Archivio di luglio 1987

Psicoanalisi contro n. 34 – I cavalli di Antistene

mercoledì, 1 luglio 1987

Gli antichi prima di cimentarsi con la poesia invocavano la divinità. Dante, alle soglie del «Paradiso» invoca Apollo, perché lo assista nel realizzare il suo proposito di narrare ciò che è inenarrabile: dovrà infatti parlare della sua visione di Dio e della Trinità; avrà quindi bisogno di teologia e arte nello sforzo erculeo di raccontare come Dio possa essere visto uno e trino. Dopo tanto sforzo, la sua mente sopraffatta si smarrisce, come «percossa da un fulgore» ed egli si ritroverà a contemplare le più consuete stelle.
È forse più facile parlare delle stelle? Io penso di no; io penso che la divinità sia sempre presente, nelle piccole e grandi cose della terra e del firmamento. La divinità era partecipe della poesia di Mimnermo come della musica di Bach: il primo smarrito nel timore della vita che passa, il secondo solidamente tranquillo, avvolto in una rete di musica, prigioniero, ma salvo. Dio non ha paura neppure di essere partecipe del quotidiano esistere delle cose ed è lontano solo dagli imbecilli e dai vigliacchi. Ma, oltre che dal dio, da dove sorge l’ispirazione artistica, da cosa nasce l’arte?

2.
Il romanticismo ha dato all’occidente un importante contributo alla teorizzazione dell’arte, formulando ipotesi sulle sue origini, che pur essendo presenti implicitamente già da secoli nella storia della cultura, pure non erano mai state organicamente puntualizzate.
Secondo alcuni teorici dell’epoca romantica l’arte sorgerebbe dall’inconscio e l’artista sarebbe preda dell’ispirazione; tanto è vero che egli sentirebbe la propria opera sua solo in parte. Dagli abissi delle pulsioni, dei desideri, dai fantasmi dell’inconscio sorge l’arte; la coscienza ne modula l’espressione, la tecnica ne rende possibile l’estrinsecazione e la comunicazione. Fantasie incontrollabili, antiche come l’universo esplodono nell’opera d’arte, e l’uomo, l’artista, ne è quasi sopraffatto: colui che crea è più preda di quanto non sia padrone della sua ispirazione. Questo è anche ciò che più o meno consapevolmente crede il senso comune.
I teorici romantici nelle loro formulazioni più esasperate (e anche il senso comune) fanno dell’artista una sorta di vittima delle forze inconsce; ma io penso che il loro sia un atteggiamento riduttivo. A tali teorie romantiche sull’arte e sull’ispirazione io preferisco il concetto più grandioso, e forse apparentemente più retorico, di entusiasmo, nel suo significato di presenza della divinità in noi.

3.
Quella romantica non è stata l’unica riflessione organica sull’arte: parallelamente si è anche pensato che l’arte sia il frutto di un alchimistico dosaggio di principi razionali che tendono al bello, all’equilibrio, al sobrio e all’armonico. Secondo queste teorie, l’arte non deve essere «sturm und drang», ma deve essere razionale e consapevole ricerca della misura. Ma non solo.
Contrariamente a quanto comunemente si crede però la ragione non è mai completamente razionale; anzi, io credo sia quanto di più irrazionale esista nell’essere umano. La ragione è una forma di emozione; è un inganno quello che ci fa credere che la razionalità coincida con la coscienza. Scegliere la razionalità significa scegliere un modo d’essere e la ragione è uno strumento che può servire a dirigersi nel mondo; ma non è la luce fredda e obiettiva che illumina senza incertezze: è una luce ambigua e confusa come l’essere umano che l’ha scelta.
La psicoanalisi ha scoperto la razionalizzazione ed ha usato questo termine in modo quanto mai approprialo per definire l’inganno della ragione. Razionalizzare vuol dire parlare d’altro: parlare di giustizia quando in realtà si dovrebbe parlare di invidia e di vendetta, parlare di odio quando forse si dovrebbe parlare d’amore e viceversa.
È una razionalizzazione quella della signora grassissima che dice: «Io non vado in spiaggia perché fa troppo caldo». Invece di dirsi che non ha il coraggio di spogliarsi in pubblico. Il mare, la sabbia, il ciclo e le nuvole sono là che l’aspettano inutilmente…
L’uomo purtroppo ha imparato ad usare con facilità la razionalizzazione. Tutti dovrebbero essere capaci di andare oltre e vedere cosa si nasconde dietro l’apparenza delle razionalizzazioni; ma a questo fine non basta neppure la ragione: è l’uomo, con tutte le sue facoltà che deve imparare a conoscere cosa si nasconde dietro l’apparenza delle cose.

4.
I teorici appestano da secoli l’aria con le loro elucubrazioni imbelli intorno all’arte. C’è chi vuole l’arte spontanea, viscerale, gesto irripetibile che mira ad un’espressione unica e che troverebbe nella performance estemporanea, nell’ happening la perfetta espressione. Il risultato più evidente è che così si è permesso che pseudoartisti di ogni arte si sentissero autorizzati a vomitare sul pubblico la loro incapacità di parlare, di dipingere, di suonare, di raccontare, di sognare, di far innamorare.
Ci sono altri che sostengono invece che l’arte sia soprattutto tecnica e ricerca. Questa tendenza ha dato via libera alle ipotesi più insulse, specialmente nel campo dell’architettura e delle arti ad essa applicate. Si è così affermata in modo brutale, violento ed oscurantista una forma di taylorismo adattato agli edifici e agli oggetti d’uso, nell’intento di permettere il maggior numero di gesti nel minor tempo possibile. In nome della funzionalità si sono concepite città e arredi prodotti in serie, col risultato che vivere in posti dove il funzionalismo è massimamente applicato è come essere morti, perché ogni spazio è tolto all’autonomia del gesto.
Nel concetto dell’arte funzionale l’uomo è divenuto il mezzo che serve a sperimentare le teorie sull’addestramento delle scimmiette.
Mi torna in mente la vecchia frase di I. Kant: «Opera in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo».
Il fine deve essere anche la piacevolezza della vita, e la vita è bella quando è bella. È una tautologia? Allora ben vengano le tautologie!

5.
Vi sono stati anche coloro che hanno parlato dell’arte «utile». Utile a chi e a che cosa? Probabilmente utile a nessuno, visto che un esito di quella ricerca estetica fu quello di avanzare il dubbio che fosse venuto il tempo della morte dell’arte. L’arte deve morire si diceva negli ambienti del costruttivismo di Gan e Lissitsky, ovviamente pensando non tanto alla morte dell’arte in assoluto, ma dell’arte secondo loro non immediatamente finalizzata ad altri scopi più pratici.
Parlare della morte dell’arte, come è stato fatto anche più recentemente in America ed in Europa, non ha senso: l’arte c’è perché c’è l’uomo. Possono morire gli uomini ed esaurirsi le formule artistiche; ma finché ci sarà un uomo sulla terra l’arte vivrà con lui, perché l’umanità ha bisogno di non cedere al peso dei propri sogni. L’uomo deve rifiutarsi di sognare soltanto: deve voler anche essere aedo e musico, pittore e scrittore, attore e spettatore, che comunica i suoi pensieri ad altri e che si ritrova nelle fantasie di altri come lui. L’arte è bella anche perché non è immortale; essa vivrà solo finché ci saranno uomini capaci di cantare una canzone, di narrare una storia con le parole, con le immagini o con la musica.

6.
Ci sono stati poi coloro che per salvare l’arte hanno teorizzato l’arte totale. Con assoluta ingenuità, poiché l’arte è sempre totale. Ogni opera d’arte è opera totale. Vogliamo mescolare insieme musica, danza, pittura? Il risultato non sarà più totale di quanto sia espressione di arte totale il bicordo do-mi bemolle: lo sento risuonare tenero all’orecchio e sento il mibemolle che lentamente sale al mi, terza minore, terza maggiore: in tre note è contenuto l’universo intero; proprio come nella più totale delle rappresentazioni. Del resto siamo da sempre avvezzi a sentir parlare di colore dei suoni, ritmo delle figure, plasticità delle parole, e così via, che solo una eccessiva accondiscendenza a pedanti e accademiche suddivisioni dell’arte in campi di competenza, può averci fatto scordare che l’arte è stata sempre e per tutti fenomeno totale, diretto a tutti i sensi, anche se privilegiandone in apparenza, di volta in volta, alcuni su altri.

7.
C’è chi vede nell’aspetto tecnico il raggiungimento della razionale consapevolezza dell’arte. La tecnica è fondamentale per l’arte; nessun artista può dirsi tale se non ha acquisito una grande capacità tecnica nell’arte sua; chi non ha una propria tecnica è un parassita dell’arte e sfrutta il mondo intorno a lui ed è biasimevole anche come uomo.
La tecnica è quindi indispensabile, ma non coincide con la forma: l’espressione dell’arte non può infatti scindersi in forma e contenuto; la forma è contenuto come il contenuto è forma. Quando si parla per esempio della forma-sonata, si parla di una struttura; ma la forma-sonata non esiste di per sé: esistono solo le singole sonate. Vuoi dire questo mio discorso che io sono un vecchio filosofo cinico e antiplatonico? Sono io uno di quelli che dicono che non esiste la cavallinità ma soltanto i cavalli? Certo che esistono i cavalli e che essi partecipano della cavallinità. Dove si trova allora la cavallinità? Nel cuore del filosofo. Dove si trovano le idee dell’arte: la forma e il contenuto? Io credo che si trovino nel cuore dell’artista. Perciò, lasciando da parte Platone e il cinico Antistene io dico che esistono questo e quel quartetto d’archi, che hanno scelto la forma in cui si realizzano e la forma diventa contenuto. Così le ambigue sonate beethoveniane, con quegli inizi preludianti, ambigui anche tonalmente, sono una nuova forma. Fanno parte della forma sonata o la contraddicono? Ma questo interrogativo verte già sul contenuto non meno che sulla forma. Quindi la forma è la possibilità dell’espressione ed allo stesso tempo è già l’espressione. Come si può distinguere la capacità di esprimere dall’espressione? Io tengo le dita sulla tastiera perché così voglio e questo ho imparato a fare, oppure perché so fare soltanto così? La tecnica non è coscienza, e questo ben lo sanno i musicisti, che tanto più si concentrano sull’aspetto tecnico e tanto più rischiano errori di esecuzione. Concentratevi sul mignolo della vostra mano destra ed ad un certo punto il mignolo non saprà più che cosa fare e rimarrà sospeso in aria: si bemolle… il tempo va perduto e il discorso si inceppa. La tecnica ha bisogno anche dell’inconscio.

