Psicoanalisi contro n. 34 – I cavalli di Antistene

luglio , 1987

Gli antichi prima di cimentarsi con la poesia invocavano la divinità. Dante, alle soglie del «Paradiso» invoca Apollo, perché lo assista nel realizzare il suo proposito di narrare ciò che è inenarrabile: dovrà infatti parlare della sua visione di Dio e della Trinità; avrà quindi bisogno di teologia e arte nello sforzo erculeo di raccontare come Dio possa essere visto uno e trino. Dopo tanto sforzo, la sua mente sopraffatta si smarrisce, come «percossa da un fulgore» ed egli si ritroverà a contemplare le più consuete stelle.
È forse più facile parlare delle stelle? Io penso di no; io penso che la divinità sia sempre presente, nelle piccole e grandi cose della terra e del firmamento. La divinità era partecipe della poesia di Mimnermo come della musica di Bach: il primo smarrito nel timore della vita che passa, il secondo solidamente tranquillo, avvolto in una rete di musica, prigioniero, ma salvo. Dio non ha paura neppure di essere partecipe del quotidiano esistere delle cose ed è lontano solo dagli imbecilli e dai vigliacchi. Ma, oltre che dal dio, da dove sorge l’ispirazione artistica, da cosa nasce l’arte?

2.
Il romanticismo ha dato all’occidente un importante contributo alla teorizzazione dell’arte, formulando ipotesi sulle sue origini, che pur essendo presenti implicitamente già da secoli nella storia della cultura, pure non erano mai state organicamente puntualizzate.
Secondo alcuni teorici dell’epoca romantica l’arte sorgerebbe dall’inconscio e l’artista sarebbe preda dell’ispirazione; tanto è vero che egli sentirebbe la propria opera sua solo in parte. Dagli abissi delle pulsioni, dei desideri, dai fantasmi dell’inconscio sorge l’arte; la coscienza ne modula l’espressione, la tecnica ne rende possibile l’estrinsecazione e la comunicazione. Fantasie incontrollabili, antiche come l’universo esplodono nell’opera d’arte, e l’uomo, l’artista, ne è quasi sopraffatto: colui che crea è più preda di quanto non sia padrone della sua ispirazione. Questo è anche ciò che più o meno consapevolmente crede il senso comune.
I teorici romantici nelle loro formulazioni più esasperate (e anche il senso comune) fanno dell’artista una sorta di vittima delle forze inconsce; ma io penso che il loro sia un atteggiamento riduttivo. A tali teorie romantiche sull’arte e sull’ispirazione io preferisco il concetto più grandioso, e forse apparentemente più retorico, di entusiasmo, nel suo significato di presenza della divinità in noi.

3.
Quella romantica non è stata l’unica riflessione organica sull’arte: parallelamente si è anche pensato che l’arte sia il frutto di un alchimistico dosaggio di principi razionali che tendono al bello, all’equilibrio, al sobrio e all’armonico. Secondo queste teorie, l’arte non deve essere «sturm und drang», ma deve essere razionale e consapevole ricerca della misura. Ma non solo.
Contrariamente a quanto comunemente si crede però la ragione non è mai completamente razionale; anzi, io credo sia quanto di più irrazionale esista nell’essere umano. La ragione è una forma di emozione; è un inganno quello che ci fa credere che la razionalità coincida con la coscienza. Scegliere la razionalità significa scegliere un modo d’essere e la ragione è uno strumento che può servire a dirigersi nel mondo; ma non è la luce fredda e obiettiva che illumina senza incertezze: è una luce ambigua e confusa come l’essere umano che l’ha scelta.
La psicoanalisi ha scoperto la razionalizzazione ed ha usato questo termine in modo quanto mai approprialo per definire l’inganno della ragione. Razionalizzare vuol dire parlare d’altro: parlare di giustizia quando in realtà si dovrebbe parlare di invidia e di vendetta, parlare di odio quando forse si dovrebbe parlare d’amore e viceversa.
È una razionalizzazione quella della signora grassissima che dice: «Io non vado in spiaggia perché fa troppo caldo». Invece di dirsi che non ha il coraggio di spogliarsi in pubblico. Il mare, la sabbia, il ciclo e le nuvole sono là che l’aspettano inutilmente…
L’uomo purtroppo ha imparato ad usare con facilità la razionalizzazione. Tutti dovrebbero essere capaci di andare oltre e vedere cosa si nasconde dietro l’apparenza delle razionalizzazioni; ma a questo fine non basta neppure la ragione: è l’uomo, con tutte le sue facoltà che deve imparare a conoscere cosa si nasconde dietro l’apparenza delle cose.

