Archivio di marzo 1986

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

Chi ha ordinato alla signora Lina Wertmuller di fare la regista cinematografica? Una oscura divinità o il suo psicoanalista? Chiunque sia le ha dato un pessimo consiglio: può darsi infatti che la Wertmúller suoni bene il mandolino, faccia ottime frittate o sia un’imbattibile Karateka; però il cinema non lo sa proprio fare. Ce ne eravamo già accorti, ma con Un complicato intrigo di donne vicoli e delitti, ne abbiamo avuto la prova: poiché non basta servirsi di una troupe di tecnici della fotografia e di operatori capaci di rendere in immagini la bellezza incredibile di una città come Napoli e dell’abilità di scenografo di Enrico Job per fare dei buon cinema. Le scene sono tra loro sconnesse, i dialoghi sono ridicolmente inesperti e la storia è cretina, sviluppata attraverso aneddoti idioti.

Babà Rocco, camorrista figlio di camorrista, viene ucciso mentre tenta di stuprare Nunziata, che non ha i soldi sufficienti a pagare una tangente sulla sua attività di tenutaria di pensione. Gli inquirenti trovano il cadavere con una siringa piantata nei coglioni. Questa simbolica ed eloquente siringa è l’elemento costante che caratterizza una serie di delitti nel mondo della malavita napoletana. Il padre di Babà, il commissario e Nunziata, cercano, per separate vie, di sbrogliare la matassa e su ciò si basa il «giallo». Ma il giallo non basta alla regista, che punta all’epopea. Attraverso il sentimento materno, avviene la svolta decisiva: sono le madri di Napoli, unite contro la droga, che hanno commesso quei delitti, per salvare o vendicare i loro bambini, insidiati o ammazzati dall’eroina e dai trafficanti. La regista qui perde ogni pudore e non esita a mancare di rispetto a Napoli, al sentimento materno e alla dignità femminile. Un tema che dovrebbe essere sacro e tragico diviene grottesco; le vendicatrici nere che scendono i vicoli dei quartieri popolari sono un’immagine retorica senza capacità di coinvolgimento emotivo e il finale con gli sguardi incrociati nell’aula del tribunale tra le assassine in gabbia e i fanciulli fuori, sotto l’allegoria della Giustizia, sono di una ridondanza insopportabile.

I napoletani e soprattutto le madri napoletane, non sono così sciocchi, squallidi e volgari. Napoli è una città martoriata anche dai delitti e dalla droga, ma il suo dramma esige rispetto e non esibizionismo viscerale di scopate e coltellate, lacrime e pancioni, alcove e bordelli.
Pur non essendo napoletani, ci siamo sentiti offesi da questo film che consideriamo un vero oltraggio al (non-comune) senso del pudore.

Gli attori, come spesso purtroppo avviene, sono vittime innocenti della regista: Angela Molina, Harvey Keitel, Isa Danteli, Paolo Bonacelli e Francisco Rabal si dannano per apparire credibili, come cattivi, come vecchi, come poliziotti e come donne; Daniel Ezrolow anche come bravo danzatore.
Le musiche, di Tony Esposito che vorrebbero essere uno degli elementi chiave del film, ne rispecchiano il cattivo gusto.