8.
Quindi l’arte non sorge dall’inconscio, e non è neppure nell’equilibrio della ragione; non si identifica con l’acquisizione di una tecnica, ma è nella persona tutta intera. L’arte non può essere solo espressione dell’inconscio perché non saprebbe comunicare ed invece l’arte comunica; dice, parla, travolge, coinvolge, stravolge, ama ed odia.
L’arte non può neanche coincidere con la coscienza, che pure è un aspetto dell’emotività, un’emotività però tanto consapevole che si smarrisce e si contraddice non appena si guarda allo specchio.
L’arte è il luogo in cui la coscienza diventa inconscio e l’inconscio diventa coscienza: questa sembra una frase molto sciocca e un po’ banale; ma è il solo modo in cui riesco a dire che l’arte non sorge da un aspetto della persona che la crea: conscio o inconscio; ma da tutta la persona nell’insieme delle sue facoltà; per questo non può scindersi in parti come forma o contenuto, poiché non c’è una parte senza l’altra e come l’uomo è fatta dall’insieme delle sue parti.

34 – Luglio ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

Parsifal

Talvolta è stato detto che la musica di Wagner, e in particolare quella del suo teatro, è molto ardua da seguire, non soltanto per la sua monumentalità, ma anche per l’intrinseca difficoltà di un discorso sempre ambiguo: la sua «melodia infinita» si abbarbica su tutti i dodici gradi della scala cromatica, e non solo nel Tristano e Isotta, in cui questo aspetto è esasperato, ma in tutte le sue opere mature. La nota sensibile, che è la chiave di volta per la lettura tonale, acquista significati e risoluzioni inaspettate, gli accordi si sciolgono l’uno nell’altro e l’orecchio è trasportato lontano in una meravigliosa avventura. Per coloro che sanno abbandonarsi alla musica, il linguaggio wagneriano è quanto mai chiaro, semplice e sempre comprensibile.

I frigidi, i pigri, i narcisisti è bene che stiano lontani da questo gigante della musica poiché le loro orecchie non ne sono degne e loro non capirebbero niente.

Wagner ha un grandissimo senso del teatro, secondo soltanto a quello di Mozart. A noi disturba sentir ripetere che è un precursore o di Debussy, o di Webern oppure di Schoenberg; questo è anche vero, la sua però non è per nulla solo un’arte di transizione con geniali intuizioni precorritrici; ma è un’arte perfetta e conclusa che crea un universo autonomo, non separato, però, dal mondo reale.

I famosi leit-motiv dilagano in ogni partitura e la stringono con le loro continue evoluzioni svelando l’inconscio e chiarendo il conscio dei personaggi. Il Parsifal, nella sua «diversità» rispetto alle altre opere, raggiunge il massimo della chiarezza e della comprensibilità. Ciò non vuol dire che ci siano poche cose da comprendere, ma che ci si può immergere nella sua partitura e scoprire sempre qualcosa di nuovo. In quest’opera anche l’esasperato cromatismo si placa per costruire percorsi sonori ora luminosissimi ora profondamente cupi, con un continuo richiamo alla semplicità modale.

Questa realizzazione spoletina ci ha letteralmente entusiasmati.

Innanzitutto esprimiamo senza condizioni il nostro apprezzamento per la direzione del Maestro Spiros Argiris: la Spoleto Festival Orchestra appariva letteralmente trasfigurata; noi ne abbiamo sempre ammirato il bell’entusiasmo; ma talvolta non abbiamo potuto tacere di fronte ad acerbe inesperienze; ora, guidati dalle mani di Argiris, questi giovani hanno offerto al nostro ascolto suoni di musicale perfezione. È questo finalmente un Parsifal in cui il direttore non impasta i suoni amalgamando le famiglie orchestrali, col risultato di raggiungere sonorità indistinte, nella errata convinzione di essere così stilisticamente corretto; Argiris invece ha tessuto i fili di questa grande trama sonora permettendo all’orecchio di seguire i vari timbri degli strumenti e di apprezzare, quindi, il meraviglioso effetto del loro incontrarsi. Inoltre l’accordo con i cantanti è stato assoluto, senza mai un’incertezza o una sbavatura.

Un tema viene enunciato dai fiati, una voce sulla scena lo riprende, poi senza forzature si rituffa nell’orchestra che, con precisione e semplicità, lo rimodella, portandolo a fondersi con un altro, e così via!

Fin dal Preludio il direttore ha esplicitato la sua scelta interpretativa che è quella di unire sacralità e sensualità, rifiutando sempre il gesto magniloquente. Poi il sipario si è alzato sulla storia dei macerati cavalieri del Graal, invischiati nella rete di peccato e di lussuria che l’eunuco Klingsor, genio del male, tesse intorno a loro con l’aiuto delle fanciulle-fiore e della riluttante e tormentata Kundry.

Solo un puro-folle riuscirà nell’impresa di recuperare la lancia sacra della Passione di Cristo, con la quale risanare il Re Amfortas e restituire ai cavalieri la liberazione dal male. Parsifal, che non conosce neppure il suo nome è l’idiota sublime che riuscirà nell’impresa dopo aver redento anche Kundry e distrutto Klingsor.

Ottimi sono stati tutti gli interpreti.

Il saggio Gurnemanz, il basso Victor von Halem, è stato superbo: la sua voce, profonda e perfetta, dava quasi lo smarrimento. Con variazioni vocali minime ma intensissime è riuscito a far percepire bene l’evoluzione affettiva di un personaggio: prima sicuro di sé, poi rassegnato ed infine nuovamente animato dalla speranza.

Il baritono Heinz-Jurgens Demitz è stato un impeccabile Amfortas; nel primo atto forse, tentando di esprimere la sofferta rassegnazione del personaggio, la sua voce è risultata un po’ neutra, ma poi ha acquistato tutti i coloriti della sconvolgente passione nei lunghi momenti del terzo atto; una sua caratteristica che abbiamo notato è stata quella di appoggiare quasi la gola sull’onda dei suoni che salivano dall’orchestra.

Bravissima Ruthild Engert (soprano) che ha dato a Kundry una voce spezzata nei momenti di disperazione e di conflittualità con coloriti quasi espressionistici, intensa e sinuosa nei tentativi di seduzione sommessa e tesa nelle scene che la portano verso la redenzione.

Il baritono Ettore Nova è stato un Klingsor efficacissimo per il timbro ferroso ed aspro della sua voce, sempre però precisa e piena.

Le fanciulle-fiore, i soprani e mezzosoprani Loredana Putzolu, Agnes Quesnel Chauvot, Donna Stephenson, Antonella Muscente, Ilaria Galgani, Lucia Rizzi, sono state bravissime soprattutto nei brevi momenti solistici di ciascuna.

Aurio Tomicich (basso) ha dato voce giustamente inquietante al vecchio Titurel.

Il tenore William Pell ha creato un Parsifal quanto mai efficace non solo teatralmente ma anche vocalmente: al suo primo ingresso appariva ottuso e smarrito e anche la voce pur recisa era inespressiva tanto da lasciare perplessi; nello svolgimento drammatico successivo la sua vocalità progressivamente si illuminava, maturando, colorendosi e arricchendosi vieppiù di armonici, fino a raggiungere momenti di pathos quando la consapevolezza e la Grazia lo segnavano.

Degnissimi anche gli interpreti dei ruoli minori: Angelo Degli Innocenti, Ubaldo Carosi, EIsa Ely, Peter Gillis e Giorgio Gatti.

Il Westminster Choir dava ai cavalieri di Montsalvat un insieme di belle voci, virili e intonate. Però ci sentiamo in dovere di dire, sia al loro direttore Glenn Parker, sia a Spiros Argiris, che hanno accentuato troppo il ritmo, anche con l’orchestra, tanto che i dolenti uomini del Graal perdevano in sacralità, acquistando un piglio paurosamente vicino a quello di un gruppo di marines.

Bellissime le voci bianche dell’ Arcum, dirette da Paolo Lucci, che tingevano il tutto di chiara religiosità, un po’ naif, che ci ha profondamente commossi.

Le scene di Pierluigi Samaritani erano molto efficaci: sapevano adattare spazi, luci e ambienti alle differenti esigenze del dramma, alternando elementi naturalistici, simbolici, onirici ed espressionistici.

I costumi di Roberta Di Bagno Guidi non hanno tratto giovamènto dall’uso di materiali un po’ troppo scintillanti e, infatti, ci sono parsi soprattutto adeguati quelli delle fanciulle-fiore.

Gran lode alla regia di Giancarlo Menotti che, da buon musicista qual è, ha saputo rispettare ed esaltare le potenzialità dell’opera wagneriana: ha fatto recitare tutti i cantanti con una naturalezza che non è mai scaduta in piatto naturalismo; ha anche lui avuto il coraggio di mescolare sacro e sensuale. Benché non fosse difficile capire che lo spaventava di più la sacralità che non la lussuria, pure, nei momenti più significativi, ha superato la sua stessa paura. Le sue idee erano tante e ben ritmate, le atmosfere che ha cercato oscillavano tra il sogno e il cinematografo di buon gusto: intenzioni sintetizzate da quel velo steso davanti alla scena, che con le sue trasparenze, gli ha permesso molteplici effetti. Solo per maliziosa cattiveria vogliamo ironizzare su quei monacelli in bianche tunichette, che vanno a fare il bagno nel lago con il loro Re in bianchi mutandoni e ne tornano con la salviettina vezzosamente poggiata sui nudi omeri.

Montezuma

Le culture barocche europee hanno sviluppato un grande senso del teatro.

Il punto più alto di questa sensibilità è stato raggiunto dal teatro in musica.

Quando si pensa allo spettacolo musicale di quell’epoca, la mente corre subito a Claudio Monteverdi, ma dal tardo Cinquecento fino a parte del Settecento, sulle scene delle corti prima, e anche dei teatri pubblici poi, la musica si inserisce in uno spettacolo completo, ricco di invenzioni, bizzarrie e fantasie.

L’opera Montezuma, su libretto in lingua francese scritto da Federico II il Grande, tradotto in italiano da Tagliazucchi con musiche di Heinrich Graun (Wahrenbruck 1701 – Berlino 1759) non è un grande capolavoro. Il fecondo musicista tedesco fu, come il suo sovrano, un ammiratore dell’opera italiana e questo è macroscopicamente visibile in tutta la partitura, sebbene non sia del tutto assente, specialmente in alcune torniture melodiche, il ricordo del suo grande conterraneo G.F. Haendel. Qui, però, siamo abbastanza lontani dalla semplicità ammiccante ma genialissima dei musicisti italiani.