4.
I teorici appestano da secoli l’aria con le loro elucubrazioni imbelli intorno all’arte. C’è chi vuole l’arte spontanea, viscerale, gesto irripetibile che mira ad un’espressione unica e che troverebbe nella performance estemporanea, nell’ happening la perfetta espressione. Il risultato più evidente è che così si è permesso che pseudoartisti di ogni arte si sentissero autorizzati a vomitare sul pubblico la loro incapacità di parlare, di dipingere, di suonare, di raccontare, di sognare, di far innamorare.
Ci sono altri che sostengono invece che l’arte sia soprattutto tecnica e ricerca. Questa tendenza ha dato via libera alle ipotesi più insulse, specialmente nel campo dell’architettura e delle arti ad essa applicate. Si è così affermata in modo brutale, violento ed oscurantista una forma di taylorismo adattato agli edifici e agli oggetti d’uso, nell’intento di permettere il maggior numero di gesti nel minor tempo possibile. In nome della funzionalità si sono concepite città e arredi prodotti in serie, col risultato che vivere in posti dove il funzionalismo è massimamente applicato è come essere morti, perché ogni spazio è tolto all’autonomia del gesto.
Nel concetto dell’arte funzionale l’uomo è divenuto il mezzo che serve a sperimentare le teorie sull’addestramento delle scimmiette.
Mi torna in mente la vecchia frase di I. Kant: «Opera in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo».
Il fine deve essere anche la piacevolezza della vita, e la vita è bella quando è bella. È una tautologia? Allora ben vengano le tautologie!

5.
Vi sono stati anche coloro che hanno parlato dell’arte «utile». Utile a chi e a che cosa? Probabilmente utile a nessuno, visto che un esito di quella ricerca estetica fu quello di avanzare il dubbio che fosse venuto il tempo della morte dell’arte. L’arte deve morire si diceva negli ambienti del costruttivismo di Gan e Lissitsky, ovviamente pensando non tanto alla morte dell’arte in assoluto, ma dell’arte secondo loro non immediatamente finalizzata ad altri scopi più pratici.
Parlare della morte dell’arte, come è stato fatto anche più recentemente in America ed in Europa, non ha senso: l’arte c’è perché c’è l’uomo. Possono morire gli uomini ed esaurirsi le formule artistiche; ma finché ci sarà un uomo sulla terra l’arte vivrà con lui, perché l’umanità ha bisogno di non cedere al peso dei propri sogni. L’uomo deve rifiutarsi di sognare soltanto: deve voler anche essere aedo e musico, pittore e scrittore, attore e spettatore, che comunica i suoi pensieri ad altri e che si ritrova nelle fantasie di altri come lui. L’arte è bella anche perché non è immortale; essa vivrà solo finché ci saranno uomini capaci di cantare una canzone, di narrare una storia con le parole, con le immagini o con la musica.

