34 – Luglio ‘87

luglio , 1987

TEATRO IN PROSA

Letteratura

La Donna col pugnale

Arthur Schnitzler (1862-1931) è un romanziere e drammaturgo austriaco che da un po’ di tempo è diventato alla moda, soprattutto per le risonanze psicoanalitiche delle sue opere. Nonostante la diffidenza che nutrì per Freud e la di lui scienza allora nascente, la problematica di una realtà inconscia e le dinamiche suscitate negli esseri umani dal gioco delle proiezioni e identificazioni sono in lui ben presenti. Le aggressività rimosse, il balzare improvviso dei fantasmi interni di ognuno che dai sogni irrompono nella realtà, permeano consapevolmente le sue pagine. Diciamo «consapevolmente» perché le dinamiche inconsce sono presenti tanto in Tirteo, quanto in Piero della Francesca e Shakespeare; però quando qualcuno esplicitamente amoreggia con la psicoanalisi, soprattutto se viene da quel mondo mitteleuropeo in cui essa sorse, tutti vi si buttano sopra convinti di «riscoprire» chissà che. Per fortuna Schnitzler è un artista valido indipendentemente da tutto questo: egli sa interpretare la realtà dell’uomo con dolente e talvolta spietata acutezza. È un autore che non ha amato l’umanità, e facendo del facile psicologismo, diremmo che l’ha odiata perché ne è stato innamorato e deluso. Il giovane regista Walter Pagliaro ha deciso di mettere in scena a Spoleto due atti unici dal ciclo Ore vive.
Il primo di essi Letteratura è un divertentissimo scherzo di tipo boulevardier in cui un giovane aristocratico ricco ed appassionato di equitazione cerca di impedire alla promessa sposa di continuare a fare ·la scrittrice, cosa disdicevole per una futura baronessa. Arriva però un vecchio amante della donna, compagno della passata vita di bohème, scrittore anch’egli.
Qui nasce un divertentissimo «gioco della disonestà» che vede i tre personaggi superarsi a vicenda in una ignobile gara di ricatti. Sono tre «squallidoni»: sia il giovane barone per beni sta e tetragono all’arte, sia il tronfio e volgare scrittorello, sia la velleitaria femmina arrivista. Non diciamo di più perché molto del godimento è legato alla sorpresa.
Il secondo atto unico La donna col pugnale è più metafisico, stralunato, e pretenzioso. In un museo una dama resiste alle insistenze di un giovine innamorato che vuole sollevarla dalle pene di un vita umiliata dal cinico marito drammaturgo, che non esita a mettere sulla scena le situazioni più intime del loro rapporto, pur di avere successo.
Davanti al quadro di una «donna col pugnale», di anonimo cinquecentesco, la signora ha come un trasalimento ed una visione in cui rivive il dramma di colei che posò per il quadro. A questo punto l’azione si sposta in quel lontano passato e vediamo il quadro incompleto. Paola è moglie di un famoso pittore ed entrambi sono esseri moralmente esecrabili. Quando il giovane allievo del pittore gli butta in faccia di aver posseduto la donna, e gli chiede di essere ucciso perché sa che il suo è un amore disperato e impossibile, astutamente l’artista fa il magnanimo, con lo scopo di esasperare la moglie, la quale sta al gioco e, da vera mantide religiosa, pugnala il tenero innamorato.