La vicenda è quella arcinota della caduta dell’impero azteco, per opera dei conquistatori spagnoli capitanati da Fernando Cortés, e del suo sfortunato imperatore Montezuma II. Naturalmente la storia è infarcita di eroiche mogli, servi fedeli e ideali illuministici. Noi ammiriamo moltissimo Federico il Grande, certo, però, che gli era facile fare l’ecologista e il moralizzatore sulla brutale crudeltà dei tiranni spagnoli di due secoli prima!

A sipario calato inizia una sinfonia tripartita: fra due episodi, vivaci com’era consuetudine, è un’ampia parte centrale, indubbiamente la più valida in senso musicale, con melodie ben costruite, che forse vorrebbero essere accorate, ma che raggiungono soltanto una gradevole malinconia. Tutta la sapienza e l’ingenuità compositive di Graun sono presenti in questo inizio: la musica è solida, artigianalmente ben costruita, con armonizzazione e strumentazione chiare. L’orecchio non fa alcuno sforzo a percepire tonalità e modulazioni, ci si può anche distrarre un po’ (e bisogna dire che in qualche punto sarebbe gradevole il diversivo di un «sorbetto»). In altri punti, invece, la musica aderisce bene alla situazione drammatica; le melodie diventano intense e il solito giochetto, talora ripetuto fino a diventare stucchevole, dell’orchestra che «fa il verso» al cantante riesce a coinvolgere e ad emozionare, perché diventa efficace sottolineatura drammatica e sentimentale.

Hubert Soudant ha diretto la Rantos Chamber Orchestra australiana e i cantanti con un piglio un po’ troppo militaresco. Come abbiamo già detto la struttura musicale è spesso molto semplice, per cui, se si eccede in «quadratura» si rischia di mettere troppo in evidenza la ripetitività e la non sconfinata inventività del compositore. Riconosciamo, però, al giovane direttore di origine olandese un ottimo orecchio e uno spiccato senso del ritmo. Quando riusciva ad ammorbidire un po’ il gesto, la musica acquistava subito una certa ricchezza di sfaccettature, sprigionando tutte le sue possibilità. I giovani orchestrali lo hanno saputo seguire con attenta precisione. Si è fatto notare per la fluidità e l’acutezza del gusto teatrale il clavicembalista Seann Alderking.

Avremmo gradito sentire meglio evidenziato il flauto di Jill Muti (sulla scena nei panni di Federico II, famoso anche per le sue qualità musicali).

Il ruolo di Montezuma, imperatore del Messico, è stato splendidamente interpretato dal mezzosoprano cipriota Alexandra Papadjakou, dalla voce eccezionale, la quale riusciva a scendere, cogliendo le note con estrema precisione, anche ben oltre la propria tessitura. Voce duttile e possente che però non si appesantiva mai nei vocalizzi, rimanendo sciolta e vibrata: non ha mandato perduto niente delle . melodie: quando erano interessanti ne evidenziava la ricchezza, quando erano più piatte, le rendeva più accettabili, con delicatissimi interventi vocali. Nel terzo atto abbiamo apprezzato la sua bravura nell’ovvio recitativo accompagnato di Montezuma in prigione. Subito dopo è avvenuto un piccolo miracolo: mentre delicatamente il direttore guidava il pizzicato degli archi, su di una dolcissima melodia accorata, quasi di «barcarola», la Papadjakou riusciva ad esprimere con intensa bravura la solitudine e il rimpianto del re sconfitto.

Molto bravo anche il soprano greco-inglese Jenny Drivola, nella parte di Eupaforice, la sposa sventurata. La sua voce era precisa (appena leggermente più chiara di quella della Papadjakou) e passava senza sforzo dalle melodie tenere a quelle più concitate e disperate, bravissima nei crescendo e nei diminuendo dove rimaneva stilisticamente corretta, senza romanticherie. Nel primo atto, nelle scene di tenerezza fra gli sposi, sembrava quasi che fosse lei a dirigere l’orchestra, tanto era incisiva. Inoltre è riuscita a rendere sopportabile la noiosissima (anche musicalmente) scena dello stupro.

Splendido, musicalmente e interpretativamente, il duetto dei due sposi in prigione per la perfetta alternanza e fusione delle due voci.

Non ci è dispiaciuta la fresca voce del soprano Monique Baudouin (Pilpatoé, generale azteco) sebbene l’abbiamo trovata incerta soprattutto nei «salti» un po’ ampi che prendeva troppo all’improvviso.

Abbastanza corretta la voce di Penelope Lusi (la confidente Erissena). Meno corretta, se pure accettabile, la voce di Gloria Scalchi (Tezeuco), mezzosoprano; sarebbe stato meglio affidare la parte ad un tenore, cosa che avrebbe evitato una certa stucchevolezza musicale, dovuta alla ovviamente eccessiva omogeneità dei timbri. Malgrado ciò, riconosciamo e apprezziamo lo sforzo di tutte le voci femminili per differenziarsi secondo i ruoli.

Una scelta stravagante (non sappiamo di chi) ha fatto sì che Cortés e il suo generale talvolta «parlassero» in spagnolo; però cantando in italiano: poiché la nostra lingua era resa in modo incomprensibile da tutti i cantanti, mentre lo spagnolo recitato si capiva benissimo, forse qualche spirito ameno ha cercato di far passare l’italiano per lingua azteca, che evidentemente era parlata fluentemente anche dagli spagnoli. Il baritono Nicholas Karousatos (Cortés) aveva un bel timbro di voce virile, ma nei recitativi dec1amava un po’ troppo e nella scena della violenza si è rivelato molto rigido; solo nella prigione, su di un «concitato» dell’orchestra, la sua voce si scioglieva un poco, anche se non riusciva ad andare perfettamente a tempo.

Il tenore Jonathan Green (Narvés, luogotenente) ha avuto una bellissima entrata da. personaggio arrogante e spavaldo come si addice ad un «conquistador». La sua voce aveva un bel timbro, sonoro e vibrante; purtroppo in alcune virate melodiche, soprattutto nei salti discendenti, si scordava un poco di stare cantando, badando troppo all’effetto dei gesti scenici.

Molto efficace il brevissimo finalino: mentre l’impero azteco era in fiamme, una breve ed incisiva melodia di canzonetta permetteva a Cortés di sanzionare il trionfo della Chiesa Cattolica. La regia di Winfried Bauernfeind ha forse sbagliato nel leggere l’azione in chiave romantica, pasticciando anche con bambini, armigeri e cantatine nel foyer. Per fortuna ha trovato nei cantanti attori disinvolti e sensibili. Le scene e i costumi di Martin Rupprecht sono stati semplici ed efficaci, anche se forse non ha giovato al personaggio di Montezuma quell’aria da bucaniere in maniche a sbuffo.

34 – Luglio ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

Spoletocinema

Noi siamo particolarmente contenti di aver visto in questi anni l’arte cinematografica acquistare lentamente peso ed importanza al Festival dei Due Mondi grazie all’impegno intelligente e costante di Fabrizio Natale e Fulvio Toffoli. La cultura del Novecento deve moltissimo al cinema, che ha ormai una sua storia, non solo strettamente inserita nelle correnti artistiche, ma anche intimamente legata (talvolta persino più di altri fenomeni culturali) ai fatti sociali e politici. Due sono quest’anno gli avvenimenti di grande richiamo: la presentazione di Christus con Leda Gys prevista al Teatro Nuovo con la partecipazione dell’orchestra dell’Unione Musicisti di Roma, e l’anteprima dell’Intervista di Federico Fellini alla sala Frau.
Le molte proiezioni di quest’anno sono suddivise in tre cicli: Gli anni di Cinecittà; Le belve della notte e Leda Gys attrice.
Molto ampia è la rassegna dedicata alla città del cinema che festeggia i cinquant’anni di attività; la scelta è stata quella di presentare un film per ogni anno e ne è venuta fuori una panoramica quanto mai interessante.
Purtroppo i Farfalloni sono due e non si dividono mai, per cui, pur essendo creature alate che svolazzano da un concerto di mezzogiorno a uno delle sei, da un’opera lirica a una mostra d’arte, non dimenticandosi neppure di aleggiare intorno ai luoghi di ristoro per trovare materiali alla loro malignità, non hanno avuto che pochissimo tempo per infilarsi anche al cinema Corso dove gratuitamente per tutti viene elargita un’abbondante messe filmica.
Tra i non molti film cui abbiamo potuto assistere, ad alcuni dei quali neppure per intero per ragioni di tempo, abbiamo voglia di parlare di Stazione Termini del 1953. Ne avevamo un ricordo un po’ sbiadito e siamo rimasti emozionati nel riscoprire ancora una volta la grande, semplice poeticità, e la bravura di artigiano ad alto livello di Vittorio De Sica regista.
La stazione ferroviaria della capitale è raccontata e frugata in tutti i suoi aspetti ed assunta ad espressione di un universo a sé stante che è specchio ed analogia del mondo e della vita. Un susseguirsi continuo di gustosissimi bozzetti non si limita a fare da sfondo, ma è importante contrappunto alla vicenda principale. Così il patetico e fallimentare cacciatore di femmine, con la sua borsa di frutta rotolante; la coppia di emigranti con troppi figli;
il coro dei coscritti contrapposto a quello dei pellegrini; la ronda militare e il soldatino; i quattro preti anglofoni tronfi e citrulli; la parata di carabinieri per il treno speciale che porta un potente della terra.
Il nucleo, quasi il pretesto per tutto ciò, è la storia un po’ fumettistica della vacanza sentimentale di una sposa e madre americana esemplare (Jennifer Jones) vissuta tra le braccia del bel professorino italiano (Montgomery Clift) che si conclude, come è giusto, moralisticamente.
Non possiamo non sottolineare il piccolo capolavoro delle ultime scene in tempo reale, con le lancette dell’orologio che diventano gli elementi decisivi per la sorte dei due innamorati. Purtroppo accanto alla bella fotografia di G.R. Aldo, ricca di chiaroscuri, e le musiche efficacissime di Alessandro Cicognini, stonava il pessimo doppiatore del protagonista, per cui le già non brillanti battute dei dialoghi di Truman Capote sulla sceneggiatura di Zavattini, Prosperi e Chiarini, risultavano desolantemente sciocche, e furono forse una delle cause del fiasco del film alla sua uscita.

