69 – Gennaio ‘91

gennaio , 1991

È praticamente impossibile isolare nella storia dell’arte un gruppo di artisti ed applicare loro un’etichetta. Questo vale per i «bamboccianti» come per il «gruppo di Barbizon». Sono sì reperibili alcune costanti, ma le contraddizioni interne sono sempre più numerose delle coerenze. L’Otto e il Novecento, affascinati dagli «ismi», hanno inventato etichette a dismisura, appiccicandole dappertutto, come per i vini, assai più facilmente riconoscibili, vi è infatti una certa coerenza nella tecnica di fabbricazione; ma poi le differenze e le ambiguità hanno il sopravvento. Bisogna riconoscere che, spesso, gli stessi artisti amano etichettarsi anche con l’aggiunta di cartigli che ne caratterizzino la d.o.c. (denominazione di origine controllata). Ciò serve a ciascuno per meglio insultare i titolari delle altrui etichette. Che cosa sia l’espressionismo è difficilissimo dirlo, ancor più di quanto non lo sia definire ogni altra corrente artistica.
Nel catalogo di presentazione della mostra Espressionismo: da Van Gogh a Klee. Capolavori della Collezione Thyssen-Bornemisza, ospitata nel restauratissimo e per ora poco visibile Palazzo Ruspoli di Via del Corso 418, si legge, riportata da Peter Vergo, l’invettiva contro gli impressionisti di Kurt Hiller, scritta nel 1911, nella quale essi erano accusati di fabbricare: «null’altro che riproduzioni in cera della natura (…) al pari di macchine impostate in modo efficiente e sensibili ad ogni sfumatura. Noi siamo espressionisti. Per noi è questione di contenuto, l’essenza; l’ethos».
Come si vede, molto rancore verso gli altri e un tentativo impossibile di autodefinirsi. ‘ Terre promesse e conquistate, diaspore, «Die Brücke» e «Der Blaue Reiter», accordi e discordie continui. E poi i grandi ispiratori: Van Gogh e Munch. Ma ispiratori di che?
Questa bella rassegna non guida il visitatore lungo un percorso, ma attraverso il succedersi di emozioni disparate e ricche.
Come giustamente dice lo stesso Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza, creatore della raccolta: «È stato all’inizio degli anni Sessanta che ho acquistato la mia prima opera di un espressionista tedesco. Si trattava di un acquarello di Emil Nolde (…) Rimasi subito colpito dalla gamma dei suoi vividi colori e dall’atmosfera assai particolare che esso emanava.» Una scelta del genere può essere soltanto legata alla storia di un amore e di una passione piuttosto che frutto di una ricerca razionale e filologica.
Di fatto, passando attraverso le sale della mostra ci è accaduto di stupirci per la varietà delle poetiche che le opere e gli autori presenti ci parevano esprimere: dai colorati e fiabeschi mondi del Circo di August Macke, e de Il sogno di Franz Marc, ai tormentati grafismi dell’Autoritratto di Egon Schiele; dal geometrismo polidirezionale e vitreo della Casa ruotante o di Omega 5 (295) «Attrappem» di Paul Klee, alla scomposizione di stampo cubista ricca di cromie sgargianti di Lyonel Feininger. L’osservazione psicologistica del ritratto di Hugo Erfurth con il cane di Otto Dix, contrasta ed integra ad un tempo l’affresco di costume e d’epoca in cui George Grosz immerge i protagonisti della Scena di strada (Kurfiirstendamm). A sé stante, ma non isolato da un discorso estetico, che per quanto contraddetto non viene mai interrotto, risplende l’olio di Van Gogh del 1890 Les Vessenots, Auverse, pennellate e colori da cui nessuno può più prescindere come si può notare osservando la Cava d’argilla di E. L. Kirchner, oppure le pennellate dense e rapide della Fornace di Erich Heckel; anche i Fiori rossi di Emil Nolde ci paiono averne ben presente il ricordo che comunque persiste nei Girasoli splendenti, come è facile intuire sin dal titolo.
Vasilij Kandinskij, il Cavaliere azzurro per eccellenza, galoppa lungo un suo itinerario irripetibile che lo porta dalle ombre suggestive de la Ludwigskirche a Monaco al delirio informale di segni e di luci circoscritte Nell’ovale luminoso, dove solo la geometria pare legare ancora l’artista alla dimensione della realtà.
Ciascuno può comunque trovare il suo riferimento d’elezione, il suo espressionismo anche fuori dalle dottrine: nel Teatro di maschere di Ensor, come ne La casa grigia di Marc Chagall.
Arbitrario o legittimo che sia il raggruppamento delle etichette, resta l’opportunità, non così frequentemente concessa, di riflettere su un mondo che ha segnato un’epoca importante, le cui conseguenze ancora incidono sulla realtà non solo artistica, in cui noi stessi stiamo vivendo.

