34 – Luglio ‘87

luglio , 1987

Christian Bérard

Christian Bérard (1902-1949) non é sicuramente un artista noto; ha avuto in Francia grande successo come scenografo, ma l’interesse intorno alla sua figura è praticamente svanito dopo la morte. Riteniamo molto importante che il Festival dei Due Mondi abbia presentato a Palazzo Racani Arroni la sua opera dando particolare importanza alla produzione pittorica.
Nato e morto a Parigi, negli anni tra il 1920 ed il 1930 fu uno dei rappresentanti di quel neo-umanesimo che trova in Waldemar George il suo teorico più convinto. Ma, la sua ultima mostra la fece nel 1934; dopo di che si dedicò alla scenografia. Fu lo scenografo di autori come Cocteau e Giraudoux e di attori come L. Jouvet e J.L. Barrault e presto divenne un acclamato beniamino del tout Paris culturale e mondano e tale restò fino alla sua morte improvvisa sulla scena del Teatro Marigny.
Ci siamo avventurati con grande interesse lungo le sale della mostra e abbiamo osservato con attenzione tutto ciò che vi era esposto (anche per noi, come per molti, è stata una scoperta), ma ne siamo usciti molto perplessi. Indubbiamente Bérard non è un artista banale e la sua pittura ha un significato non indifferente per l’evoluzione artistica del Novecento, però non riusciamo a decidere se abbia rivestito un ruolo positivo o negativo, sano oppure malato. L’arte malata non è soltanto quella brutta, non è neppure necessariamente quella che è poco o per niente arte. Noi pensiamo che l’arte malata sia quella che non infonde coraggio; l’arte sana, invece, deve dare coraggio, non importa se per fare una cosa o l’altra, purché non sia troppo serva della massa imbecille o delle angosce interne dell’artista. Bérard non è stato certo un pittore servo delle imbecillità massificate: le sue tele riflettono il possesso di un linguaggio personale e organizzato in una struttura di segni e significati coerenti, seppur con una loro evoluzione. Quello che più ci ha lasciati perplessi è la sua difficoltà ad incitare ad essere coraggiosi ed a dire coraggiosamente. Il bello scritto di Jean Clair sul catalogo, chiaro ed esplicito, parla dell’intrinseca teatralità dell’opera non solo scenografica di Christian Bérard, contiene, però, una frase che noi, che il teatro lo abbiamo fatto partendo proprio dalla gavetta, riteniamo blasfema ed offensiva: «…l’attore è per essenza, per natura si potrebbe dire, un essere androgino.». Noi siamo certi invece che l’attore deve essere maschio fino in fondo, se è maschio, e femmina fino in fondo se è femmina. Certo la femmina deve anche saper rappresentare il maschio fino in fondo, e il maschio la femmina, e se è il caso l’attore deve anche saper impersonare l’androgino. Chi non riesce a realizzare questo non è un attore, e poiché tutta l’arte è teatro non è neppure un pittore e non è neppure un musicista. Per nessuna ragione un artista deve accettare la viltà intrinseca all’ambiguità sessuale; anzi, deve saper giocare con tutti i ruoli dell’esisténza, sessuali e non, tentando però di guardarsi dentro per riconoscere i propri desideri, accettandoli o rifiutandoli per libera decisione ed intima convinzione. Forse la libertà non esiste, ma bisogna comunque kantianamente che venga postulata.
Abbiamo fatto questo «pistolotto» perché ci è sembrato che proprio nella paura di riconoscere in sé e negli altri un corpo reale sia consistito il dramma anche artistico di Bérard. Egli ha paura di essere «quel» Bérard ed ha paura che gli altri abbiano il loro corpo.
La lunga serie degli autoritratti lo rivela drammaticamente con una insistenza denunciata anche dalle date. Per liberarsi dalla paura di essere qualcosa di determinato Bérard si traveste sulla tela e nella vita, ma anche attraverso i colori e i segni che spesso sfumano in un indistinto grigio si percepisce il suo ignorare, o il suo sforzo di ignorare, cosa ci sia oltre il travestimento.
Questa angoscia svanisce quasi nei bozzetti delle scenografie, come se, rassicurato dalla legittimazione delle finzioni altrui, egli si sentisse dispensato dalla riflessione su di sé.
La scena teatrale ed i personaggi continuano ad essere sue proiezioni (anche in queste infatti dominano il vuoto e il non finito), ma egli può fingere di ignorarlo.