34 – Luglio ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

Un tram che si chiama desiderio

Non stupisce che da Un tram che si chiama desiderio sia stato preso il pretesto per fare anche un balletto. Non perché sia materia particolarmente adatta, ma perché la persistente eco di quell’opera continua ad esercitare il suo fascino.
John Neumeier ha però costruito uno spettacolo che non aiuta ad apprezzare la danza e le sue grandi possibilità espressive. Soprattutto sua è questa responsabilità, poiché, oltre che le fiacche coreografie, ha anche curato le scene, le luci ed i costumi. Il risultato è stato quello di montare una rappresentazione teatrale in cui si tenta di mimare un dramma senza usare la parola. Si sente, infatti, moltissimo la mancanza della parola, cosa che ci conferma la mancanza della danza. La danza deve essere sempre una forma espressiva autonoma in se stessa, anche quando entra in rapporto con altre forme dell’arte.
L’esecuzione dello Stuttgarter Ballett che abbiamo visto è stata una pantomima che trovava una certa efficacia negativà solo nella volgarità di una sessualità esibita, neppure provocatoriamente e perciò un po’ ridicola. Il pasticcio arrivava al miscuglio di forme di danza sporadicamente balenanti, assolutamente eterogenee: afro, modern dance e anche pas de deux e piroette sulle punte; ma questi richiami alla danza ne evidenziavano solo l’assenza. Neumeier si arroga anche il merito di aver trovato le musiche più adatte a questo dramma americano, di lussuria, violenza e follia, proprio nelle composizioni di due musicisti russi: Prokofiev e Schnittke.
Per Asylum e Belle Reve ha scelto un’esecuzione di Vision Fugitives, eseguita dal vivo dal pianista Glenn Prince; ma questa musica risultava totalmente estranea perché si esprimeva attraverso strutture raffinate, melodie dal sapore antico, tornito ed aristocratico, che nulla hanno a che vedere con la provincia americana. La Prima sinfonia di Schnittke, diffusa in una registrazione della prima esecuzione a Gorki, nella seconda parte, non è adatta né disadatta: è semplicemente insopportabile, tanto è brutta.
Marcia Haydée saprebbe ballare e recitare, ma qui poteva solo lasciarlo intuire.
Richard Cragun esibiva il bel corpo in acrobatiche contorsioni da kamasutra.
Lisi Grether era soprattutto graziosa.
Tutti gli altri erano presenze senza ragione, se pure facevano intravedere potenziali capacità inespresse.

34 – Luglio ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

Incontri musicali

Domenica 28 giugno

Quest’anno è ripresa la bella tradizione, per troppo tempo interrotta, dei concerti delle ore diciotto. Purtroppo non si possono tenere al Teatrino delle Sei, come sarebbe auspicabile, poiché illocale sotto il Caio Melisso non è ancora agibile; perciò si svolgono nella suggestiva chiesa romanica di S. Eufemia in via Saffi. Questi incontri musicali curati da Spiros Argiris e Wilfried Brennecke assistiti da Ilaria Dagnini promettono di essere tutti molto interessanti per la curata ricerca di musiche non consuete, con grande spazio dato, finalmente, alla musica contemporanea.
Il concerto di questa sera comprendeva musiche di Nietzsche e Mahler.
La poca produzione musicale del grande filosofo non è, di per sé, particolarmente interessante, ma contribuisce a meglio conoscere a fondo la tormentata personalità dell’autore di Così parlò Zaratustra.
Questa musica che si protende verso il futuro è anche lo specchio di un clima culturale e del modo di intendere l’arte di un’epoca. Inoltre proprio quest’anno che a Spoleto si sta eseguendo il Parsifal è interessante ascoltare le semplici note scritte dal filosofo che fu coinvolto affettivamente in un tormentato rapporto con Wagner.
Il concerto si è aperto con cinque dei suoi lieder, il primo dei quali, opera giovanilissima, che risale al 1861, intitolato Meinz Platz von der Tur, è una sorta di melodia schubertiana, sorretta da un banalissimo accompagnamento pianistico consistente in accordi armonicamente non ben concatenati tra di loro. Il secondo, su versi di Puskin, molto più ricco di fantasia nell’accompagnamento, è notevole per gli accordi questa volta armonicamente ben collegati. Il terzo, su versi di Petof, è equilibrato, pur con punte di sincera drammaticità. Il quarto è composto sui versi di una ballata di Chamisso e consiste in una melodia dalla monotonia esasperante, ben sorretta dal solido accompagnamento. L’ultimo, di cui Nietzsche ha scritto anche i versi, offre all’ascolto una melodia interessante, ricca di molti frammenti ben concatenati e il pianoforte sprigiona armonie e significati non prevedibili.
Il mezzosoprano greco Kiki Morfoniou aveva una voce molto possente, talvolta anche inadatta alla semplicità di queste composizioni; la sentivamo per la prima volta e in un repertorio non impegnativo, vogliamo perciò essere cauti e siamo pronti a smentirci, ma diciamo chiaramente che non ci è piaciuta. Nel terzo lied proprio non andava a tempo e nell’ultimo l’intonazione era continuamente calante. Poiché il timbro di questa cantante ci piace, speriamo davvero di doverci ricredere. Giuseppe Bruno è stato un valido accompagnatore.
Subito dopo è stata eseguita la versione per pianoforte di un poema sinfonico, in realtà mai orchestrato, Ermanarich, che vuole ricreare le atmosfere di una saga di amore, delitto e follia, di un antico eroe.
Il brano ha una buona capacità narrativa, con momenti di bizzarria armonica quanto mai interessanti, nonostante la ripetitività un po’ stucchevole di alcune successioni accordali. Il pianista Seann Alderking ha eseguito il brano con piglio robusto, pur senza lasciarsi sfuggire i momenti più sinuosi e morbidi: ha ecceduto però un po’ troppo nell’uso del pedale di destra.
Il concerto si è concluso con dieci lieder di G. Mahler per soprano e pianoforte tratti dai tre volumi dei Lieder und Gesange aUs der Jugendzeit. Queste melodie sono arcaicizzanti e stupende, di una semplicità disarmante, ma ricche di malizia e sapienza compositiva. Il pianoforte non è ridotto al ruolo di schematico accompagnatore, ma dialoga continuamente con la voce, sviluppando idee geniali e fascinose. La bella voce chiara del soprano Penelope Lusi ha eseguito queste canzoni con grande inventiva. Giuseppe Bruno l’avvolgeva col bel suono delle note limpide e rotolanti del suo pianoforte.

Concerti di mezzogiorno

Giovedì 25 giugno

Sono iniziati oggi al Caio Melisso i concerti aperitivo organizzati da Paula Robinson e Scott Nickrenz, che si alterneranno con quelli curati direttamente dal Maestro Menotti. Il primo brano in programma era la Sonata in sol maggiore di J. S. Bach: brano dal grande equilibrio formale in cui i due strumenti hanno uguale importanza. Noi ben conosciamo il violinista J. Swensen e lo stimiamo, ma questa volta è proprio partito male: le prime battute erano decisamente non accordate col cembalo ed il suono del violino risultava rigido e quasi violento; inoltre tutto il primo tempo è stato suonato in modo troppo veloce, quasi a precipizio. Per fortuna le sciolte e pacate mani di J. Gibbons hanno contribuito a riassestare il violino, nonostante il vortice sonoro che scaturiva da entrambi gli strumenti. La calma ha contrassegnato tutto il secondo tempo. Nel terzo tempo il clavicembalo solo è stato stilisticamente perfetto, con grande equilibrio dinamico-sonoro. Nel quarto movimento il violino è entrato con un suono un poco aspro, riuscendo però in seguito a porgere adeguatamente le belle frasi musicali. Nell’ultimo tempo si è evidenziata ancora una volta l’aggressività del violino, sempre ben moderata dall’equilibrato clavicembalo.
È seguito il Quartetto in mi bemolle maggiore, op.44, n.3 di F. Mendelssohn che ci ha dato l’opportunità di veder apparire a Spoleto una nuova compagine musicale d’oltreoceano: il Quartetto Ridge (Krista Bennion Feeney, Robert Rinehart, violini; Ah Ling Neu, viola; Ramon Bolipata, violoncello). L’opera si è aperta con una bella pagina di romanticismo abbastanza sereno, dalle consequenziali, ma non ovvie, modulazioni, in cui i quattro strumenti hanno mostrato precisione e fluidità. Nella seconda parte, più drammatica ed articolata in piccoli temi rincorrentisi, i quattro hanno saputo dare equilibrio al tutto, valorizzando i momenti più intensi. È seguito un terzo movimento di bella cantabilità, giustamente resa e poi gli esecutori hanno affrontato con proprietà e slancio il serrato discorso musicale conclusivo.
Siamo felici di aver incontrato questi quattro sensibili e bravi interpreti.

Venerdì 26 giugno

La piacevole sorpresa del primo concerto curato dal Maestro Menotti è stata quella di presentarci un recital vocale delle sei fanciulle-fiore del Parsifal, che si sono rivelate ottime soliste, interpretando una serie di lieder, da sole o in duetto, di vari autori.
Il primo brano è stato un lied di Mozart, An Chloe, superbo nella sua splendente semplicità. La bella voce di Antonella Muscente (soprano) pur se corretta, ci è parsa ancora un po’ immatura per riuscire ad unire senza la minima sbavatura, come si deve, precisione e morbidezza. La stessa Muscente ha reso ottimamente, senza riserve, l’ampia melodia di note tenute di Nacht und Traume di Schubert, con un’intonazione e una respirazione ineccepibili.
Sono seguiti due brani, per il vero non bellissimi, di Bellini e Verdi; il melenso Malinconia e il volgarotto La Zingara.
Loredana Putzolu (soprano) a parte una troppo evidente esitazione nella prima nota della pagina belliniana, si è andata via, via scaldando, raggiungendo un buon livello di interpretazione.
Nei successivi due duetti di Mendelssohn Abschied der Zugvogel e Herbstlied Agnes Quesnel Chauvot (soprano) e Donna Stephenson (mezzo soprano) sono state molto brave ed intonate nel rendere la bella melodia malinconica dell’uno e il dialogo articolato e vivace dell’altro. La Chauvot ha cantato poi l’Extase di Debussy districandosi bene nelle difficili e raffinate sfumature, cui ha fatto seguito un’esecuzione eccellente di quel piccolo gioiello di Poulenc che è la Petite servante. La Putzolu e Lucia Rizzi (mezzo soprano) hanno interpretato duetti di Schumann dallo Spanische Liedersbuch, il primo, garbatissimo ed eseguito con delicatezza e precisione; nel secondo, più spavaldo e ammiccante, sono state brave ma forse meno attente. La Rizzi da sola ha rivelato bella e piena vocalità unita a temperamento nel Das Verlassene Magdlein di Wolf. Il brano di Pizzetti, I Pastori, sui celebri versi dannunziani è splendido per le bellissime melodie di taglio modale e le arcaiche armonie; la Stephenson ce ne ha regalato un’esecuzione squisita e ben equilibrata.
Ilaria Galgani (soprano) ha eseguito L’ aria di Lia dall’ Enfant Prodigue di Debussy; valorizzandone le varie e cangianti atmosfere; e poi la stessa Galgani e la Muscente hanno brillantemente saputo allacciare e sciogliere le loro voci nel tenero Gruss di Mendelssohn ed hanno concluso eseguendo gustosamente An die Nachtigal di Schumann. Il maestro Stephen Kramer è stato l’ottimo accompagnatore al pianoforte.

