34 – Luglio ‘87

luglio , 1987

RISTORARSI A SPOLETO

Panciolle

Ci è capitato, dopo tanto tempo, di tornare a sederci ai tavoli del Panciolle, in piazza Muzio Clementi, all’ora del pranzo. Le ultime volte ci eravamo seduti agli stessi tavoli nel fresco buio della sera; ma questa volta il sole smagliante è stato impietoso. Il piccolo terrazzino soffocato dall’afa sembrava inadeguato a contenere i troppo numerosi avventori.
Non ha attenuato il nostro disagio quello che, poco alla volta, ci è arrivato dalle cucine e dalla cantina. Caldiccio e cattivo il bianco della casa Vigna d’oro, vino da tavola di Terni che abbiamo abbinato all’antipasto di bruschette. Sul pane, invero ben tostato, abbiamo trovato prima fette di insipidi e troppo oliati pomodori, poi un pessimo intruglio acquoso che forse conteneva il ricordo di un vecchio scorzone.
Parliamo ora dei primi: tortellini al ragù davvero indegni per quanto erano scotti e acquosi; strangozzi alla montanara rancidi e puzzolenti; strangozzi alla spoletina, papposi, pesanti, scotti che irritavano lingua e palato col peperoncino e l’aglio bruciati; il tartufo alla pasta (primo piatto che costa il triplo degli altri) era del tutto senza sale, untissimo ed immerso nello stesso intruglio già trovato sulla bruschetta. Su questi piatti abbiamo tentato di toglierci la sete con un bianco Venerino di Spello polveroso, con gusto di tappo e indiscutibilmente troppo caldo. Sapendo che la rustica preparazione delle carni è uno dei punti di forza della cucina umbra abbiamo sperato nei secondi: ma l’abbacchio scottadito era una grassa e vecchia pecora; lo spiedino alla brace sembrava un avanzo di flaccida carne bollita e ripassata malamente allo spiedo; lo stopposo pollo alla cacciatora era di rituale e sciocca banalità con l’aggravante di un eccesso di sale; la bistecca di manzo, poi, sapeva di acido fenico; i peperoni di contorno erano, strano a dirsi, mangiabili. Il Sagrantino rosso di Montefalco, che abbiamo associato alle carni, era un vino già morto, senza più sa profumo né sapore. Dei dessert non c’è nulla da dire: tiramisù e tartufi industriali, fragoloni coltivati e con uno «sbaffo» di gelato. È chiaro che in queste condizioni qualunque prezzo è sempre troppo alto. Assetati e affamati, poiché abbiamo avanzato quasi tutto, ci siamo allontanati in cerca di consolazioni.

Fontanelle

A non molti chilometri da Spoleto, sulla collina che domina Campello sul Clitunno, tra boschi di querce e di pini, sorge il rustico e un po’ civettuolo edificio dell’albergo ristorante Fontanelle.
I gestori concedono a chi arriva fin lassù un’accoglienza riservata e allo stesso tempo gentile. L’aria è molto «fina» e l’appetito è certo, soprattutto se poco prima si è fatta una bella passeggiata. La confortevole sala principale non è molto grande, ma c’è anche un gradevole spazio all’aperto, ricco di ombra e di sole, dove abbiamo talvolta consumato rapide e gustose merende.
Il pasto si apre con le immancabili bruschette che sono però fragranti e appetitose, con una salsa al tartufo che questa volta è sensata ed armonica, un fresco pomodoro profumato di buon olio dell’Umbria, un curioso patè che sa di limone e di ginepro, un accettabile accoppiamento di formaggio e prosciutto ed una deliziosa combinazione di pomodoro, formaggio e tartufo.
Tra i primi abbiamo apprezzato moltissimo le eccellenti tagliatelle fatte in casa condite con un sugo al tartufo misurato e ben «tirato»; gli strengozzi all’aglio, olio, pomodoro e peperoncino erano abbastanza saporiti e ben cotti, però abbiamo dovuto lamentare un eccesso di acqua di cottura rimasta sul fondo del piatto; ci è dispiaciuto che il buon sugo al tartufo (che su nostra richiesta non è stato contaminato dalla panna) fosse un po’ svilito dai tortellini dozzinali, non certo fatti in casa.
Il misto alla brace ci è sembrato davvero gustoso e abbiamo trovato eccellente l’idea di servirlo in tavola su di un braciere ardente. Due tocchi di autentica raffinatezza sono state le squisite patate fritte all’italiana (cioè a rondelle) e un formaggio di pecora con tartufo al cartoccio.
Tutte le altre verdure dei contorni erano di piacevole freschezza o di calda fragranza.
Ci dispiace che al termine di un pasto così ben riuscito ci abbiano proposto solo pochi e banalissimi dessert, nessuno dei quali fatto dallo chef.
Dopo un Brut Riserva Montelera, abbiamo apprezzato sia il bianco Trebbiano della casa, aromatico e piacevolmente persistente sia il rosso San Giovese in caraffa. Il conto è stato più che onesto, ovviamente proporzionato alla ricchezza e abbondanza delle portate.