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

A Roma non ci sono soltanto i ristoranti, le trattorie ed osterie affollati di turisti, in prossimità dei monumenti o nei luoghi famosi, ricchi di storia. Ci sono anche locali situati in quartieri non toccati dal turismo, frequentati da romani che hanno deciso di andare fuori a cena. Si trovano spesso in vie un po’ anonime, strade più o meno tranquille, ricche soltanto della luce particolare che pervade tutta la città. A noi piace frequentare anche questi posti, perché si può sperare che, lontani dalla confusione del turismo di massa possano permettersi di curare meglio una cucina dedicata per lo più a clienti abituali e quindi più attenti alla qualità. Purtroppo raramente è così e la cosa ci lascia stupiti e ci spinge a chiederci cosa induce quegli avventori a ritornare in certi ristoranti o ad accettare prodotti di cucine così indecenti e vini così ignobili. Oltretutto non hanno neppure il dovere professionale di parlarne! Misteri dell’anima e del palato umani!
Vogliamo qui raccontare l’ennesima disavventura capitataci in uno dei nostri giri nella Roma di tutti i giorni. Mentre la città era sotto la neve, capitammo davanti alle luci di Nello l’Abruzzese, al numero 19 di via Montesanto, che ci parvero di conforto nella notte. Speranzosi e affamati varcammo la stretta soglia e ci ritrovammo in una vezzosa stamberga, con caminetto acceso, spiovente di finte tegole con edera sulla parete di fondo, debitamente affrescato in rustico stile. Noi due siamo spesso accompagnati da lieta brigata per cui non perdemmo subito il buonumore: non è infatti detto che la buona cucina sia inseparabile dal bell’arredo. Ordinammo un’ampia scelta di piatti e provammo alcuni vini; eravamo in molti, l’appetito era robusto, il buon umore non mancava; ma il più restò nei piatti e nelle bottiglie.
Gli antipasti di verdure erano banali e troppo unti e quella che avrebbe dovuto essere la crosticina di un gratin era molle poltiglia. I tonnarelli abruzzesi erano duri e con un sugo indecifrabile e disarmonico; mentre le fettuccine alle melanzane lasciavano solo una sensazione ingiustificata di piccante sulle labbra; le penne al gorgonzola erano senza sapore e le orecchiette «a piacere» suonavano un insulto alla commestibilità. La pizza abruzzese pareva uno scherzo dell’ultimo giorno di carnevale, con la pasta vitrea e il prosciutto di cartone.
Con i secondi, la situazione non migliorò; ci pare crudele insistere nella descrizione, ma è doveroso: il portafoglio abruzzese era un pezzo di carne massiccio imbottito malamente; gli straccetti di manzo alla rughetta erano veri brandelli di carne resa aspra dal troppo limone e dal sale non ben disciolto; le sogliole alla mugnaia parevano cotte solo in acqua; le mazzancolle stoppose ed amare; forse peggio di tutto la vitella all’uccelletto, vera fetta di polistirolo non espanso. Le facce, ora meno allegre dei nostri amici, non si poterono rallegrare nemmeno con dolci: gelati, tartufi, crème caramel e frappe di grande tristezza. Tra i vini, dopo aver assaggiato un putrescente bianco della casa e un maderizzatissimo Montepulciano d’Abruzzo, abbiamo preferito ripiegare sugli standardizzati, ma affidabili Fontanacandida e S. Giocondo. Il conto non fu né alto né basso, come conviene che sia, quando si deve contare su clienti abituali e di quartiere.

Tra le luci e i lumini di Trastevere di notte, siamo stati attratti dal chiarore discreto e un po’ intimo di Marcel, inaspettato ristorante franco-tunisino di via della Scala 8. L’arredo ingenuo e pasticciato va dal rustico medioevale, al «Napoleone Ventiquattresimo», con passaggi attraverso il déco e l’esotico. Il rosso delle tovaglie, la penombra e il brusio sommesso, l’apertura fino a notte inoltrata, ne fanno anche un posto da coppiette. Tutte caratteristiche che ispirerebbero diffidenza e invece dobbiamo dire che Marcel lavora con onestà e correttezza: non abbiamo assaggiato moltissimi piatti e quindi non vorremmo illudere e deluderci, però ci sembra che la cucina riveli buone capacità. Veramente gustoso abbiamo trovato il cous-cous, semola fresca e leggera, ricche e saporite guarnizioni di verdure e merguez, con due buone salse di accompagnamento, ben differenziate tra loro: l’una piccante e l’altra aromatica. Un piatto insolito e piacevole è il polpo in umido, assai morbido, con un sugo non acquoso, profumato di erbe e spezie. Meno convincente forse l’aspetto francese: il boeuf Strogonoff era appena corretto, un po’ svilito dagli champignons; ma ottima abbiano trovato la mousse di cioccolata, dalla giusta consistenza e morbidezza. Anche la carta dei vini non fa onore all’ispirazione francese: tra i pochi e consueti, abbiamo gradito un prosecco dei colli trevigiani, fresco e piacevole, senza infamia e senza lode.
Il conto ci è parso onesto, considerando anche l’ora, e il servizio è correttamente svolto dalla Signora Renate (?), assai compresa nella parte.

