34 – Luglio ‘87

luglio , 1987

Parsifal

Talvolta è stato detto che la musica di Wagner, e in particolare quella del suo teatro, è molto ardua da seguire, non soltanto per la sua monumentalità, ma anche per l’intrinseca difficoltà di un discorso sempre ambiguo: la sua «melodia infinita» si abbarbica su tutti i dodici gradi della scala cromatica, e non solo nel Tristano e Isotta, in cui questo aspetto è esasperato, ma in tutte le sue opere mature. La nota sensibile, che è la chiave di volta per la lettura tonale, acquista significati e risoluzioni inaspettate, gli accordi si sciolgono l’uno nell’altro e l’orecchio è trasportato lontano in una meravigliosa avventura. Per coloro che sanno abbandonarsi alla musica, il linguaggio wagneriano è quanto mai chiaro, semplice e sempre comprensibile.

I frigidi, i pigri, i narcisisti è bene che stiano lontani da questo gigante della musica poiché le loro orecchie non ne sono degne e loro non capirebbero niente.

Wagner ha un grandissimo senso del teatro, secondo soltanto a quello di Mozart. A noi disturba sentir ripetere che è un precursore o di Debussy, o di Webern oppure di Schoenberg; questo è anche vero, la sua però non è per nulla solo un’arte di transizione con geniali intuizioni precorritrici; ma è un’arte perfetta e conclusa che crea un universo autonomo, non separato, però, dal mondo reale.

I famosi leit-motiv dilagano in ogni partitura e la stringono con le loro continue evoluzioni svelando l’inconscio e chiarendo il conscio dei personaggi. Il Parsifal, nella sua «diversità» rispetto alle altre opere, raggiunge il massimo della chiarezza e della comprensibilità. Ciò non vuol dire che ci siano poche cose da comprendere, ma che ci si può immergere nella sua partitura e scoprire sempre qualcosa di nuovo. In quest’opera anche l’esasperato cromatismo si placa per costruire percorsi sonori ora luminosissimi ora profondamente cupi, con un continuo richiamo alla semplicità modale.

Questa realizzazione spoletina ci ha letteralmente entusiasmati.

Innanzitutto esprimiamo senza condizioni il nostro apprezzamento per la direzione del Maestro Spiros Argiris: la Spoleto Festival Orchestra appariva letteralmente trasfigurata; noi ne abbiamo sempre ammirato il bell’entusiasmo; ma talvolta non abbiamo potuto tacere di fronte ad acerbe inesperienze; ora, guidati dalle mani di Argiris, questi giovani hanno offerto al nostro ascolto suoni di musicale perfezione. È questo finalmente un Parsifal in cui il direttore non impasta i suoni amalgamando le famiglie orchestrali, col risultato di raggiungere sonorità indistinte, nella errata convinzione di essere così stilisticamente corretto; Argiris invece ha tessuto i fili di questa grande trama sonora permettendo all’orecchio di seguire i vari timbri degli strumenti e di apprezzare, quindi, il meraviglioso effetto del loro incontrarsi. Inoltre l’accordo con i cantanti è stato assoluto, senza mai un’incertezza o una sbavatura.

Un tema viene enunciato dai fiati, una voce sulla scena lo riprende, poi senza forzature si rituffa nell’orchestra che, con precisione e semplicità, lo rimodella, portandolo a fondersi con un altro, e così via!

Fin dal Preludio il direttore ha esplicitato la sua scelta interpretativa che è quella di unire sacralità e sensualità, rifiutando sempre il gesto magniloquente. Poi il sipario si è alzato sulla storia dei macerati cavalieri del Graal, invischiati nella rete di peccato e di lussuria che l’eunuco Klingsor, genio del male, tesse intorno a loro con l’aiuto delle fanciulle-fiore e della riluttante e tormentata Kundry.

Solo un puro-folle riuscirà nell’impresa di recuperare la lancia sacra della Passione di Cristo, con la quale risanare il Re Amfortas e restituire ai cavalieri la liberazione dal male. Parsifal, che non conosce neppure il suo nome è l’idiota sublime che riuscirà nell’impresa dopo aver redento anche Kundry e distrutto Klingsor.