La Torretta

Dopo un periodo di cedimento alla moda dei «burger», l’insegna del ristorante al numero 43 di Via della Filetteria si richiama di nuovo alla tradizione locale ed ha ripreso il vecchio nome La Torretta. Questa pizzeria ristorante si prepara ad accogliere la folla festivaliera con menù trilingue e galeotte roselline sui tavoli. La nostra è stata una strana avventura: come antipasto abbiamo voluto assaggiare alcune tra le preparazioni di pizzeria che sono risultate però assolutamente disastrose: pasta mal cotta, ora cruda, ora bruciacchiata, su cui giacevano ingredienti indistinguibili, inerti ed insapori, tanto che non ha senso tentare di distinguere tra la Pizza Vero e la Pizza Paesana. I primi di pasta erano intrugli degni di un sabba delle streghe e avrebbero potuto benissimo essere a base di code di rospo o lingue di neonato, ma il menù poliglotta pomposamente diceva ben altro: gli scotti spaghetti alla carbonara erano grondanti di olio, sabbiosi con l’uovo repellentemente raggrumato e troppo salati; le penne alla Jop con pomodoro, mozzarella, panna e salsiccia erano collose e dolciastre, e quelle alla boscaiola coi funghi ed il pomodoro erano sfatte, con un sugo che sapeva di risciaquature; le tagliatelle ai carciofi con panna e salsiccia erano stantie e irrancidite.
Tra i primi e i secondi abbiam notato una lunghissima attesa, benché il locale fosse ormai quasi vuoto e un’ansia sottile cominciava a pervaderci.
Quando infine sono arrivati i secondi abbiamo avuto una gradevole sorpresa: a a parte l’arista di maiale il cui sugo era bruciacchiato e sapeva ancora di vino non ben sfumato, il pollo alla diavola, la vitella arrosto e la bistecca erano decisamente passabili, se pure non molto di più, a distanza stratosferica dai primi.
Anche qui i dessert erano desolatamente industriali oppure consistevano nell’ accoppiata di frutta e gelato.
A parte il vino bianco della casa, poco sapido e disarmonico e il rosso accettabile, abbiamo bevuto un curioso Giogantinu, il famoso Vermentino di Gallura di Berchidda, sconvolgente quasi per la ricchezza eccessiva di profumi e sapori che lo rendevano più simile ad un long-drink che ad un vino abbinabile a qualsivoglia piatto.
Una parola vogliamo spendere per lodare la cortesia del servizio svolto da giovani premurosi e sorridenti. Il conto finale non è stato veramente elevato.

La Barcaccia

Trattoria di specialità spoletine, in piazza F.lli Bandiera 3, proprio dietro la fontana del mercato, attrae il passante per l’aria variopinta del terrazzino esterno e anche per una grossa segnalazione del menù turistico a poco prezzo. Noi ci siamo mescolati al gruppo nutrito di giovani suonatori e coristi stranieri che sedevano a quei tavoli ignari e felici della loro «cena italiana». Vogliamo però ora dire loro ben chiaro che quel tipo di cucina non ha nulla a che fare né con Spoleto né con l’Italia; si tratta infatti di un cumulo di pastrocchi disgustosi e per di più fatti pagare a carissimo prezzo. All’interno del menù a prezzo fisso, le portate, oltre che cattive, sono veramente pochissime; se appena però si beve qualcosa o ci si avventura in un antipasto o contorno diversi da quelli prescritti si viene letteralmente spennati. Noi abbiamo consumato un pasto così composto: un antipasto di crostini misti, dal pane mal tostato, praticamente sconditi (e forse è stato meglio così); una trota tartufata, immangiabile tanto era rinsecchita e ricoperta della solita salsa al tartufo che sul pesce risultava contemporaneamente dolciastra e amara. Per primi ci hanno ammannito un pappone di riso cosparso di tartufo terroso e degli strangozzi alla montanara indecenti per quanto erano scotti, unti e insapori. Il galletto tartufato alla brace si vendicava su di noi delle torture subite, punendo ci col sapore delle sue legnose membra bruciacchiate e salatissime; l’agnello arrosto, ugualmente salato, dava il voltastomaco perché riusciva ad essere nello stesso tempo untuoso e stopposo.
Ci è stato vantato un tiramisù della casa che alla prova dei fatti ci è parso addirittura ridicolo tanto era al di sotto di ogni livello professionale.
Abbiamo bevuto un assurdo Zeffirello bianco (un Sauvignon del veneto) più simile ad una dolce limonata frizzante ad un autentico vino d’uva e un discreto rosso di Montefalco, giustamente tannico, equilibrato e saporito.
L’unica nota consolatoria sono stati, insieme al Montefalco, i profumati fiori di ginestra sui tavoli.