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

In purissimo azzurro è il titolo di una raccolta di versi di Elio Fiore (Garzanti, 1986, pagg. 108, Lit. 15.000) poeta romano nato cinquant’anni fa da famiglia cattolica, ma vissuto quasi sempre al Portico d’Ottavia e quindi testimone della vita del Ghetto. La sua poesia tenta così di fare ciò che millenni di storia e di teologia non sono riusciti a fare: unire ebraismo e cattolicesimo. La storia degli ebrei, che diventa storia delle vittime, o di una vittima, passa anche attraverso le vicende del Cristo, alla sua resurrezione, allo stupore della Maddalena che non lo trova più. Un unico Dio e un’unica religione sono cantati insieme con le strade del Ghetto di Roma. I momenti più belli sono certe descrizioni sommesse:

«i panni festosi appesi ai fili medievali» oppure «via dei Polacchi con i gatti sulle macchine», immagini appena simboliche: «Nel cortile, ora una colomba si è posata su un tubo di camino».

Accanto a queste piccole annotazioni in cui la religiosità ebraica e cattolica del poeta si distende pacata e senza retorica, ci sono i momenti più gridati, i ricordi terribili della furia nazista; alcuni squarci paiono anche troppo altisonanti e stridono per un attimo, prima che tutto ritorni ad avvolgersi nella storia del Portico, nel ricordo e nel bisogno d’amore.

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

Il 20 febbraio del 1816 fu rappresentato «nel nobil teatro di Torre Argentina» «Alma viva o sia L’inutile precauzione – Commedia del Signor Beaumarchais – di nuovo interamente versificata, e ridotta ad uso dell’odierno teatro Musicale Italiano da Cesare Sterbino Romano (…) con musica del Maestro Gioacchino Rossini».

Nel 170° anniversario di quella sera, l’opera è ripresentata nello stesso teatro grazie alla collaborazione tra le due pubbliche istituzioni del Teatro dell’opera e del Teatro di Roma. Dopo un certo numero di repliche in questa sede straordinaria, sarà, in marzo, ripresa al teatro di piazza Beniamino Gigli.
Di questo speciale allestimento si è fatto un gran parlare; ma a noi pare che sia senza infamia e senza lode, eccetto che per un aspetto: il delirio assoluto dell’informazione sul cast che nelle varie sere si avvicenda sulla scena: alle due cantanti annunciate sul programma e che avrebbero dovuto alternarsi nel ruolo di Rosina, se n’è presto aggiunta una terza e poi una quarta e le diciture sui manifesti risultavano così imprecise che anche per gli altri ruoli principali, tutti doppi, era quanto mai arduo attribuire il nome dell’interprete. Noi abbiamo cercato di riconoscerli un po’ dalla faccia e un po’ dalla voce; ma non siamo sicuri di non aver fatto un pasticcio. Del resto non abbiamo né la tempra né il tempo necessario ad un lavoro di segugi!
Ci ha confortati la (quasi) certezza che il Maestro Marcello Panni ha sempre diretto la ridotta compagine dell’orchestra.