Soddisfatto l’artista può ora completare il quadro, ritraendo la sposa infedele che ancora stringe in mano il pugnale insanguinato. Eccoci di nuovo nel museo, dove la gran dama progetta lo stesso delitto, magari borghesemente meno cruento.
Il disprezzo sommo di Schnitzler per gli artisti è pari solo al fascino che sente per quelli che considera esseri diabolici, pronti a tutto pur di vendere e avere successo.
In realtà, questo autore, dopo gli artisti, disprezza furiosamente le donne (ben inteso perché ne sente il fascino mortifero) e le considera, come molti loro compagni maschi, pronte a tutto per soddisfarsi e conquistare potere. Nel foyer abbiamo sentito commenti imbecilli: i soliti maschietti castratelli e le loro donnone-virago sproloquiavano sul femminismo di Schnitzler. Nulla di femminista è possibile leggere nei due testi, tanto è vero che l’unico eroe positivo è un maschio: il giovane allievo del pittore, un essere pulito, consapevole quindi di non poter vivere in questo mondo, tanto da chiedere ed ottenere dall’altro uomo e dalla donna la morte. Micaela Esdra, nella parte della disonesta fidanzata della prima pièce è stata bravissima: dinamica, arguta, deliziosa nel fare la finta ingenua e irresistibilmente divertente. La sua voce personalissima e i suoi gesti precisi costruivano un personaggio capace di continui risvolti dall’inizio alla fine. Delia Boccardo impersonava la duplice figura di Pauline-Paola, esprimendo bene in l’ipocrita riservatezza della borghese e la truculenta sensualità dell’amante-sposa rinascimentale e contemporaneamente riusciva a collegare con grande abilità l’una all’altra con piccoli, accuratissimi particolari.
Ci è piaciuta la grande capacità di differenziare i suoi due personaggi manifestata da Roberto Herlitzka: nel primo atto la sua voce e il suo gesto scaturivano da una figura sornionamente ripiegata nella propria vigliaccheria; nel secondo, una solenne prosopopea mascherava, insieme con la terribile voce glaciale, una crudeltà senza scrupoli.
In Letteratura ci ha deluso la prova di Lino Capolicchio, rigido, monotono, più simile ad un bibliotecario meschino che ad un brillante e spietato aristocratico.
Ne La donna col pugnale è stato invece capace di trovare le corde giuste, sia nel tratteggiare la fremente timidezza di Leonhard, sia nel narrare la passione autodistruttrice del giovinetto rinascimentale.
La regia di Pagliaro è stata ottima: ha dosato tutti gli ingredienti senza strafare, fornendo agli interpreti un solido punto d’appoggio in ogni momento.
Le scene e i costumi di Alberto Verso hanno giustamente vestito spazi e persone.
La consulenza musicale di Pietro Gallina ha offerto qua e là qualche accenno di musiche di Schnitzler stesso, Wolf, Schoenberg e G. Da Venosa.’