Trattoria del Ponte

Tra il primo e il secondo atto del Parsifal, i due Farfalloni non hanno avuto la forza di andare a provare uno dei locali che offrono per l’occasione un pranzo a prezzo fisso nel lungo intervallo, e si sono rintanati nel loro misterioso rifugio a bere un «calice» di champagne, ancora tutti permeati dalle note della coinvolgente musica wagneriana. Affamatissimi quindi, un bel po’ dopo mezzanotte, circondati dagli amici fedeli, sono approdati alla Trattoria del Ponte, di Via J Cerquiglia 4, dal loro amico «Sportellino».
Periodicamente abbiamo visitato questo lindo locale della Spoleto bassa e non ne siamo rimasti mai delusi: anzi! Dichiariamo ancora una volta pubblicamente il nostro entusiasmo per questa cucina. Da «Sportellino» si mangiano cibi schietti, sapidi e fragranti, bevendo bene. Per far venire l’acquolina in bocca ai nostri lettori, vogliamo raccontare la nostra cena, premettendo che questo non è che un esempio di una cucina sempre varia e ricca nella sua coerente rusticità. Abbiamo cominciato con un saporitissimo d prosciutto, una focaccia ben cotta, ripiena di gustose verdure, crostini di caccia, una bruschetta al pomodoro che è quasi impossibile capire come riesca ad essere ti così buona, data l’elementare semplicità degli ingredienti e poi l’immancabile bruschetta al tartufo. Questo è uno tra i pochi posti di Spoleto e dintorni in cui è possibile apprezzare il tartufo umbro. Di questa stagione, ovviamente si trova solo il tubero estivo, decisamente meno pregevole di quello invernale, ma che, se viene usato con arte e schiettezza, riesce a sprigionare profumi e sapori quanto mai appetitosi nella loro «rusticana» aggressività.
Anche la porchetta, tradizionale nella cucina di gran parte dell’Italia centrale, viene qui preparata in modo eccellente e coi giusti livelli di umidità e morbidezza e vivacità e così la coratella d’agnello. Gli gnocchi fatti in casa si scioglievano in bocca e gli strangozzi, cotti alla perfezione, erano esaltati dal tartufo. Due piatti di agnello eccellenti erano quello al tartufo e lo scottadito, diversissimi tra loro, uguali solo nella bontà e nella rara leggerezza.
I contorni di verdure cotte e crude avevano un buon sapore di orto.
Con diffidenza abbiamo accettato la proposte di un tiramisù fatto in casa, ma quando il cucchiaio si è immerso in quella morbida crema al profumo di caffè ogni esitazione è caduta e ne abbiamo chiesto ancora. Se Sportellino è in vena, con dei rustici dolcetti è possibile apprezzare un eccezionale e casalingo Aleatico.
Per passare ai vini, dobbiamo dire che la scelta è limitata a pochi bianchi e rossi, però questo limite è compensato a sufficienza dal fatto che il bianco e il rosso della casa sono un gustosissimo trebbiano, molto vivace e un po’ erboso, e un rosso in cui prevale il sangiovese, che, pur se ancora acerbo e quindi molto tannico, già sprigiona uno speziato sentore soprattutto di chiodi di garofano.
Sulla carta c’è anche una proposta blasfema: i tortellini alla panna (!) e tartufo: debolezza di chi non può fare a meno di concedere qualcosa al «malgusto» imperante. Possiamo perdonarlo?
Raccontando questa cena, e ricordandoci che questa volta non abbiamo fatto, come altre volte, solo il gesto di «piluccare» qua e là nei piatti dei nostri amici, ma abbiamo mangiato proprio tutto, ci siamo spaventati della nostra capacità di peccare, anche di gola.
Il prezzo può variare con l’umore dell’ oste e la quantità dei piatti, restando sempre ragionevole.