Che il Barbiere di Siviglia sia un’opera splendida musicalmente e teatralmente è persino ridicolo ripeterlo; eppure, ogni qualvolta ascoltiamo il capolavoro rossiniano siamo presi da quel mondo melodico di concertati perfetti ed arguti e l’avventura di quelle musiche semplici e sublimi ci riempie di stupita ammirazione. La vicenda del barbiere intrigante e del giovane conte che strappano a un vecchio barbogio la giovane pupilla, malgrado le eccessive precauzioni di costui, è nota a tutti, eppure la macchina teatrale continua a rivelarsi ogni volta efficace.
Panni ha preso posto sul podio dividendo gli applausi con Gioacchino Rossini stesso, impersonato dal Maestro al cembalo Rinaldo Alessandrini, nelle vesti del grande compositore, rievocato anche fisicamente grazie al trucco e al costume. L’orchestra ha eseguito la sinfonia d’apertura con graziosa nonchalance, come se musicanti e direttore si trovassero a passare di lì per caso; non male, ma tirando via, a meno che ci sia sfuggito il senso di una ricerca filologica basata su chissà quali principi. Eppure quella smagrita sinfonia è risultata ugualmente bella, perfetta in tutte le sue parti. Poi ha preso avvio la vicenda nell’insieme di musica e canto. Angelo Romero, come Figaro, si è prodigato con abnegazione e la sua voce, se pure non sempre duttile a sufficienza, ci è parsa nel complesso corretta, il personaggio si è anche avvantaggiato di una buona capacità recitativa. Paolo Barbaricini è stato un Conte d’Almaviva, la cui voce, dal bel timbro squillante, sapeva fraseggiare correttamente, anche se a volte eccedeva in languore. Il soprano Adriana Anelli ha voluto fare e strafare: la sua Rosina risultava un po’ pesante nelle movenze ed aveva qualche pausa di troppo prima dei gorgheggi, delle calate e dei trilli.
Sesto Bruscantini e Justino Diaz hanno reso la coppia Don Bartolo-Don Basilio irresistibile per comicità e bravura musicale, voci ben tornite e duttili, profonde e sempre adeguate alla situazione scenica. Andrea Snarski, Amelia Felle e Fernando Jacopucci hanno disimpegnato con dignità i ruoli minori.

Il coro diretto da Ine Meisters si inseriva abbastanza bene, senza combinare grossi disastri. Le scene e i costumi di Roberto Laganà e la regia di Antonello Madau Diaz hanno scelto la via di un ovvio e piacevole naturalismo, con riusciti accenti umoristici. Il pubblico contento e grato a Rossini, ha lietamente applaudito.

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

Heiner Muller è un autore tedesco contemporaneo di cui si fa un certo parlare, noto da noi per un suo Filottete che Glauco Mauri portò in scena per i teatri italiani abbinato alla tragedia di Sofocle. Ora allo Spazio Uno di vicolo dei Panieri 3 si rappresenta una sua Medea nella traduzione di Saverio Vertone.
Il testo, misero, dura poco meno di un’ora ed ha due difetti fondamentali: il primo difetto è una tronfia presunzione da cui scaturisce una accozzagliata di parole prive di senso e di buon gusto, che si rifà, se mai, a un ritrito espressionismo di scarto; il secondo difetto è che non ha nulla a che vedere con un copione teatrale, dipanandosi flaccido, inerte e senza architettura.

