69 – Gennaio ‘91

gennaio , 1991

Il Teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la stagione 1990/91 con la Tosca di Giacomo Puccini, su libretto di Illica e Giacosa, dal dramma di Victorien Sardou. La prima esecuzione andò in scena esattamente novant’anni fa in questo stesso teatro allora chiamato Costanzi. Tutti conoscono la musica e la trama di questo drammone verista. Il libretto scricchiola continuamente: situazioni inverosimili, spesso ridicole e sempre esagerate lo contraddistinguono. Le azioni però sono emblematiche; e i sentimenti essenziali hanno una loro forza intrinseca, spesso travolgente. L’amore disgraziato e disperato di Tosca e Cavaradossi, la diabolica perfidia lasciva di Scarpia sono inoltre rivestite da una musica talora possente e in altri momenti appassionata. Il diatonismo scoperto di molte melodie famosissime e di grande efficacia si mescola con un’orchestrazione ricca ed astutissima. Gli impasti sonori costruiscono macchie di colore che cangiano continuamente e si assottigliano in una strumentazione accattivante che talvolta poi torna ad ispessirsi, in un’alternanza che accompagna l’orecchio in avventure sonore semplici ma coinvolgenti.

Il 13 dicembre all’Opera c’erano tanti addobbi floreali, e tra i fiori spuntavano le teste di due capi di Stato, quelle di tanti primi ministri, moltissimi ministri secondi e uomini politici di ogni parte e poi ancora uomini di spettacolo, stilisti e signore e signori del pettegolezzo; scarseggiavano forse i rappresentanti del mondo della cultura. I maschi erano quasi tutti in «smoking» e le donne in abiti da sera brutti quanto costosi.

L’orchestra guidata da Daniel Oren ha aperto la serata con l’Inno di Mameli e con quell’orribile e funebre brano impapocchiato (ci sembra di ricordare da Karajan), tratto dal finale della Nona di Beethoven, che è l’Inno d’Europa; eseguito dai fiati in modo addirittura raccapricciante.

Sulla scena due colossi del teatro lirico: Luciano Pavarotti e Rajna Kabaivanska.

Il primo, secondo noi, canta sempre malissimo, però quella sera ha ecceduto: il tenoruccio di un’operetta di provincia avrebbe cantato con voce più espressiva e intonata. Il suo era un melodiare sempre identico, senza sfumature, con i fiati presi in modo inverosimile, dai ritmi imprecisi, la dizione insopportabilmente incolore, che non risparmiava alcuni dei più stantii moduli ottocenteschi. Letteralmente insopportabile è stato il suo Lucean le stelle dall’interpretazione molliccia ed assolutamente senza nerbo. La sua presenza scenica non era da meno: oscillante tra un Gambadilegno e Hulk, molto più pachidermico di quanto la sua stessa figura fisica richiederebbe.

Nonostante timbro e colorito della sua voce non siano i più adatti per il personaggio di Tosca, la straordinaria vocalità della Kabaivanska le ha permesso di essere sempre all’altezza del ruolo. Inoltre la sua grande sapienza teatrale le ha concesso di essere giustamente tenera, espressiva e disperata. Realmente superba la sua interpretazione di Vissi d’arte: tesa fino allo spasimo, dolce ed accorata.

Che dire degli altri interpreti? Tutti ci sono parsi adeguati. Ingvar Wixell nella sua parte di Scarpia è risultato corretto, senza però entusiasmare.

L’orchestra, sufficientemente attenta e precisa, seguiva onestamente le indicazione del direttore che pur in buona fede ha sempre diretto troppo forte, soprattutto nei primi due atti.

Il coro è risultato nell’insieme capace di un buon impasto sonoro.

Le scenografie sono state fin troppo discusse; a noi è parso semplicemente che mentre si può intervenire con giudizio, pur nella coerenza cui non si vuole rinunciare, come ha fatto Ceroli, non ha invece senso violentare un’atmosfera scenica e poetica con l’inserimento di un linguaggio narcisisticamente isolato ed autocentrico, oltre che intrinsecamente brutto, come ha preteso di fare il transavanguardista Cucchi: nel complesso anche con l’apporto di Fini è venuto fuori un certo pasticcio, che non ha favorito le intenzioni registiche di Mauro Bolognini, timidissimo più che altro.