare a peccare anche troppo; so anche però di aver amato e di amare molto. Amo Mozart e la sua musica. Attraverso di Lui amo l’amore. L’amore per me non è qualcosa di astratto; l’amore sono gli altri, quelli che mi circondano. Purtroppo nella mia anima c’è anche troppo odio. Sono ipocrita ed odio gli ipocriti. Sono vigliacco ed odio i vigliacchi. Sono bugiardo e detesto i bugiardi. Ugualmente spero che sarò perdonato poiché ho molto amato. lo non sono un traditore.

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Nella mia lunga, lunghissima vita, ho letto molti libri su Mozart, belli e brutti, anche sciocchi e pieni di errori; alcuni sinceramente entusiasmanti. Tutti gli autori fanno però ciò che un buono studioso, critico e filologo deve fare: dividono la vita in periodi, mettono le opere mozartiane in prospettiva; tentano di capire l’importanza del padre Leopold, riordinano il catalogo, correggendo la numerazione di Kechel.
Analizzano il suo motto: do-re-fa-mì riferendolo ad un inciso gregoriano; valutano le trascrizioni e rielaborazioni da lui fatte delle musiche di altri, come Haendel. Ciascuno trova più significative e pregnanti alcune pagine di altre più convenzionali; gli si attribuisce magari uno stile «galante». Cose tutte vere, forse, ma che a me non dicono molto. Io leggo, studio, medito, noto, appunto ma alla fine mi resta solo una gran confusione. Penso che se mi proponessi di fare l’esegesi delle sue composizioni, vorrei liberarmi di tutto il materiale che queste letture mi hanno appiccicato addosso per considerarle invece come un unico gesto, un unico canto che comincia e poi svanisce tra le stelle di una notte di dicembre. Interrotto troppo presto; ma forse non era possibile dire più di così. Oltre è andato soltanto l’Uomo di Nazareth.

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Quando ascolto la musica dei miei colleghi dell’altra mia professione, di compositore, dai minori ai maggiori: Baçh, Beethoven, il mio adorato Schubert, Strawinski, Casella e così via, sono preso da una grande invidia per le tantissime pagine di così intatta bellezza, capace di rapire e incantare. Penso per esempio alla grande fuga per quartetto d’archi di Beethoven che continua ad affascinarmi dopo anni di ascolto, capace ogni volta di dirmi qualcosa di nuovo; oppure penso all’olimpica semplicità dei madrigali di Monteverdi, alle cupe ombre della musica di Schobert, poco noto, ma che mi piace tantissimo, alla tenerezza grandissima di Chopin, alla sapienza compositiva di Reger, alla profondità di Hindemith, alla disarmante perfezione di Dallapiccola, ad altri ed altri ancora. Musicisti che destano in me una furibonda invidia, talvolta addirittura iconoclastica, lo ammetto: vorrei distruggere alcune di quelle opere, perché mi umiliano. Mi sento un rancido invidioso capace al confronto solo di sciocchi balbettamenti e ciò vale per i contemporanei come per gli autori del passato. Non riesco davvero a mettere in prospettiva quello che per me è un discorso musicale continuo e sempre attuale. Non ho voglia di nascondere questi miei sentimenti dietro a qualche forma di pudore, come facevano le damine di un tempo che nascondevano dietro il ventaglio le loro impudenze profumate di cipria e veleno. Una volta tanto non voglio nascondermi neppure dietro cifre psicoanalitiche: parlo come un uomo qualunque, rifiutando deliberatamente ogni camuffamento. Provo questa invidia, questo rancoroso livore.

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Invece non riesco ad invidiare Mozart: è talmente più grande, più bella, possente e divina, la sua musica, al confronto della quale la mia non è che uno straccetto. Chi legge queste righe, si considera buon intenditore di psicoanalisi ed ecco che facilmente ammicca: Eccolo costui che si abbassa per esaltarsi. Invece io mi ribello a questo sospetto. Così facendo so di peggiorare la mia posizione agli occhi dei miei psicoanalitici lettori: «la ribellione è una negazione; realmente la sua considerazione di sé è smisurata». Imperterrito continuo a negare. Voglio forse insinuare che, la psicoanalisi sia soltanto un’illusione? Non posso pensare una cosa simile; se no non potrei continuare a fare il mestiere dello psicoanalista. Semplicemente voglio affermare che in qualche caso è bene ammettere che anche la scienza ha limiti che non può superare: io non invidio Mozart, perché lo amo. Non credo si possa invidiare chi si ama davvero. Non serve parlare di pulsioni o rimozioni, di contorte vie dell’inconscio: sono argomenti ineccepibili; ma non sono sufficienti. Si può trionfare su tanta scoperta ingenuità. So che vorrei scrivere la musica più bella che sia mai stata scritta… Da qualunque altro… Io mi arrabatto quando compongo… Ogni altro si arrabatta al confronto con quella musica.

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Mi accorgo di essermi scoperto, come si diceva un tempo: mi sono sputtanato; ma una volta tanto bisogna avere il coraggio di parlare di amore. Io sono innamorato e non sono un traditore. Dopo tutto quanto ho detto, chi legge facilmente mi biasimerà, ci vuol poco a capire quanto sia grande anche il mio desiderio di tradire, oltre che la consapevolezza di aver già largamente tradito. La mia pretesa umiltà davanti all’arte mozartiana è pura presunzione di un compositore piccolo e meschino, insoddisfatto del proprio lavoro. Questa «comprensione» mi fa teneramente sorridere e non mi toglie nemmeno un poco della soddisfazione di essermi alleggerito, liberandomi dai panni dello psicoanalista. Non darò la soddisfazione ai miei lettori di concludere battendomi il petto e lacerandomi le vesti, dicendo: È vero, sono un traditore. Non ho mai saputo amare, non voglio amare.
Invece resto tutto sommato sufficientemente tranquillo, seppure leggermente a disagio per tanta mancanza di pudore. So di non poter mentire tanto quando parlo di Mozart, la voglia di essere sincero è troppo forte, anche se è una sincerità scandalosa, che va oltre ogni possibile e legittimo capovolgimento. Non voglio essere adesso uno psicoanalista e se non è possibile farne a meno voglio essere uno psicoanalista che si rifiuta di essere solo un robot imbecille che ha «introiettato» (mi pare si dica così) alcune verità di carta come quelle scritte sugli involucri di alcuni cioccolatini, tanto assennate, quanto inerti ed estranee ad ogni contesto reale. Sono frasi bellissime o terribili firmate da grandi nomi, come Goethe o Platone. Anche le frasi che ho appena detto potrebbero forse stare avvolte intorno ai gianduiotti, delizie di cioccolato della mia terra nordica e brumosa.

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Il mio amore è stato battezzato con i nomi di Giovanni Crisostomo Wolfango, Teofilo, si firmava semplicemente Amadé. Io non solo amo la sua musica ma pure sono certo che è l’opera d’arte più perfetta che l’umanità abbia conosciuto. Dio esiste perché è esistito Mozart. Vale la pena vivere solo per ascoltare quella musica, che io amo, come amo carnalmente il suo autore. Sono geloso anche di tutti quelli che lo amano, che pure sento come amici. Forse un giorno ci ritroveremo tutti tra le stelle… O chissà dove. Ma a dispetto di tutti coloro che avranno scoperto cose molto vere psicoanaliticamente io Gli voglio dire ancora una volta: Ti amo e non ti tradirò mai. Io non sono un traditore.