Ottimi sono stati tutti gli interpreti.

Il saggio Gurnemanz, il basso Victor von Halem, è stato superbo: la sua voce, profonda e perfetta, dava quasi lo smarrimento. Con variazioni vocali minime ma intensissime è riuscito a far percepire bene l’evoluzione affettiva di un personaggio: prima sicuro di sé, poi rassegnato ed infine nuovamente animato dalla speranza.

Il baritono Heinz-Jurgens Demitz è stato un impeccabile Amfortas; nel primo atto forse, tentando di esprimere la sofferta rassegnazione del personaggio, la sua voce è risultata un po’ neutra, ma poi ha acquistato tutti i coloriti della sconvolgente passione nei lunghi momenti del terzo atto; una sua caratteristica che abbiamo notato è stata quella di appoggiare quasi la gola sull’onda dei suoni che salivano dall’orchestra.

Bravissima Ruthild Engert (soprano) che ha dato a Kundry una voce spezzata nei momenti di disperazione e di conflittualità con coloriti quasi espressionistici, intensa e sinuosa nei tentativi di seduzione sommessa e tesa nelle scene che la portano verso la redenzione.

Il baritono Ettore Nova è stato un Klingsor efficacissimo per il timbro ferroso ed aspro della sua voce, sempre però precisa e piena.

Le fanciulle-fiore, i soprani e mezzosoprani Loredana Putzolu, Agnes Quesnel Chauvot, Donna Stephenson, Antonella Muscente, Ilaria Galgani, Lucia Rizzi, sono state bravissime soprattutto nei brevi momenti solistici di ciascuna.

Aurio Tomicich (basso) ha dato voce giustamente inquietante al vecchio Titurel.

Il tenore William Pell ha creato un Parsifal quanto mai efficace non solo teatralmente ma anche vocalmente: al suo primo ingresso appariva ottuso e smarrito e anche la voce pur recisa era inespressiva tanto da lasciare perplessi; nello svolgimento drammatico successivo la sua vocalità progressivamente si illuminava, maturando, colorendosi e arricchendosi vieppiù di armonici, fino a raggiungere momenti di pathos quando la consapevolezza e la Grazia lo segnavano.

Degnissimi anche gli interpreti dei ruoli minori: Angelo Degli Innocenti, Ubaldo Carosi, EIsa Ely, Peter Gillis e Giorgio Gatti.

Il Westminster Choir dava ai cavalieri di Montsalvat un insieme di belle voci, virili e intonate. Però ci sentiamo in dovere di dire, sia al loro direttore Glenn Parker, sia a Spiros Argiris, che hanno accentuato troppo il ritmo, anche con l’orchestra, tanto che i dolenti uomini del Graal perdevano in sacralità, acquistando un piglio paurosamente vicino a quello di un gruppo di marines.

Bellissime le voci bianche dell’ Arcum, dirette da Paolo Lucci, che tingevano il tutto di chiara religiosità, un po’ naif, che ci ha profondamente commossi.

Le scene di Pierluigi Samaritani erano molto efficaci: sapevano adattare spazi, luci e ambienti alle differenti esigenze del dramma, alternando elementi naturalistici, simbolici, onirici ed espressionistici.

I costumi di Roberta Di Bagno Guidi non hanno tratto giovamènto dall’uso di materiali un po’ troppo scintillanti e, infatti, ci sono parsi soprattutto adeguati quelli delle fanciulle-fiore.

Gran lode alla regia di Giancarlo Menotti che, da buon musicista qual è, ha saputo rispettare ed esaltare le potenzialità dell’opera wagneriana: ha fatto recitare tutti i cantanti con una naturalezza che non è mai scaduta in piatto naturalismo; ha anche lui avuto il coraggio di mescolare sacro e sensuale. Benché non fosse difficile capire che lo spaventava di più la sacralità che non la lussuria, pure, nei momenti più significativi, ha superato la sua stessa paura. Le sue idee erano tante e ben ritmate, le atmosfere che ha cercato oscillavano tra il sogno e il cinematografo di buon gusto: intenzioni sintetizzate da quel velo steso davanti alla scena, che con le sue trasparenze, gli ha permesso molteplici effetti. Solo per maliziosa cattiveria vogliamo ironizzare su quei monacelli in bianche tunichette, che vanno a fare il bagno nel lago con il loro Re in bianchi mutandoni e ne tornano con la salviettina vezzosamente poggiata sui nudi omeri.

