79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92

gennaio , 1991

Il regista Terry Gilliam è indubbiamente un buon confezionatore di film. Il suo La leggenda del re pescatore, nonostante un’eccessiva lunghezza riesce sempre a tener viva l’attenzione, a divertire e qualche volta persino a commuovere. Certo, questa è soprattutto un’operazione commerciale che sta alla vera arte filmica come i San Pietro di plastica, con i carillons stonati, e il Papa che s’affaccia alla finestra, in vendita nei negozi di souvenirs stanno alla vera spiritualità. In questo film tutto è fasullo e un po’ stupido. La storiella è melensa e non viene riscattata neppure dal finale dichiaratamente omosessuale. L’emergente conduttore radiofonico di una trasmissione di grande successo, cade vittima del proprio potere di persuasione, inducendo, senza volerlo davvero, un suo ascoltatore a commettere una strage in una discoteca. Ridotto al fallimento da quell’errore che ha compromesso la sua carriera, una notte si trova salvato in extremis da un barbone allucinato e pazzo di nome Perry, che non è altri che lo stravolto marito di una delle vittime della strage, alla ricerca di se stesso e del Sacro Graal tra la spazzatura di New York. Convinto di dover compiere qualcosa che ripari ai danni così tragici che non sapeva di aver provocato e per ricambiare la «cortesia», Jack (così si chiama il bell’eroe) si lascia progressivamente coinvolgere dal delirio poetico dell’ex professore impazzito e straccione, fino a travestirsi da Robin Hood e a rubare il Sacro Graal dalla biblioteca del palazzo neo-gotico di un magnate newyorkese. I due contenti e rinsaviti vanno poi ad esprimere la loro soddisfazione e il loro sentimento amoroso, mettendosi nudi al chiar di luna nel Central Park insieme ad un allusivo e simbolico Pinocchietto di legno.
Ciò che abbiamo trovato più squallido e forse irritante è vedere ripetuto il solito discorso che tende ad esaltare una supposta poeticità della follia. È vero che le allucinazioni del «matto» nel film sono esplicitamente rappresentate per coinvolgere lo spettatore ed accentuare l’aspetto favolistico, però il messaggio che passa è sempre lo stesso: i veri sani sono i matti, in questo mondo di convenzioni e banalità. Robin Williams interpreta il personaggio di Perry con grande maestria retorica, spacciando alla perfezione un messaggio di «finto realismo» che persuade proprio per la sua falsità che però va incontro ai desideri dello spettatore. Jeff Bridges si incarica soprattutto di distrarre chi osserva dall’assurdità delle situazioni in cui il suo Jack viene a trovarsi sprigionando ad ogni inquadratura tutte le possibilità di una fascinazione sensuale e talvolta esplicitamente sessuale assolutamente «fantastica». A questa impostazione decisamente non realistica dei due attori, fa da contraltare una stridente scelta interpretativa dei due personaggi femminili sostenuti da Amanda Plummer e Mercedes Ruhel. Le due attrici si impegnano in uno sforzo di grande realismo drammatico che impedisce loro sempre di entrare in sintonia con i loro compagni, nella storia e nella tecnica recitati va. Il regista dimostra ottime capacità narrative e un bel ritmo che non sono compromessi più di tanto dalle scelte di una ideologia qualunquistica. La fotografia sotto la direzione di Roger Pratt si dimostra elemento decisivo nell’opera di convinzione. Le musiche di George Fenton sono di buona fattura e spaziano dal sinfonismo neo-romantico, al jazz e al rock.