Sabato 27 giugno

Il concerto é iniziato con un brano di un giovane compositore americano Lowell Liebermann: Variazioni su un tema di A.Bruckner op. 19 eseguito oggi per la prima volta in Europa dalla giovane pianista Erika Nickrenz.
Il bel tema è ricco di possibilità: nell’elaborazione di Liebermann offre l’occasione di un bel pianismo di concezione classica nel rispetto dell’anatomia e della fisiologia delle mani dell’esecutore. Dall’idea originaria sorgono variazioni, parafrasi, sovrapposizioni armoniche, belle invenzioni e belle melodie. È assente ogni desiderio di inutile stravaganza. L’esecuzione della Nickrenz è stata davvero eccellente: le sue mani sono fluide e robuste allo stesso tempo e hanno saputo essere tenerissime ed impetuose; ogni nota era studiata e calibrata rivelando una pianista d’indiscutibile musicalità.
Il terzetto concertante di Paganini, qui eseguito da E. Fisk alla chitarra, S. Isserlis al violoncello e Scott Nickrenz alla viola, è un brano bello e scanzonato che vede nel primo tempo gradevoli botte e risposte tra gli strumenti; una serenata galeotta costituisce il secondo tempo cui segue un delicato adagio e che si conclude con un rondeau brillante e virtuosistico.
L’esecuzione dei tre musicisti è stata piacevole: il violoncello e la chitarra erano equilibrati e sciolti e con piacere abbiamo ritrovato il morbido suono della viola di Nickrenz, che, però, sa anche essere arguto.
Il trio con pianoforte in sol minore op. 15 in tre movimenti di Smetana è poetico e drammatico e il terzetto che lo ha eseguito è stato eccezionale nell’assoluta unitarietà emotiva e tecnica. Il violino di J .Swensen ha ritrovato lo smalto del suo bel suono preciso; C. Brey al violoncello ha saputo essere accorato e robusto;
E. Nickrenz al pianoforte è stata precisa e talvolta addirittura sensuale. Proprio una bella esecuzione.

Lunedì 29 giugno

Dopo qualche indugio, dovuto al ritardo misterioso della campana del Duomo, Paula Robinson ha introdotto il chitarrista E. Fisk ed il violinista J. Bell impegnati nell’esecuzione del Duo Concertante di Paganini. Il brano in tre movimenti ha una sua freschezza, ma finisce col risultare noioso perché troppo ovvio. I due ne hanno offerto un’esecuzione un po’ scolastica, con qualche sbavatura. La stessa Robinson ha eseguito al flauto la Danse de la chèvre di Honneger: il breve pezzo inizia con la ripetizione di chiari e distesi intervalli, cui segue una serie di note saltellanti e il tutto si risolve poi di nuovo sugli intervalli. La flauti sta lo ha reso con un’interpretazione assorta e molto accurata.
J. Y. Thibaudet al pianoforte è stato impeccabile nell’eseguire la Quatrième Gnossiène di Satie: la sinuosa melodia spagnolesca si fondeva, spesso, con l’ininterrotto ed equlibratissimo arpeggiare della mano sinistra; un grumo sonoro, con un arresto improvviso, era la conclusione.
Flauto e pianoforte, insieme, si sono cimentati in una trascrizione da un Concerto per pianoforte ed orchestra di Barber consistente in un bel piccolo tema terminante con un punto interrogativo, continuamente ripetuto, variato e modulato con delicatezza e grande semplicità armonica. Entrambi ottimi, anche per l’eccellente impasto sonoro.
Il Quartetto con pianoforte in mi bemolle maggiore di Schumann inizia con un primo tempo preceduto da una breve introduzione che ricorda un canto liturgico, ed è caratterizzato da un sano vitalismo e da una grande limpidezza armonica. Lo slancio si arresta per due volte in poche misure nuovamente di carattere liturgico; il secondo tempo è segnato da un lavorio affannoso, appena mitigato da qualche momento più disteso; il penultimo tempo si fa notare per le belle e sentimentali melodie; il finale è abbastanza sereno, ma con qualche spunto drammatico. Abbiamo apprezzato l’accurato lavoro d’insieme dei quattro strumenti; finalmente abbiamo anche potuto valutare appieno la buona qualità del violinista Bell; curata come sempre la presenza della viola di Nickrenz e del violoncello di Brey.
Bravissimo nella sua virile sensibilità J. Y. Thibaudet. Così si è concluso il concerto del giorno dei SS. Pietro e Paolo.

34 – Luglio ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

Christian Bérard

Christian Bérard (1902-1949) non é sicuramente un artista noto; ha avuto in Francia grande successo come scenografo, ma l’interesse intorno alla sua figura è praticamente svanito dopo la morte. Riteniamo molto importante che il Festival dei Due Mondi abbia presentato a Palazzo Racani Arroni la sua opera dando particolare importanza alla produzione pittorica.
Nato e morto a Parigi, negli anni tra il 1920 ed il 1930 fu uno dei rappresentanti di quel neo-umanesimo che trova in Waldemar George il suo teorico più convinto. Ma, la sua ultima mostra la fece nel 1934; dopo di che si dedicò alla scenografia. Fu lo scenografo di autori come Cocteau e Giraudoux e di attori come L. Jouvet e J.L. Barrault e presto divenne un acclamato beniamino del tout Paris culturale e mondano e tale restò fino alla sua morte improvvisa sulla scena del Teatro Marigny.
Ci siamo avventurati con grande interesse lungo le sale della mostra e abbiamo osservato con attenzione tutto ciò che vi era esposto (anche per noi, come per molti, è stata una scoperta), ma ne siamo usciti molto perplessi. Indubbiamente Bérard non è un artista banale e la sua pittura ha un significato non indifferente per l’evoluzione artistica del Novecento, però non riusciamo a decidere se abbia rivestito un ruolo positivo o negativo, sano oppure malato. L’arte malata non è soltanto quella brutta, non è neppure necessariamente quella che è poco o per niente arte. Noi pensiamo che l’arte malata sia quella che non infonde coraggio; l’arte sana, invece, deve dare coraggio, non importa se per fare una cosa o l’altra, purché non sia troppo serva della massa imbecille o delle angosce interne dell’artista. Bérard non è stato certo un pittore servo delle imbecillità massificate: le sue tele riflettono il possesso di un linguaggio personale e organizzato in una struttura di segni e significati coerenti, seppur con una loro evoluzione. Quello che più ci ha lasciati perplessi è la sua difficoltà ad incitare ad essere coraggiosi ed a dire coraggiosamente. Il bello scritto di Jean Clair sul catalogo, chiaro ed esplicito, parla dell’intrinseca teatralità dell’opera non solo scenografica di Christian Bérard, contiene, però, una frase che noi, che il teatro lo abbiamo fatto partendo proprio dalla gavetta, riteniamo blasfema ed offensiva: «…l’attore è per essenza, per natura si potrebbe dire, un essere androgino.». Noi siamo certi invece che l’attore deve essere maschio fino in fondo, se è maschio, e femmina fino in fondo se è femmina. Certo la femmina deve anche saper rappresentare il maschio fino in fondo, e il maschio la femmina, e se è il caso l’attore deve anche saper impersonare l’androgino. Chi non riesce a realizzare questo non è un attore, e poiché tutta l’arte è teatro non è neppure un pittore e non è neppure un musicista. Per nessuna ragione un artista deve accettare la viltà intrinseca all’ambiguità sessuale; anzi, deve saper giocare con tutti i ruoli dell’esisténza, sessuali e non, tentando però di guardarsi dentro per riconoscere i propri desideri, accettandoli o rifiutandoli per libera decisione ed intima convinzione. Forse la libertà non esiste, ma bisogna comunque kantianamente che venga postulata.
Abbiamo fatto questo «pistolotto» perché ci è sembrato che proprio nella paura di riconoscere in sé e negli altri un corpo reale sia consistito il dramma anche artistico di Bérard. Egli ha paura di essere «quel» Bérard ed ha paura che gli altri abbiano il loro corpo.
La lunga serie degli autoritratti lo rivela drammaticamente con una insistenza denunciata anche dalle date. Per liberarsi dalla paura di essere qualcosa di determinato Bérard si traveste sulla tela e nella vita, ma anche attraverso i colori e i segni che spesso sfumano in un indistinto grigio si percepisce il suo ignorare, o il suo sforzo di ignorare, cosa ci sia oltre il travestimento.
Questa angoscia svanisce quasi nei bozzetti delle scenografie, come se, rassicurato dalla legittimazione delle finzioni altrui, egli si sentisse dispensato dalla riflessione su di sé.
La scena teatrale ed i personaggi continuano ad essere sue proiezioni (anche in queste infatti dominano il vuoto e il non finito), ma egli può fingere di ignorarlo.
Cercare linee continue che colleghino i non molti dipinti raccolti da Bruno Mantura e Giancarlo Menotti non è facile, per cui si può optare per l’ordine cronologico e vedere nei ritratti degli anni tra il 1925 e il 1930 quell’ispirazione malinconica che ha indotto molti critici ad accostarli alle tombe del Fayyum, che in quegli anni erano al centro dell’interesse dell’ambiente artistico europeo in cui alcuni cercavano nell’antica ritrattistica funebre di quella lontana regione dell’Egitto le premesse su cui basare una ribellione al dominio dell’astrattismo allora prepotentemente avanzante.
La Testa d’acrobata del 1925 e la Tamara Toumanova del 1931 possono essere considerati i punti di partenza ed’ arrivo di questo tentativo di fissare nel ritratto, col minor numero di dettagli una realtà individuale; così, se l’uomo del circo è ancora avvolto da ombre che nascondono la sorgente delle linee e dei colori, il busto della ballerina georgiana invece si ritaglia netto, con la precisione di un cammeo, sullo sfondo rosso lacca uniforme e squillante; e al cammeo vien da pensare non solo per la compostezza un po’ stupefatta dell’immagine, ma anche per il gioco del bianco e della nera treccia intorno al volto.
Il rosso ritornerà con valenza totalmente diversa ne Il cuscino rosso del 1943 e sarà l’unica nota viva di un’elegia tragica sulla bellezza del corpo virile cui Bérard non ha il coraggio di accostarsi e che pare sfuggire anche all’osservatore, con quel suo sprofondare nell’indistinto sull’orlo del quale, col gesto della mano sembra volersi trattenere.
I ritratti torneranno negli anni successivi al 1940, arricchiti dalla riflessione e dallo studio della pittura francese che va dall’impressionismo all’ultimo Degas. Una sopravvenuta maturità culturale sembra ora permettergli di giocare con le luci e i colori altrettanto disinvoltamente che con lo psicologismo che scopre nei tratti il carattere. Dura e introversa la Ragazza con ventaglio del 1942/44, il volto e la mano della quale emergono con forte contrasto dal nero del busto e dal buio dello sfondo. Romanticamente languido è il Ritratto di giovane uomo del 1945, sul viso del quale giocano chiazze di luce e dove il nero è ammorbidito da un tenero blu che affiora sotto il bavero della giacca. Spavaldo e ricco di riflessi che lo animano il giovane uomo che fa La comparsa del 1946/48.
Da questo percorso abbiamo voluto escludere gli autoritratti, che segnano un diverso itinerario. Nell’Autoritratto 2. La spiaggia del 1932/33 , il pittore vede se stesso come un fanciullo che si staglia sul paesaggio di una marina che con rassicuranti dettagli realistici attenua l’ansia per la solitudine.
Nell’Autoritratto con scialle del 1933 la difesa contro l’angoscia sembra essere il travestimento: l’uomo, con un gesto da fanciulla, stringe lo scialle rossiccio che gli copre la testa e gli nasconde un poco il volto la cui espressione attonita emerge da un grigio illuminato di chiarori giallo-verdi. Del 1948 sono ben tre altri autoritratti. L’Autoritratto col berretto bianco e l’Autofitratto 3 (grigio e rosa) ci mostrano due personaggi che è impossibile identificare nella stessa persona, non solo per la grande lontananza stilistica e cromatica, ma perché addirittura i lineamenti fondamentali sono diversissimi. Nell’Autoritratto con bambino su una spiaggia la tempera su carta propone nuove atmosfere, la luce azzurra si liquefà ristagnando più cupa in macchie sparse e l’uomo, un po’ selvaggio e goffo, tiene vicino a sé un bambino che ci richiama alla mente il fanciullo solitario di quindici anni prima.
Del Bérard scenografo abbiamo apprezzato la leggerezza del bozzetto per Mozartiana (passo a tre) per un balletto di Balanchine del 1933, di ispirazione picassiana, come era giusto che fosse; e poi l’Arcangelo o l’Angelo di Sodoma : un grande olio su cartone tratto dal lavoro scenografico per un opera di Giraudoux con musiche di Honegger, rappresentata a Parigi nel 1943, nel quale una certa bellezza selvaggia del torso nudo, della testa minacciosa, viene quasi schernita dalle vivaci chiazze di colore delle ali che scendono a coprire la parte bassa del corpo ancora una volta non finito. Il bozzetto per le scene del Misantropo di Molière che non sarà mai eseguito e denuncia in modo quasi simbolico quell’ansia di vuoto che tormentava lo scenografo Bérard, prossimo a scomparire anch’egli dalla scena.