Un moderno Giasone arriva ad una spiaggia abbandonata, dove si addormenta tra i rifiuti, sdraiato sul relitto di una cassa di legno. Nel sonno gli appare l’incubo di una nera ombra femminile, con tre teste che parlano tre diverse lingue; per giustificare il fatto di essere Medea, gli strilla ogni tanto parole come: «Colchide» o «Corinto». Interrotto il sonno, il pover’uomo, sempre più tetro, se ne va concludendo che, secondo lui: «Le pietre e il sangue non hanno denti..» Affermazione pregnante, che riassume bene l’insignificanza del testo.
Chissà perché un serio e bravo uomo di teatro come Enrico Job, che noi conosciamo ed apprezziamo soprattutto come scenografo e costumista, ha accettato di compromettere la sua rispettabilità firmando anche la regia?
E’ riuscito comunque a svolgere un lavoro davvero egregio; dando allo spettacolo, oltre che credibilità, ritmo e consequenzialità visiva e acustica, aiutato dalle martellanti sonorità di Roberto Marafante che hanno scandito tutta la vicenda. Tra gli attori, il malcapitato Giasone non se l’è cavata molto male: Marcello Murru gli dava corpo, voce e movenze incisivi e appena incrinati da qualche acerba ingenuità espressiva.
La triplice Medea, immane ombra nera sospesa a mezz’aria, risultava figura efficace e, prescindendo dalla banalità del testo, affascinava per il gioco musicale delle tre lingue (italiano, greco moderno e tedesco) che si sovrapponevano, s’inseguivano, si stringevano in nodi che poi si scioglievano; dolci, violente, disperate e lubriche, ben accompagnate dal movimento del corpo unico e della triplice testa, danzanti. Un bell’effetto scenico realizzato con precisione e bravura da Manuela Morosini, Gudrun Gundlach e Antonia Forlani. Un ottimo lavoro, dunque quello della compagnia, ma secondo noi sprecato, a meno che non si voglia dar credito a tutte le pseudo-interpretazioni socio-intellettual-vetero-femministe che si potrebbero addurre a riempire la vuotezza del testo e che noi preferiamo risparmiarci e risparmiarvi.

Psicoanalisi contro n. 20 – La sorgente della salute

sabato, 1 marzo 1986

Le parole sono una presenza costante ed ineliminabile: ci rapportiamo agli altri per mezzo di parole, i nostri stessi pensieri sono parole. Soltanto servendomi di parole io posso affermare che siamo circondati di parole. Brandelli di frasi ovunque. Nel pensiero, le parole si accavallano, si intrecciano, si dissolvono l’una nell’altra. Le frasi che pronunciamo o pensiamo non sono quasi mai complete: altri suoni le interrompono, altre esigenze, altri pensieri; eventi dentro e fuori di noi.
Si nasce in un gruppo sociale che possiede una propria lingua. Una lingua un po’ diversa da quella di altri gruppi. Ognuno poi ha il proprio stile, anche nel commettere errori, nello sbriciolare frasi, nel costruire architetture sintattiche che spesso risultano sghembe oppure assurde. Persino le persone più dotte e padrone di un linguaggio forbito usano, nel parlare quotidiano, espressioni un po’ sgangherate.
Le parole riempiono anche il silenzio: il monaco, isolato nella sua cella, solitario, ha la mente invasa dalle parole; non soltanto dalle preghiere che deve dire, ma da parole che vengono di lontano e che continuano a ruotargli dentro. «Adesso guardo il cielo», dice il monaco a se stesso, alza gli occhi, poi soggiunge: «Ma, però…» Monaco, attento non si dice: «Ma, però». Solo uno o solo l’altro; ricorda: te l’hanno insegnato, tanti anni or sono, a scuola, che ma è uguale a però. Per cui sarebbe come dire: «Ma, ma» oppure: «Però, però» Una iterazione assolutamente inutile. Fuori, nel prato, c’è un albero; quell’albero è immobile, senza parole, mentre il monaco continua a sentire nella testa brandelli di frasi che ruotano: la parola «albero» e la parola «quercia»… «ma..però.. quell’albero non è una quercia… che cosa è?» Di nuovo, nel silenzio, in mente, altre parole, che ruotano e scivolano inarrestabili.
Ho parlato di un monaco, ho parlato di me. Il fuoco nel camino scoppietta: sono parole, le parole del fuoco.