Cercare linee continue che colleghino i non molti dipinti raccolti da Bruno Mantura e Giancarlo Menotti non è facile, per cui si può optare per l’ordine cronologico e vedere nei ritratti degli anni tra il 1925 e il 1930 quell’ispirazione malinconica che ha indotto molti critici ad accostarli alle tombe del Fayyum, che in quegli anni erano al centro dell’interesse dell’ambiente artistico europeo in cui alcuni cercavano nell’antica ritrattistica funebre di quella lontana regione dell’Egitto le premesse su cui basare una ribellione al dominio dell’astrattismo allora prepotentemente avanzante.
La Testa d’acrobata del 1925 e la Tamara Toumanova del 1931 possono essere considerati i punti di partenza ed’ arrivo di questo tentativo di fissare nel ritratto, col minor numero di dettagli una realtà individuale; così, se l’uomo del circo è ancora avvolto da ombre che nascondono la sorgente delle linee e dei colori, il busto della ballerina georgiana invece si ritaglia netto, con la precisione di un cammeo, sullo sfondo rosso lacca uniforme e squillante; e al cammeo vien da pensare non solo per la compostezza un po’ stupefatta dell’immagine, ma anche per il gioco del bianco e della nera treccia intorno al volto.
Il rosso ritornerà con valenza totalmente diversa ne Il cuscino rosso del 1943 e sarà l’unica nota viva di un’elegia tragica sulla bellezza del corpo virile cui Bérard non ha il coraggio di accostarsi e che pare sfuggire anche all’osservatore, con quel suo sprofondare nell’indistinto sull’orlo del quale, col gesto della mano sembra volersi trattenere.
I ritratti torneranno negli anni successivi al 1940, arricchiti dalla riflessione e dallo studio della pittura francese che va dall’impressionismo all’ultimo Degas. Una sopravvenuta maturità culturale sembra ora permettergli di giocare con le luci e i colori altrettanto disinvoltamente che con lo psicologismo che scopre nei tratti il carattere. Dura e introversa la Ragazza con ventaglio del 1942/44, il volto e la mano della quale emergono con forte contrasto dal nero del busto e dal buio dello sfondo. Romanticamente languido è il Ritratto di giovane uomo del 1945, sul viso del quale giocano chiazze di luce e dove il nero è ammorbidito da un tenero blu che affiora sotto il bavero della giacca. Spavaldo e ricco di riflessi che lo animano il giovane uomo che fa La comparsa del 1946/48.
Da questo percorso abbiamo voluto escludere gli autoritratti, che segnano un diverso itinerario. Nell’Autoritratto 2. La spiaggia del 1932/33 , il pittore vede se stesso come un fanciullo che si staglia sul paesaggio di una marina che con rassicuranti dettagli realistici attenua l’ansia per la solitudine.
Nell’Autoritratto con scialle del 1933 la difesa contro l’angoscia sembra essere il travestimento: l’uomo, con un gesto da fanciulla, stringe lo scialle rossiccio che gli copre la testa e gli nasconde un poco il volto la cui espressione attonita emerge da un grigio illuminato di chiarori giallo-verdi. Del 1948 sono ben tre altri autoritratti. L’Autoritratto col berretto bianco e l’Autofitratto 3 (grigio e rosa) ci mostrano due personaggi che è impossibile identificare nella stessa persona, non solo per la grande lontananza stilistica e cromatica, ma perché addirittura i lineamenti fondamentali sono diversissimi. Nell’Autoritratto con bambino su una spiaggia la tempera su carta propone nuove atmosfere, la luce azzurra si liquefà ristagnando più cupa in macchie sparse e l’uomo, un po’ selvaggio e goffo, tiene vicino a sé un bambino che ci richiama alla mente il fanciullo solitario di quindici anni prima.
Del Bérard scenografo abbiamo apprezzato la leggerezza del bozzetto per Mozartiana (passo a tre) per un balletto di Balanchine del 1933, di ispirazione picassiana, come era giusto che fosse; e poi l’Arcangelo o l’Angelo di Sodoma : un grande olio su cartone tratto dal lavoro scenografico per un opera di Giraudoux con musiche di Honegger, rappresentata a Parigi nel 1943, nel quale una certa bellezza selvaggia del torso nudo, della testa minacciosa, viene quasi schernita dalle vivaci chiazze di colore delle ali che scendono a coprire la parte bassa del corpo ancora una volta non finito. Il bozzetto per le scene del Misantropo di Molière che non sarà mai eseguito e denuncia in modo quasi simbolico quell’ansia di vuoto che tormentava lo scenografo Bérard, prossimo a scomparire anch’egli dalla scena.