34 – Luglio ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

RISTORARSI A SPOLETO

Panciolle

Ci è capitato, dopo tanto tempo, di tornare a sederci ai tavoli del Panciolle, in piazza Muzio Clementi, all’ora del pranzo. Le ultime volte ci eravamo seduti agli stessi tavoli nel fresco buio della sera; ma questa volta il sole smagliante è stato impietoso. Il piccolo terrazzino soffocato dall’afa sembrava inadeguato a contenere i troppo numerosi avventori.
Non ha attenuato il nostro disagio quello che, poco alla volta, ci è arrivato dalle cucine e dalla cantina. Caldiccio e cattivo il bianco della casa Vigna d’oro, vino da tavola di Terni che abbiamo abbinato all’antipasto di bruschette. Sul pane, invero ben tostato, abbiamo trovato prima fette di insipidi e troppo oliati pomodori, poi un pessimo intruglio acquoso che forse conteneva il ricordo di un vecchio scorzone.
Parliamo ora dei primi: tortellini al ragù davvero indegni per quanto erano scotti e acquosi; strangozzi alla montanara rancidi e puzzolenti; strangozzi alla spoletina, papposi, pesanti, scotti che irritavano lingua e palato col peperoncino e l’aglio bruciati; il tartufo alla pasta (primo piatto che costa il triplo degli altri) era del tutto senza sale, untissimo ed immerso nello stesso intruglio già trovato sulla bruschetta. Su questi piatti abbiamo tentato di toglierci la sete con un bianco Venerino di Spello polveroso, con gusto di tappo e indiscutibilmente troppo caldo. Sapendo che la rustica preparazione delle carni è uno dei punti di forza della cucina umbra abbiamo sperato nei secondi: ma l’abbacchio scottadito era una grassa e vecchia pecora; lo spiedino alla brace sembrava un avanzo di flaccida carne bollita e ripassata malamente allo spiedo; lo stopposo pollo alla cacciatora era di rituale e sciocca banalità con l’aggravante di un eccesso di sale; la bistecca di manzo, poi, sapeva di acido fenico; i peperoni di contorno erano, strano a dirsi, mangiabili. Il Sagrantino rosso di Montefalco, che abbiamo associato alle carni, era un vino già morto, senza più sa profumo né sapore. Dei dessert non c’è nulla da dire: tiramisù e tartufi industriali, fragoloni coltivati e con uno «sbaffo» di gelato. È chiaro che in queste condizioni qualunque prezzo è sempre troppo alto. Assetati e affamati, poiché abbiamo avanzato quasi tutto, ci siamo allontanati in cerca di consolazioni.

Fontanelle

A non molti chilometri da Spoleto, sulla collina che domina Campello sul Clitunno, tra boschi di querce e di pini, sorge il rustico e un po’ civettuolo edificio dell’albergo ristorante Fontanelle.
I gestori concedono a chi arriva fin lassù un’accoglienza riservata e allo stesso tempo gentile. L’aria è molto «fina» e l’appetito è certo, soprattutto se poco prima si è fatta una bella passeggiata. La confortevole sala principale non è molto grande, ma c’è anche un gradevole spazio all’aperto, ricco di ombra e di sole, dove abbiamo talvolta consumato rapide e gustose merende.
Il pasto si apre con le immancabili bruschette che sono però fragranti e appetitose, con una salsa al tartufo che questa volta è sensata ed armonica, un fresco pomodoro profumato di buon olio dell’Umbria, un curioso patè che sa di limone e di ginepro, un accettabile accoppiamento di formaggio e prosciutto ed una deliziosa combinazione di pomodoro, formaggio e tartufo.
Tra i primi abbiamo apprezzato moltissimo le eccellenti tagliatelle fatte in casa condite con un sugo al tartufo misurato e ben «tirato»; gli strengozzi all’aglio, olio, pomodoro e peperoncino erano abbastanza saporiti e ben cotti, però abbiamo dovuto lamentare un eccesso di acqua di cottura rimasta sul fondo del piatto; ci è dispiaciuto che il buon sugo al tartufo (che su nostra richiesta non è stato contaminato dalla panna) fosse un po’ svilito dai tortellini dozzinali, non certo fatti in casa.
Il misto alla brace ci è sembrato davvero gustoso e abbiamo trovato eccellente l’idea di servirlo in tavola su di un braciere ardente. Due tocchi di autentica raffinatezza sono state le squisite patate fritte all’italiana (cioè a rondelle) e un formaggio di pecora con tartufo al cartoccio.
Tutte le altre verdure dei contorni erano di piacevole freschezza o di calda fragranza.
Ci dispiace che al termine di un pasto così ben riuscito ci abbiano proposto solo pochi e banalissimi dessert, nessuno dei quali fatto dallo chef.
Dopo un Brut Riserva Montelera, abbiamo apprezzato sia il bianco Trebbiano della casa, aromatico e piacevolmente persistente sia il rosso San Giovese in caraffa. Il conto è stato più che onesto, ovviamente proporzionato alla ricchezza e abbondanza delle portate.

La Torretta

Dopo un periodo di cedimento alla moda dei «burger», l’insegna del ristorante al numero 43 di Via della Filetteria si richiama di nuovo alla tradizione locale ed ha ripreso il vecchio nome La Torretta. Questa pizzeria ristorante si prepara ad accogliere la folla festivaliera con menù trilingue e galeotte roselline sui tavoli. La nostra è stata una strana avventura: come antipasto abbiamo voluto assaggiare alcune tra le preparazioni di pizzeria che sono risultate però assolutamente disastrose: pasta mal cotta, ora cruda, ora bruciacchiata, su cui giacevano ingredienti indistinguibili, inerti ed insapori, tanto che non ha senso tentare di distinguere tra la Pizza Vero e la Pizza Paesana. I primi di pasta erano intrugli degni di un sabba delle streghe e avrebbero potuto benissimo essere a base di code di rospo o lingue di neonato, ma il menù poliglotta pomposamente diceva ben altro: gli scotti spaghetti alla carbonara erano grondanti di olio, sabbiosi con l’uovo repellentemente raggrumato e troppo salati; le penne alla Jop con pomodoro, mozzarella, panna e salsiccia erano collose e dolciastre, e quelle alla boscaiola coi funghi ed il pomodoro erano sfatte, con un sugo che sapeva di risciaquature; le tagliatelle ai carciofi con panna e salsiccia erano stantie e irrancidite.
Tra i primi e i secondi abbiam notato una lunghissima attesa, benché il locale fosse ormai quasi vuoto e un’ansia sottile cominciava a pervaderci.
Quando infine sono arrivati i secondi abbiamo avuto una gradevole sorpresa: a a parte l’arista di maiale il cui sugo era bruciacchiato e sapeva ancora di vino non ben sfumato, il pollo alla diavola, la vitella arrosto e la bistecca erano decisamente passabili, se pure non molto di più, a distanza stratosferica dai primi.
Anche qui i dessert erano desolatamente industriali oppure consistevano nell’ accoppiata di frutta e gelato.
A parte il vino bianco della casa, poco sapido e disarmonico e il rosso accettabile, abbiamo bevuto un curioso Giogantinu, il famoso Vermentino di Gallura di Berchidda, sconvolgente quasi per la ricchezza eccessiva di profumi e sapori che lo rendevano più simile ad un long-drink che ad un vino abbinabile a qualsivoglia piatto.
Una parola vogliamo spendere per lodare la cortesia del servizio svolto da giovani premurosi e sorridenti. Il conto finale non è stato veramente elevato.