6.
Ci sono stati poi coloro che per salvare l’arte hanno teorizzato l’arte totale. Con assoluta ingenuità, poiché l’arte è sempre totale. Ogni opera d’arte è opera totale. Vogliamo mescolare insieme musica, danza, pittura? Il risultato non sarà più totale di quanto sia espressione di arte totale il bicordo do-mi bemolle: lo sento risuonare tenero all’orecchio e sento il mibemolle che lentamente sale al mi, terza minore, terza maggiore: in tre note è contenuto l’universo intero; proprio come nella più totale delle rappresentazioni. Del resto siamo da sempre avvezzi a sentir parlare di colore dei suoni, ritmo delle figure, plasticità delle parole, e così via, che solo una eccessiva accondiscendenza a pedanti e accademiche suddivisioni dell’arte in campi di competenza, può averci fatto scordare che l’arte è stata sempre e per tutti fenomeno totale, diretto a tutti i sensi, anche se privilegiandone in apparenza, di volta in volta, alcuni su altri.

7.
C’è chi vede nell’aspetto tecnico il raggiungimento della razionale consapevolezza dell’arte. La tecnica è fondamentale per l’arte; nessun artista può dirsi tale se non ha acquisito una grande capacità tecnica nell’arte sua; chi non ha una propria tecnica è un parassita dell’arte e sfrutta il mondo intorno a lui ed è biasimevole anche come uomo.
La tecnica è quindi indispensabile, ma non coincide con la forma: l’espressione dell’arte non può infatti scindersi in forma e contenuto; la forma è contenuto come il contenuto è forma. Quando si parla per esempio della forma-sonata, si parla di una struttura; ma la forma-sonata non esiste di per sé: esistono solo le singole sonate. Vuoi dire questo mio discorso che io sono un vecchio filosofo cinico e antiplatonico? Sono io uno di quelli che dicono che non esiste la cavallinità ma soltanto i cavalli? Certo che esistono i cavalli e che essi partecipano della cavallinità. Dove si trova allora la cavallinità? Nel cuore del filosofo. Dove si trovano le idee dell’arte: la forma e il contenuto? Io credo che si trovino nel cuore dell’artista. Perciò, lasciando da parte Platone e il cinico Antistene io dico che esistono questo e quel quartetto d’archi, che hanno scelto la forma in cui si realizzano e la forma diventa contenuto. Così le ambigue sonate beethoveniane, con quegli inizi preludianti, ambigui anche tonalmente, sono una nuova forma. Fanno parte della forma sonata o la contraddicono? Ma questo interrogativo verte già sul contenuto non meno che sulla forma. Quindi la forma è la possibilità dell’espressione ed allo stesso tempo è già l’espressione. Come si può distinguere la capacità di esprimere dall’espressione? Io tengo le dita sulla tastiera perché così voglio e questo ho imparato a fare, oppure perché so fare soltanto così? La tecnica non è coscienza, e questo ben lo sanno i musicisti, che tanto più si concentrano sull’aspetto tecnico e tanto più rischiano errori di esecuzione. Concentratevi sul mignolo della vostra mano destra ed ad un certo punto il mignolo non saprà più che cosa fare e rimarrà sospeso in aria: si bemolle… il tempo va perduto e il discorso si inceppa. La tecnica ha bisogno anche dell’inconscio.

8.
Quindi l’arte non sorge dall’inconscio, e non è neppure nell’equilibrio della ragione; non si identifica con l’acquisizione di una tecnica, ma è nella persona tutta intera. L’arte non può essere solo espressione dell’inconscio perché non saprebbe comunicare ed invece l’arte comunica; dice, parla, travolge, coinvolge, stravolge, ama ed odia.
L’arte non può neanche coincidere con la coscienza, che pure è un aspetto dell’emotività, un’emotività però tanto consapevole che si smarrisce e si contraddice non appena si guarda allo specchio.
L’arte è il luogo in cui la coscienza diventa inconscio e l’inconscio diventa coscienza: questa sembra una frase molto sciocca e un po’ banale; ma è il solo modo in cui riesco a dire che l’arte non sorge da un aspetto della persona che la crea: conscio o inconscio; ma da tutta la persona nell’insieme delle sue facoltà; per questo non può scindersi in parti come forma o contenuto, poiché non c’è una parte senza l’altra e come l’uomo è fatta dall’insieme delle sue parti.