Montezuma

Le culture barocche europee hanno sviluppato un grande senso del teatro.

Il punto più alto di questa sensibilità è stato raggiunto dal teatro in musica.

Quando si pensa allo spettacolo musicale di quell’epoca, la mente corre subito a Claudio Monteverdi, ma dal tardo Cinquecento fino a parte del Settecento, sulle scene delle corti prima, e anche dei teatri pubblici poi, la musica si inserisce in uno spettacolo completo, ricco di invenzioni, bizzarrie e fantasie.

L’opera Montezuma, su libretto in lingua francese scritto da Federico II il Grande, tradotto in italiano da Tagliazucchi con musiche di Heinrich Graun (Wahrenbruck 1701 – Berlino 1759) non è un grande capolavoro. Il fecondo musicista tedesco fu, come il suo sovrano, un ammiratore dell’opera italiana e questo è macroscopicamente visibile in tutta la partitura, sebbene non sia del tutto assente, specialmente in alcune torniture melodiche, il ricordo del suo grande conterraneo G.F. Haendel. Qui, però, siamo abbastanza lontani dalla semplicità ammiccante ma genialissima dei musicisti italiani.

La vicenda è quella arcinota della caduta dell’impero azteco, per opera dei conquistatori spagnoli capitanati da Fernando Cortés, e del suo sfortunato imperatore Montezuma II. Naturalmente la storia è infarcita di eroiche mogli, servi fedeli e ideali illuministici. Noi ammiriamo moltissimo Federico il Grande, certo, però, che gli era facile fare l’ecologista e il moralizzatore sulla brutale crudeltà dei tiranni spagnoli di due secoli prima!

A sipario calato inizia una sinfonia tripartita: fra due episodi, vivaci com’era consuetudine, è un’ampia parte centrale, indubbiamente la più valida in senso musicale, con melodie ben costruite, che forse vorrebbero essere accorate, ma che raggiungono soltanto una gradevole malinconia. Tutta la sapienza e l’ingenuità compositive di Graun sono presenti in questo inizio: la musica è solida, artigianalmente ben costruita, con armonizzazione e strumentazione chiare. L’orecchio non fa alcuno sforzo a percepire tonalità e modulazioni, ci si può anche distrarre un po’ (e bisogna dire che in qualche punto sarebbe gradevole il diversivo di un «sorbetto»). In altri punti, invece, la musica aderisce bene alla situazione drammatica; le melodie diventano intense e il solito giochetto, talora ripetuto fino a diventare stucchevole, dell’orchestra che «fa il verso» al cantante riesce a coinvolgere e ad emozionare, perché diventa efficace sottolineatura drammatica e sentimentale.

Hubert Soudant ha diretto la Rantos Chamber Orchestra australiana e i cantanti con un piglio un po’ troppo militaresco. Come abbiamo già detto la struttura musicale è spesso molto semplice, per cui, se si eccede in «quadratura» si rischia di mettere troppo in evidenza la ripetitività e la non sconfinata inventività del compositore. Riconosciamo, però, al giovane direttore di origine olandese un ottimo orecchio e uno spiccato senso del ritmo. Quando riusciva ad ammorbidire un po’ il gesto, la musica acquistava subito una certa ricchezza di sfaccettature, sprigionando tutte le sue possibilità. I giovani orchestrali lo hanno saputo seguire con attenta precisione. Si è fatto notare per la fluidità e l’acutezza del gusto teatrale il clavicembalista Seann Alderking.

Avremmo gradito sentire meglio evidenziato il flauto di Jill Muti (sulla scena nei panni di Federico II, famoso anche per le sue qualità musicali).