La Barcaccia

Trattoria di specialità spoletine, in piazza F.lli Bandiera 3, proprio dietro la fontana del mercato, attrae il passante per l’aria variopinta del terrazzino esterno e anche per una grossa segnalazione del menù turistico a poco prezzo. Noi ci siamo mescolati al gruppo nutrito di giovani suonatori e coristi stranieri che sedevano a quei tavoli ignari e felici della loro «cena italiana». Vogliamo però ora dire loro ben chiaro che quel tipo di cucina non ha nulla a che fare né con Spoleto né con l’Italia; si tratta infatti di un cumulo di pastrocchi disgustosi e per di più fatti pagare a carissimo prezzo. All’interno del menù a prezzo fisso, le portate, oltre che cattive, sono veramente pochissime; se appena però si beve qualcosa o ci si avventura in un antipasto o contorno diversi da quelli prescritti si viene letteralmente spennati. Noi abbiamo consumato un pasto così composto: un antipasto di crostini misti, dal pane mal tostato, praticamente sconditi (e forse è stato meglio così); una trota tartufata, immangiabile tanto era rinsecchita e ricoperta della solita salsa al tartufo che sul pesce risultava contemporaneamente dolciastra e amara. Per primi ci hanno ammannito un pappone di riso cosparso di tartufo terroso e degli strangozzi alla montanara indecenti per quanto erano scotti, unti e insapori. Il galletto tartufato alla brace si vendicava su di noi delle torture subite, punendo ci col sapore delle sue legnose membra bruciacchiate e salatissime; l’agnello arrosto, ugualmente salato, dava il voltastomaco perché riusciva ad essere nello stesso tempo untuoso e stopposo.
Ci è stato vantato un tiramisù della casa che alla prova dei fatti ci è parso addirittura ridicolo tanto era al di sotto di ogni livello professionale.
Abbiamo bevuto un assurdo Zeffirello bianco (un Sauvignon del veneto) più simile ad una dolce limonata frizzante ad un autentico vino d’uva e un discreto rosso di Montefalco, giustamente tannico, equilibrato e saporito.
L’unica nota consolatoria sono stati, insieme al Montefalco, i profumati fiori di ginestra sui tavoli.

Trattoria del Ponte

Tra il primo e il secondo atto del Parsifal, i due Farfalloni non hanno avuto la forza di andare a provare uno dei locali che offrono per l’occasione un pranzo a prezzo fisso nel lungo intervallo, e si sono rintanati nel loro misterioso rifugio a bere un «calice» di champagne, ancora tutti permeati dalle note della coinvolgente musica wagneriana. Affamatissimi quindi, un bel po’ dopo mezzanotte, circondati dagli amici fedeli, sono approdati alla Trattoria del Ponte, di Via J Cerquiglia 4, dal loro amico «Sportellino».
Periodicamente abbiamo visitato questo lindo locale della Spoleto bassa e non ne siamo rimasti mai delusi: anzi! Dichiariamo ancora una volta pubblicamente il nostro entusiasmo per questa cucina. Da «Sportellino» si mangiano cibi schietti, sapidi e fragranti, bevendo bene. Per far venire l’acquolina in bocca ai nostri lettori, vogliamo raccontare la nostra cena, premettendo che questo non è che un esempio di una cucina sempre varia e ricca nella sua coerente rusticità. Abbiamo cominciato con un saporitissimo d prosciutto, una focaccia ben cotta, ripiena di gustose verdure, crostini di caccia, una bruschetta al pomodoro che è quasi impossibile capire come riesca ad essere ti così buona, data l’elementare semplicità degli ingredienti e poi l’immancabile bruschetta al tartufo. Questo è uno tra i pochi posti di Spoleto e dintorni in cui è possibile apprezzare il tartufo umbro. Di questa stagione, ovviamente si trova solo il tubero estivo, decisamente meno pregevole di quello invernale, ma che, se viene usato con arte e schiettezza, riesce a sprigionare profumi e sapori quanto mai appetitosi nella loro «rusticana» aggressività.
Anche la porchetta, tradizionale nella cucina di gran parte dell’Italia centrale, viene qui preparata in modo eccellente e coi giusti livelli di umidità e morbidezza e vivacità e così la coratella d’agnello. Gli gnocchi fatti in casa si scioglievano in bocca e gli strangozzi, cotti alla perfezione, erano esaltati dal tartufo. Due piatti di agnello eccellenti erano quello al tartufo e lo scottadito, diversissimi tra loro, uguali solo nella bontà e nella rara leggerezza.
I contorni di verdure cotte e crude avevano un buon sapore di orto.
Con diffidenza abbiamo accettato la proposte di un tiramisù fatto in casa, ma quando il cucchiaio si è immerso in quella morbida crema al profumo di caffè ogni esitazione è caduta e ne abbiamo chiesto ancora. Se Sportellino è in vena, con dei rustici dolcetti è possibile apprezzare un eccezionale e casalingo Aleatico.
Per passare ai vini, dobbiamo dire che la scelta è limitata a pochi bianchi e rossi, però questo limite è compensato a sufficienza dal fatto che il bianco e il rosso della casa sono un gustosissimo trebbiano, molto vivace e un po’ erboso, e un rosso in cui prevale il sangiovese, che, pur se ancora acerbo e quindi molto tannico, già sprigiona uno speziato sentore soprattutto di chiodi di garofano.
Sulla carta c’è anche una proposta blasfema: i tortellini alla panna (!) e tartufo: debolezza di chi non può fare a meno di concedere qualcosa al «malgusto» imperante. Possiamo perdonarlo?
Raccontando questa cena, e ricordandoci che questa volta non abbiamo fatto, come altre volte, solo il gesto di «piluccare» qua e là nei piatti dei nostri amici, ma abbiamo mangiato proprio tutto, ci siamo spaventati della nostra capacità di peccare, anche di gola.
Il prezzo può variare con l’umore dell’ oste e la quantità dei piatti, restando sempre ragionevole.

34 – Luglio ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

TEATRO IN PROSA

Letteratura

La Donna col pugnale

Arthur Schnitzler (1862-1931) è un romanziere e drammaturgo austriaco che da un po’ di tempo è diventato alla moda, soprattutto per le risonanze psicoanalitiche delle sue opere. Nonostante la diffidenza che nutrì per Freud e la di lui scienza allora nascente, la problematica di una realtà inconscia e le dinamiche suscitate negli esseri umani dal gioco delle proiezioni e identificazioni sono in lui ben presenti. Le aggressività rimosse, il balzare improvviso dei fantasmi interni di ognuno che dai sogni irrompono nella realtà, permeano consapevolmente le sue pagine. Diciamo «consapevolmente» perché le dinamiche inconsce sono presenti tanto in Tirteo, quanto in Piero della Francesca e Shakespeare; però quando qualcuno esplicitamente amoreggia con la psicoanalisi, soprattutto se viene da quel mondo mitteleuropeo in cui essa sorse, tutti vi si buttano sopra convinti di «riscoprire» chissà che. Per fortuna Schnitzler è un artista valido indipendentemente da tutto questo: egli sa interpretare la realtà dell’uomo con dolente e talvolta spietata acutezza. È un autore che non ha amato l’umanità, e facendo del facile psicologismo, diremmo che l’ha odiata perché ne è stato innamorato e deluso. Il giovane regista Walter Pagliaro ha deciso di mettere in scena a Spoleto due atti unici dal ciclo Ore vive.
Il primo di essi Letteratura è un divertentissimo scherzo di tipo boulevardier in cui un giovane aristocratico ricco ed appassionato di equitazione cerca di impedire alla promessa sposa di continuare a fare ·la scrittrice, cosa disdicevole per una futura baronessa. Arriva però un vecchio amante della donna, compagno della passata vita di bohème, scrittore anch’egli.
Qui nasce un divertentissimo «gioco della disonestà» che vede i tre personaggi superarsi a vicenda in una ignobile gara di ricatti. Sono tre «squallidoni»: sia il giovane barone per beni sta e tetragono all’arte, sia il tronfio e volgare scrittorello, sia la velleitaria femmina arrivista. Non diciamo di più perché molto del godimento è legato alla sorpresa.
Il secondo atto unico La donna col pugnale è più metafisico, stralunato, e pretenzioso. In un museo una dama resiste alle insistenze di un giovine innamorato che vuole sollevarla dalle pene di un vita umiliata dal cinico marito drammaturgo, che non esita a mettere sulla scena le situazioni più intime del loro rapporto, pur di avere successo.
Davanti al quadro di una «donna col pugnale», di anonimo cinquecentesco, la signora ha come un trasalimento ed una visione in cui rivive il dramma di colei che posò per il quadro. A questo punto l’azione si sposta in quel lontano passato e vediamo il quadro incompleto. Paola è moglie di un famoso pittore ed entrambi sono esseri moralmente esecrabili. Quando il giovane allievo del pittore gli butta in faccia di aver posseduto la donna, e gli chiede di essere ucciso perché sa che il suo è un amore disperato e impossibile, astutamente l’artista fa il magnanimo, con lo scopo di esasperare la moglie, la quale sta al gioco e, da vera mantide religiosa, pugnala il tenero innamorato.
Soddisfatto l’artista può ora completare il quadro, ritraendo la sposa infedele che ancora stringe in mano il pugnale insanguinato. Eccoci di nuovo nel museo, dove la gran dama progetta lo stesso delitto, magari borghesemente meno cruento.
Il disprezzo sommo di Schnitzler per gli artisti è pari solo al fascino che sente per quelli che considera esseri diabolici, pronti a tutto pur di vendere e avere successo.
In realtà, questo autore, dopo gli artisti, disprezza furiosamente le donne (ben inteso perché ne sente il fascino mortifero) e le considera, come molti loro compagni maschi, pronte a tutto per soddisfarsi e conquistare potere. Nel foyer abbiamo sentito commenti imbecilli: i soliti maschietti castratelli e le loro donnone-virago sproloquiavano sul femminismo di Schnitzler. Nulla di femminista è possibile leggere nei due testi, tanto è vero che l’unico eroe positivo è un maschio: il giovane allievo del pittore, un essere pulito, consapevole quindi di non poter vivere in questo mondo, tanto da chiedere ed ottenere dall’altro uomo e dalla donna la morte. Micaela Esdra, nella parte della disonesta fidanzata della prima pièce è stata bravissima: dinamica, arguta, deliziosa nel fare la finta ingenua e irresistibilmente divertente. La sua voce personalissima e i suoi gesti precisi costruivano un personaggio capace di continui risvolti dall’inizio alla fine. Delia Boccardo impersonava la duplice figura di Pauline-Paola, esprimendo bene in l’ipocrita riservatezza della borghese e la truculenta sensualità dell’amante-sposa rinascimentale e contemporaneamente riusciva a collegare con grande abilità l’una all’altra con piccoli, accuratissimi particolari.
Ci è piaciuta la grande capacità di differenziare i suoi due personaggi manifestata da Roberto Herlitzka: nel primo atto la sua voce e il suo gesto scaturivano da una figura sornionamente ripiegata nella propria vigliaccheria; nel secondo, una solenne prosopopea mascherava, insieme con la terribile voce glaciale, una crudeltà senza scrupoli.
In Letteratura ci ha deluso la prova di Lino Capolicchio, rigido, monotono, più simile ad un bibliotecario meschino che ad un brillante e spietato aristocratico.
Ne La donna col pugnale è stato invece capace di trovare le corde giuste, sia nel tratteggiare la fremente timidezza di Leonhard, sia nel narrare la passione autodistruttrice del giovinetto rinascimentale.
La regia di Pagliaro è stata ottima: ha dosato tutti gli ingredienti senza strafare, fornendo agli interpreti un solido punto d’appoggio in ogni momento.
Le scene e i costumi di Alberto Verso hanno giustamente vestito spazi e persone.
La consulenza musicale di Pietro Gallina ha offerto qua e là qualche accenno di musiche di Schnitzler stesso, Wolf, Schoenberg e G. Da Venosa.’