Concerti in prosa

La storia di Ninì

Guido Davico Bonino e Franco Ruggieri hanno curato quest’anno un’originale rassegna di teatro da camera che prevede sei spettacoli presentati alla sala Frau come Concerti in prosa. Nel primo di questi, Pamela Villoresi ha scelto di ritagliare il suo concerto dal libro La storia di Ninì tratta dallo Scialo, del 1960, che è la seconda opera della trilogia Una storia italiana di Vasco Pratolini.
Marco Sciaccaluga ne è stato il coordinatore scenico e Paolo Terni ha approntato un discreto fondale sonoro.
Questo romanzo è un ampio affresco in cui si intersecano diverse vicende individuali che hanno sullo sfondo l’Italia tra l’approssimarsi della prima guerra mondiale e l’affermarsi del fascismo.
Abbiamo vissuto con il fiato sospeso e un intenso batticuore un’ora indimenticabile! Ci siamo riconciliati col teatro e con gli attori ed abbiamo scordato le migliaia di ore passate nella nostra vita ad annoiarci assistendo a spettacoli vuoti, presuntuosi, ignoranti, dilettantistici e costosi. Noi siamo certi che questo sia un evento teatrale memorabile nella storia della cultura italiana e speriamo che non si esaurisca nelle poche rappresentazioni spoletine.
Ninì è uno splendido personaggio già nel romanzo di Pratolini: ricca e giovane donna, intollerante di ogni normalità dell’ esistenza, non sopporta il marito di cui umilia la dignità anche sessuale. La sua vita scorre spinta da un interiore tumulto che la induce a cercare nei corpi delle donne che le sono vicine, per lo più serve o contadine, la soddisfazione di una sensualità così eccessiva che la tiene in uno stato di perenne esaltazione.
Vedevamo davanti a noi realizzarsi il prodigio dell’antico istrione che raggiunge il sublime. Pamela Villoresi era consapevole di tenerci tutti in pugno e non ci dava tregua con la sua Ninì. La voce era talora sommessa, quasi sussurrata, smarrita, poi si arrochiva nella descrizione dell’orrore per il gigantesco membro del marito, nelle sue parole si insinuava terribile il desiderio di castrazione delle antiche madri; un attimo dopo cambiava in modo sbalorditivo e una rozza ed ingenua voce diceva lo smarrimento di quell’uomo che non capiva. Con una capriola l’atmosfera cambiava e lentamente saliva una marea di sensualità nel desiderio per il corpo dell’altra donna.
Improvvisamente le donne diventavano due; le loro voci si alternavano nel gioco degli approcci: Ninì, la padrona, ordinava imperiosa e seduttrice; Fru, la serva, con petulante e cinguettante civetteria si prestava ai giochi sessuali, consapevole di essere la più forte e più astuta. Gli spasimi del desiderio portavano Ninì fino al delirio che rende malati ed ecco la proteiforme attrice sdoppiarsi ed essere contemporaneamente la malata ed il suo dottore, un petulante medico di campagna.
Continuava l’avvicendarsi vertiginoso di voci e sentimenti, con pochi attimi di irresistibile umorismo ristoratore; finché la tensione risaliva verso l’acme di una scena di scatenata sessualità di cui Ninì era involontaria testimone, tra la serva ed un gruppo di squadristi in camicia nera, che nello sghignazzo osceno dell’orgia avevano oltraggiato, con la complicità di Fru anche i sentimenti affidati dalla padrona alle pagine di un diario. Insieme con la voce il corpo dell’attrice partecipava al pirotecnico turbinio: cavalcando nell’amplesso più brutale, contorcendosi nel disgusto, rabbrividendo per la passione, abbattendosi di schianto, ripiegandosi stanco.
L’avventura di Ninì si conclude sommessamente: la voce di Pamela ce la descrive nuda nel bagno con le vene dei polsi tagliate, mentre l’acqua diventa sempre più rossa.

Un piccolo delinquente nevrotico

Il secondo dei concerti in prosa, vede Massimo De Francovich impegnato a portare sulla scena un ritratto di Italo Svevo, delineato leggendo frammenti del suo epistolario, collegati da qualche riga tratta dal Diario e dalle Pagine sparse. L’idea di trasformare in spettacolo la lettura di un epistolario non è certo nuova. Queste lettere sveviane, che sono indirizzate alla moglie, appartengono al periodo in cui lo scrittore triestino era assorbito da una vita borghesemente impiegatizia e trattano tutte del quotidiano, lasciando poco spazio alle riflessioni letterarie. Svevo è però un grande scrittore e lo si vede anche qui, sia quando delinea spietatamente e gustosamente i personaggi della sua famiglia, sia quando parla della «cacca» della figliolina, sia quando fa scenate di gelosia o parla in modo commovente, se pure greve, d’amore alla sua Livia lontana.
Questo materiale è, comunque, il più grande pregio dello spettacolo. Il difetto fondamentale, invece, sta nella eccessiva durata. Sappiamo che Bergson diceva che la percezione del tempo nel suo trascorrere è quanto mai soggettiva, e questo in teatro è evidentissimo (ad esempio per noi il tempo durante il Parsifal è letteralmente volato). Invece, questi due «atti» di trentacinque minuti non finivano mai. La sola prima parte è bastata a stenderci: De Francovich, a nostro parere, interpretava male quello che leggeva; bamboleggiava troppo, involgariva quegli aspetti più intimi e quotidiani, raccontati dalle lettere, con sottolineature quasi triviali, umiliandone la riposta poeticità. Riconosciamo all’attore il merito di essere riuscito, nel secondo tempo, ad arricchire la sua tavolozza, cangiando i timbri di voce e riuscendo anche a commuovere ed a coinvolgere.
La realizzazione di Marco Sciaccaluga e le musiche di repertorio ottimamente scelte e dosate da Paolo Terni creavano una leggera ambientazione intorno al protagonista.