2

Gli esseri umani parlano e hanno bisogno di parlare. È un bisogno che, talvolta, sorge irrefrenabile, magari perchè si è contenti, troppo contenti, e allora si vuole raccontare, dire. Oppure abbiamo incontrato un amico che… oppure siamo, finalmente, con la persona amata e ci vien voglia di parlare, di dirle tutto, crediamo di avere cose bellissime da narrare, pensieri acutissimi da comunicare.
Qualche volta, se ci pare di essere da troppo tempo inascoltati, se pensiamo che ciò che diciamo non venga preso abbastanza in considerazione, possiamo anche decidere di iniziare un trattamento psicoanalitico. Le ragioni che spingono ad iniziare una psicoterapia sono molte e di vario genere; alcune sono consapevoli e altre meno. Spesso è un disagio intenso e cocente, qualche altra volta è una voglia di capire; o un desiderio di acquistare potere attraverso quel bizzarro strumento che è la psicoanalisi; diciamo: potere su di noi, ma in realtà, più spesso, è desiderio di acquistare maggior potere sugli altri. C’è anche la voglia di essere, finalmente, ascoltati. Ci accorgiamo subito che parlare non è difficile, mentre è faticoso e pericoloso ascoltare. Le parole dell’analista ci colpiscono sferzanti, sono scomode e ci destrutturano. Ci sforziamo di pensare che, tutto sommato, quello che il terapeuta ci va dicendo, può, in fondo, tornarci utile, anche se ci fa soffrire, se ci toglie i punti di riferimento. Troviamo spesso riprese parole che noi stessi abbiamo detto e che avremmo preferito fossero lasciate cadere nel vuoto, galleggiare nell’aria della stanza. Invece quella sottolineatura le ha ingrandite a dismisura, come se fossero stampate a lettere di fuoco sulla nostra fronte e nella nostra coscienza. Ci accorgiamo che ci sarà da ballare. Siamo costretti ad ammettere la presenza di un ascoltatore reale, che ci ascolta davvero, che replica a quello che diciamo e che ci costringe a rispondere a nostra volta. Questa è la via della psicoanalisi, o meglio, una delle vie. Quali sono le altre?

3
Coloro che hanno esperienza psicoanalitica, spesso, confessano di sentirsi a disagio quando si trovano a parlare con chi non ha mai fatto psicoanalisi. Non si tratta solo del fastidio che si prova nel venire gratuitamente attaccati per una propria scelta, ma di una vera e propria difficoltà a comunicare; difficoltà che non provano neppure quando si scontrano con persone che hanno fatto la loro analisi con terapeuti operanti in base a principi molto diversi da quelli su cui è stato basato il loro lavoro.
Nessuno scontro fra teorie diverse può infatti creare altrettanto disagio quanto se ne prova a confronto con chi non ha mai fatto analisi.
D’altra parte, coloro che non hanno mai fatto psicoanalisi sono pressoché unanimi nell’affermare che non è possibile nemmeno chiacchierare con chi ha fatto o sta facendo psicoanalisi: «Sono saccenti e anche quando non ti aggrediscono con interpretazioni e osservazioni sull’inconscio – per cui ti spiegano il perché e il per come di ogni tuo gesto, o cosa si nasconde dietro ogni tuo piccolo errore – pure, sempre, ti si presentano con aria sussiegosa, come se loro stessero vivendo un’esperienza importante e fondamentale, da cui tu, poveretto, mai toccato dalla grazia, sei escluso per sempre, confinato in un mondo inferiore. Loro ti passano accanto, alteri e benevoli, sempre profondamente irritanti».

Entrambi questi discorsi rispecchiano una realtà di fatto. È vero che la psicoanalisi è un’esperienza profonda e – ciò che conta – se fatta con onestà e correttezza, riesce a far vedere il mondo, gli altri e noi stessi in modo un po’ diverso; ma è anche vero che viene, spesso, usata come arma per difendersi e offendere, per aggredire e dominare; e ciò accade soprattutto – anche se non soltanto – quando l’analisi non ha svolto correttamente la sua funzione. Quando la «guarigione» non è stata completa, quando si è rimasti lontani dalla realizzazione di un contatto pieno e vitale con Eros. Chi, del resto, potrà mai possedere veramente Eros? Con le sue ali d’oro, egli, sempre, un poco ci sfuggirà, avvolto in una nebbia che lo nasconde e ci confonde.