Concerti in prosa

La storia di Ninì

Guido Davico Bonino e Franco Ruggieri hanno curato quest’anno un’originale rassegna di teatro da camera che prevede sei spettacoli presentati alla sala Frau come Concerti in prosa. Nel primo di questi, Pamela Villoresi ha scelto di ritagliare il suo concerto dal libro La storia di Ninì tratta dallo Scialo, del 1960, che è la seconda opera della trilogia Una storia italiana di Vasco Pratolini.
Marco Sciaccaluga ne è stato il coordinatore scenico e Paolo Terni ha approntato un discreto fondale sonoro.
Questo romanzo è un ampio affresco in cui si intersecano diverse vicende individuali che hanno sullo sfondo l’Italia tra l’approssimarsi della prima guerra mondiale e l’affermarsi del fascismo.
Abbiamo vissuto con il fiato sospeso e un intenso batticuore un’ora indimenticabile! Ci siamo riconciliati col teatro e con gli attori ed abbiamo scordato le migliaia di ore passate nella nostra vita ad annoiarci assistendo a spettacoli vuoti, presuntuosi, ignoranti, dilettantistici e costosi. Noi siamo certi che questo sia un evento teatrale memorabile nella storia della cultura italiana e speriamo che non si esaurisca nelle poche rappresentazioni spoletine.
Ninì è uno splendido personaggio già nel romanzo di Pratolini: ricca e giovane donna, intollerante di ogni normalità dell’ esistenza, non sopporta il marito di cui umilia la dignità anche sessuale. La sua vita scorre spinta da un interiore tumulto che la induce a cercare nei corpi delle donne che le sono vicine, per lo più serve o contadine, la soddisfazione di una sensualità così eccessiva che la tiene in uno stato di perenne esaltazione.
Vedevamo davanti a noi realizzarsi il prodigio dell’antico istrione che raggiunge il sublime. Pamela Villoresi era consapevole di tenerci tutti in pugno e non ci dava tregua con la sua Ninì. La voce era talora sommessa, quasi sussurrata, smarrita, poi si arrochiva nella descrizione dell’orrore per il gigantesco membro del marito, nelle sue parole si insinuava terribile il desiderio di castrazione delle antiche madri; un attimo dopo cambiava in modo sbalorditivo e una rozza ed ingenua voce diceva lo smarrimento di quell’uomo che non capiva. Con una capriola l’atmosfera cambiava e lentamente saliva una marea di sensualità nel desiderio per il corpo dell’altra donna.
Improvvisamente le donne diventavano due; le loro voci si alternavano nel gioco degli approcci: Ninì, la padrona, ordinava imperiosa e seduttrice; Fru, la serva, con petulante e cinguettante civetteria si prestava ai giochi sessuali, consapevole di essere la più forte e più astuta. Gli spasimi del desiderio portavano Ninì fino al delirio che rende malati ed ecco la proteiforme attrice sdoppiarsi ed essere contemporaneamente la malata ed il suo dottore, un petulante medico di campagna.
Continuava l’avvicendarsi vertiginoso di voci e sentimenti, con pochi attimi di irresistibile umorismo ristoratore; finché la tensione risaliva verso l’acme di una scena di scatenata sessualità di cui Ninì era involontaria testimone, tra la serva ed un gruppo di squadristi in camicia nera, che nello sghignazzo osceno dell’orgia avevano oltraggiato, con la complicità di Fru anche i sentimenti affidati dalla padrona alle pagine di un diario. Insieme con la voce il corpo dell’attrice partecipava al pirotecnico turbinio: cavalcando nell’amplesso più brutale, contorcendosi nel disgusto, rabbrividendo per la passione, abbattendosi di schianto, ripiegandosi stanco.
L’avventura di Ninì si conclude sommessamente: la voce di Pamela ce la descrive nuda nel bagno con le vene dei polsi tagliate, mentre l’acqua diventa sempre più rossa.

Un piccolo delinquente nevrotico

Il secondo dei concerti in prosa, vede Massimo De Francovich impegnato a portare sulla scena un ritratto di Italo Svevo, delineato leggendo frammenti del suo epistolario, collegati da qualche riga tratta dal Diario e dalle Pagine sparse. L’idea di trasformare in spettacolo la lettura di un epistolario non è certo nuova. Queste lettere sveviane, che sono indirizzate alla moglie, appartengono al periodo in cui lo scrittore triestino era assorbito da una vita borghesemente impiegatizia e trattano tutte del quotidiano, lasciando poco spazio alle riflessioni letterarie. Svevo è però un grande scrittore e lo si vede anche qui, sia quando delinea spietatamente e gustosamente i personaggi della sua famiglia, sia quando parla della «cacca» della figliolina, sia quando fa scenate di gelosia o parla in modo commovente, se pure greve, d’amore alla sua Livia lontana.
Questo materiale è, comunque, il più grande pregio dello spettacolo. Il difetto fondamentale, invece, sta nella eccessiva durata. Sappiamo che Bergson diceva che la percezione del tempo nel suo trascorrere è quanto mai soggettiva, e questo in teatro è evidentissimo (ad esempio per noi il tempo durante il Parsifal è letteralmente volato). Invece, questi due «atti» di trentacinque minuti non finivano mai. La sola prima parte è bastata a stenderci: De Francovich, a nostro parere, interpretava male quello che leggeva; bamboleggiava troppo, involgariva quegli aspetti più intimi e quotidiani, raccontati dalle lettere, con sottolineature quasi triviali, umiliandone la riposta poeticità. Riconosciamo all’attore il merito di essere riuscito, nel secondo tempo, ad arricchire la sua tavolozza, cangiando i timbri di voce e riuscendo anche a commuovere ed a coinvolgere.
La realizzazione di Marco Sciaccaluga e le musiche di repertorio ottimamente scelte e dosate da Paolo Terni creavano una leggera ambientazione intorno al protagonista.

33 – Giugno ‘87

mercoledì, 1 luglio 1987

Da alcuni anni la Cooperativa Teatrale «La Bilancia» organizza una rassegna di giovani autori. La «quinta rassegna di autori italiani under 35» ha portato sulle scene, al Teatro Tor di Nona, tre nuove opere. Noi abbiamo visto La valigia di Marco Tesei: un atto unico che, nostro malgrado, non abbiamo potuto apprezzare un gran che. Il testo non ha infatti alcuna tensione drammatica, è poco efficace, presuntuoso e pasticciato; la suspense su cui l’autore vorrebbe basare i suoi effetti non riesce a diventare mai un’atmosfera e inoltre i personaggi non hanno spessore né poetico, né teatrale o psicologico.
La vicenda dovrebbe ruotare – ma non è così – intorno ad una valigia misteriosa che Loris e Rita, due stravaganti e quasi attempati barboni, custodiscono in una baracca abbandonata lungo la ferrovia, dove, chissà perché, svolgono anche uno scrupoloso lavoro di catalogazione di libri e dischi. Sono scoperti da due liceali, Roberto e Cinzia, piombati lì per fare l’amore. Sul ponte passa anche un giornalista alla ricerca di uno spunto per scrivere un romanzo-verità e i ragazzini lo convincono a mettersi con loro alle calcagna dei due strani tipi, che potrebbero essere i pericolosi rapinatori di cui stanno parlando le cronache (e la valigia potrebbe contenere il bottino). I tre cercano di impadronirsi della valigia, ma sono scoperti dalla strana coppia che, dopo aver gonfiato tanti palloncini colorati, si suicida.
Tesei fa parlare i giovani con un linguaggio pseudo-giovanilista di vent’anni fa; i meno giovani non si differenziano l’uno dall’altro, tanto da sembrare tutti lo stesso personaggio, a parte una sottile odiosità particolarmente marcata del giornalista. La recitazione di Mimmo Valente (Loris) e Caterina Vertova (Rita) ci è sembrata corretta e abbiamo apprezzato il notevole sforzo fatto per differenziarsi l’uno dall’altra, malgrado il testo. Roberto Zorzut ha offerto un’interpretazione snervata e inefficace del personaggio del giornalista. Disarmanti davvero Kim Rossi Stuart (Roberto) e Valeria Milillo (Cinzia) che parlavano e gesticolavano con molto impegno, un po’ imbronciati e tesi come se stessero facendo un compito in classe.
La regia di Julio Salinas non è riuscita a disciplinare l’andirivieni ed ha esagerato nell’ammucchiare troppe cose in piccoli spazi. La scena fissa e i costumi di Carolina Olcese e Tommaso Bordone, dallo scontato realismo, sono stati illuminati da un bell’effetto di lanterna magica, con tanto di luce lunare e nuvole al vento.