Che noi abbiamo un grande amore per tutto ciò che è francese è risaputo: amiamo sia la cultura, sia la cucina gallicane e siamo sempre molto e faziosamente affascinati da ciò che ci giunge d’oltralpe.
Perciò è forse segno di partigianeria questo nostro parlare così spesso di ciò che avviene all’Accademia di Francia, attualmente a Villa Medici. Però, pur facendo la tara dei nostri personali gusti, ci sembra di poter obiettivamente affermare che nel bailamme farraginoso e poco serio che contraddistingue la vita culturale di, Roma, Villa Medici offre proposte tra le più serie e stimolanti, sebbene in molti casi appaiano anche discutibili.
Dal sei dicembre 1990 al 24 febbraio 1991 nel bello e articolato spazio sul Pincio si tiene la mostra intitolata H. Fragonard e H. Robert a Roma.
I due artisti del Settecento, quasi contemporaneamente operarono e vissero nella Città dei Papi. Come tutti sanno a quel tempo Roma era poco più che un villaggio; frammezzati da boschi, paludi e praterie sbucavano gruppi di casupole addossati a ruderi vetusti e monumenti insigni. L’esplosine tridentina se riuscì a strutturare rituali fastosi e a costruire qualche monumentale basilica, non riuscì però a fare di Roma un’insigne capitale. Le greggi continuavano a pascolare pacificamente di fronte alla cattedrale di San Giovanni in Laterano. Roma era grande nel sogno di tutti quelli che nutrivano fantasie e memorie: Michelangelo, Bernini e Borromini avevano costruito opere stupende tra boschi e fratte. La città era anomala allora come è oggi: sempre troppo bella e troppo sgangherata. Ben poco certo furono poi in grado di aggiungere i Savoia o i miserabili burocrati della Repubblica, così opachi in confronto allo splendore delle tiare.
Gli artisti che nei tempi andati qui giungevano dai vari angoli del mondo si trovavano di fronte a qualcosa di unico: San Pietro e i pecorai; processioni fastose e risse di ubriachi. Fragonard e Robert furono testimoni di tanto contrasto e cercarono renderlo nelle loro opere. Per ragioni anche burocratiche dovevano produrre il più possibile; così vediamo ripetersi le pressioni: un Fragonard limpido, terso ed ritmico; un Robert dai toni più cupi ed ombrosi, vittime entrambi di una bellezza troppo intensa per non restarne sopraffatti. Lo si vede bene in questa bella mostra che mette a confronto (e noi non ci addentreremo in problemi di attribuzione) i due artisti spesso alle prese con gli stessi soggetti. La luminosità di Fragonard improvvisamente si addensa e si raggruma nelle tensioni di Robert. Sono due modi di cogliere stessa realtà. Chi li segue entrambi nel ro itinerario parallelo (almeno per un momento) artistico ed esistenziale ne ricava un’impressione straordinaria: Villa d’Este e i pastori, i cieli e i vicoli, le lavandaie e i monumenti, i giardini e le cascate si accatastano e si affastellano; diventa quasi entusiasmante ad un certo punto non riuscire più a raccapezzarsi. I due poi paiono moltiplicarsi dal momento che accanto alle loro si vedono anche immagini attribuite a Barthelemy, a Vincent, a Jobert, a Suvée, tutti diversi e tutti uguali. Gli storici e i critici dell’arte hanno materiale quasi infinito di discussione; più semplicemente a molti come noi resta l’ammirazione affascinata e forse nostalgica di un’esperienza artistica fuori del comune.