4

Dopo aver insegnato che cosa significa parlare per essere ascoltati e ascoltare per poter rispondere, dopo che, grazie ad un attento lavoro terapeutico, il dialogo diventa reale e non l’incontro tra i monologhi di alcuni e i silenzi di altri, la psicoanalisi deve anche insegnare a capire la struttura del linguaggio da cui siamo avvolti.
Quasi tutti parliamo, ma non sempre sappiamo cosa stiamo dicendo; o meglio: la forma linguistica in cui si calano i pensieri, i desideri, i messaggi, è quanto mai frammentaria, imperfetta e imprecisa. Non voglio dire che sia indispensabile fare come coloro che torniscono le parole, levigandole, facendole uscire di bocca con meticolosa attenzione: donne con voci sempre morbide e flautate e maschi che estraggono dall’ampio torace parole vibranti di tutti i loro armonici, gravi e sensuali. È indubbiamente molto piacevole abbandonarsi al gioco delle sonorità, purché, non faccia perdere il senso di ciò che si sta dicendo. Io parlo della difficoltà di fissare l’attenzione sulle parole. I nostri desideri sopraffanno le parole. Chi ha provato a correggere gli errori di una prima operazione di stampa, le cosiddette «bozze», si sarà accorto di come l’occhio, automaticamente, tenda a correggere, senza che il lettore li percepisca, errori anche macroscopici. La stessa cosa vale per il significato: si ascoltano realmente soltanto tre su dieci parole che ci vengono dette, il resto lo costruiamo. Anche quando siamo noi a parlare, non siamo ben consapevoli di quali parole stiamo usando; non solo commettiamo gravi errori, trasgredendo le regole della lingua, ma facciamo uscire dalle nostre labbra espressioni raffazzonate, schiave di contorcimenti che le rendono zoppicanti ed incerte. Si parla, quasi sempre, senza essere completamente autoconsapevoli, e così pure si ascolta, con l’orecchio e la mente altrove. La psicoanalisi deve anche insegnare a cogliere il significato dei termini che vengono usati nella comunicazione. C’è un solo modo vero di parlare; l’altro, confuso e impreciso, non è per niente più spontaneo, come alcuni pretendono che sia, è solo più brutto, ottuso e prigioniero di interne e non espresse intenzioni. Le parole non sono il vestito dei pensieri sono il modo in cui essi si rendono concreti. Frasi dette distrattamente e in modo frammentario sono frutto di una personalità complessivamente disarmonica e che a malapena tenta di costruire un’immagine accettabile di sé, appiccicando disordinatamente brandelli delle proprie maschere. Un linguaggio che fa sentire freddo.