Il ruolo di Montezuma, imperatore del Messico, è stato splendidamente interpretato dal mezzosoprano cipriota Alexandra Papadjakou, dalla voce eccezionale, la quale riusciva a scendere, cogliendo le note con estrema precisione, anche ben oltre la propria tessitura. Voce duttile e possente che però non si appesantiva mai nei vocalizzi, rimanendo sciolta e vibrata: non ha mandato perduto niente delle . melodie: quando erano interessanti ne evidenziava la ricchezza, quando erano più piatte, le rendeva più accettabili, con delicatissimi interventi vocali. Nel terzo atto abbiamo apprezzato la sua bravura nell’ovvio recitativo accompagnato di Montezuma in prigione. Subito dopo è avvenuto un piccolo miracolo: mentre delicatamente il direttore guidava il pizzicato degli archi, su di una dolcissima melodia accorata, quasi di «barcarola», la Papadjakou riusciva ad esprimere con intensa bravura la solitudine e il rimpianto del re sconfitto.

Molto bravo anche il soprano greco-inglese Jenny Drivola, nella parte di Eupaforice, la sposa sventurata. La sua voce era precisa (appena leggermente più chiara di quella della Papadjakou) e passava senza sforzo dalle melodie tenere a quelle più concitate e disperate, bravissima nei crescendo e nei diminuendo dove rimaneva stilisticamente corretta, senza romanticherie. Nel primo atto, nelle scene di tenerezza fra gli sposi, sembrava quasi che fosse lei a dirigere l’orchestra, tanto era incisiva. Inoltre è riuscita a rendere sopportabile la noiosissima (anche musicalmente) scena dello stupro.

Splendido, musicalmente e interpretativamente, il duetto dei due sposi in prigione per la perfetta alternanza e fusione delle due voci.

Non ci è dispiaciuta la fresca voce del soprano Monique Baudouin (Pilpatoé, generale azteco) sebbene l’abbiamo trovata incerta soprattutto nei «salti» un po’ ampi che prendeva troppo all’improvviso.

Abbastanza corretta la voce di Penelope Lusi (la confidente Erissena). Meno corretta, se pure accettabile, la voce di Gloria Scalchi (Tezeuco), mezzosoprano; sarebbe stato meglio affidare la parte ad un tenore, cosa che avrebbe evitato una certa stucchevolezza musicale, dovuta alla ovviamente eccessiva omogeneità dei timbri. Malgrado ciò, riconosciamo e apprezziamo lo sforzo di tutte le voci femminili per differenziarsi secondo i ruoli.

Una scelta stravagante (non sappiamo di chi) ha fatto sì che Cortés e il suo generale talvolta «parlassero» in spagnolo; però cantando in italiano: poiché la nostra lingua era resa in modo incomprensibile da tutti i cantanti, mentre lo spagnolo recitato si capiva benissimo, forse qualche spirito ameno ha cercato di far passare l’italiano per lingua azteca, che evidentemente era parlata fluentemente anche dagli spagnoli. Il baritono Nicholas Karousatos (Cortés) aveva un bel timbro di voce virile, ma nei recitativi dec1amava un po’ troppo e nella scena della violenza si è rivelato molto rigido; solo nella prigione, su di un «concitato» dell’orchestra, la sua voce si scioglieva un poco, anche se non riusciva ad andare perfettamente a tempo.

Il tenore Jonathan Green (Narvés, luogotenente) ha avuto una bellissima entrata da. personaggio arrogante e spavaldo come si addice ad un «conquistador». La sua voce aveva un bel timbro, sonoro e vibrante; purtroppo in alcune virate melodiche, soprattutto nei salti discendenti, si scordava un poco di stare cantando, badando troppo all’effetto dei gesti scenici.

Molto efficace il brevissimo finalino: mentre l’impero azteco era in fiamme, una breve ed incisiva melodia di canzonetta permetteva a Cortés di sanzionare il trionfo della Chiesa Cattolica. La regia di Winfried Bauernfeind ha forse sbagliato nel leggere l’azione in chiave romantica, pasticciando anche con bambini, armigeri e cantatine nel foyer. Per fortuna ha trovato nei cantanti attori disinvolti e sensibili. Le scene e i costumi di Martin Rupprecht sono stati semplici ed efficaci, anche se forse non ha giovato al personaggio di Montezuma quell’aria da bucaniere in maniche a sbuffo.