5

Chi è prigioniero dei cosiddetti rituali ossessivi, si sente, ed è, veramente ingabbiato: pensieri e gesti coatti lo costringono a sprecare energie, senza ottenere, apparentemente, nulla in cambio; eppure bisogna che questo gesto preceda quell’altro, che quegli oggetti siano tutti allineati; pensieri e immagini si affacciano alla mente con imperiosa violenza.
Nessuno è del tutto libero da gesti e pensieri che sembrano imposti da una forza misteriosa; ma vi sono alcune situazioni esistenziali in cui la vita sembra paralizzata da assurdi rituali e da giaculatorie mentali, che eternamente ritornano. Spesso tutto ciò sembra l’offerta dovuta a una terribile divinità. Si pensa: «Se non fai questo ti accadrà una disgrazia, o capiterà qualcosa a qualcuno che ti è caro». I gesti si ripetono, continuamente, e devono essere compiuti alla perfezione; la stanchezza aumenta. Proiezione ed espiazione; ma protezione da che? Qual è la colpa da espiare?
Ci sono anche coloro che sembrano liberi: i distratti e i disordinati. Costoro paiono affrontare la vita così come viene, senza l’imposizione di schemi o di comandi sotterranei. Intorno a loro c’è una caotica libertà: gli oggetti scompaiono e ricompaiono; costoro sono alla perenne ricerca delle chiavi, delle sigarette, di un libro. Se fanno la lista della spesa la lasciano a casa, non sono capaci di compilare un modulo, di elencare con ordine. Sembrano liberi, ma, osservati da vicino, risultano completamente schiavi del loro disordine, almeno quanto gli ossessivi sono vittime dei propri rituali. Il volto di questi campioni della confusione non è mai disteso, il loro parlare è concitato, se tacciono, rimuginano. Se guidano un’automobile, vanno troppo veloci quando dovrebbero rallentare e sono lentissimi quando sarebbe necessario muoversi con maggior speditezza. Studiano e non ricordano, dimenticano il nome degli amici e gli indirizzi, scordano il titolo dell’opera di cui vogliono parlare; confondono i giorni e gli orari degli spettacoli e dei treni, le loro mani cincischiano gli abiti nervosamente, prendono, posano e toccano gli oggetti in continuazione; i loro occhi scrutano inevitabili. Vittime di una spontaneità obbligata e finta che è la loro terribile prigionia, incapace però a proteggerli e nemmeno utile ad espiare. Resta solo la condanna inesorabile a una tensione continua, a una concitazione travolgente, a un caos che sconvolge tutta la vita. Ognuno di noi è prigioniero, poco o molto, di confusioni e di ossessioni; la libertà è, certo, per tutti lontana. Io non sono sicuro di sapere che cosa sia questa libertà di cui tanto si parla; so però cosa sono un gesto rilassato, un pensiero tranquillo, anche se emotivamente intenso. È bello fare lapsus e gesti distratti, scordarsi qualcosa. Soprattutto, è bello non sentirsi dominati da forze capaci di costringerci troppo a fare o a non fare, a ricordare o dimenticare. Forse anche questa disposizione d’animo dipende da meccanismi costrittivi interiori, ma l’importante è sentirsi, almeno un po’, in armonia col comportamento scelto; saper eventualmente giocare e sorridere anche delle coazioni e delle distrazioni. Ciò vale per i gesti importanti e per quelli futili di ogni giorno, vale anche per le parole. Ci sono persone che parlano sputando le parole con impressionante rapidità, una dopo l’altra, apparentemente strutturate, ma che risultano imprecise e poco adatte ai concetti che vogliono esprimere, non appena vengano analizzate nei loro rapporti logici e grammaticali. C’è chi balbetta o è affetto da altre forme di disturbo della verbalizzazione; c’è chi non riesce mai a concludere una frase. Parlare bene è difficile, quasi quanto vivere bene.

6

È indubbiamente brutto dover ascoltare voci sgradevoli, pronunce viziate da eccessive inflessioni dialettali, espressioni prive di senso; ma non si tratta di un problema semplicemente estetico. Le disarmonie del linguaggio possono creare un disagio profondo; sono imperfezioni organiche, come una schiena cifotica, una pelle squamante, occhi cisposi, denti guasti; mali cui è doveroso tentare, sempre, di porre rimedio. Sarebbe certo un guaio se tutti parlassimo con la stessa voce, con la stessa precisa dizione, con lo stesso accento. Anche al di là della ricchezza che si esprime nelle parlate dialettali, è comunque bello che nella voce di ciascuno sia possibile leggerne la storia e se ne capisca l’origine. È bello che ogni voce sia personale, sono belle le variazioni di tono, le modulazioni. Fa piacere poter distinguere tra frasi secche e nervose ed altre più distese, o, addirittura, percepire la furia, oltre che la dolcezza, nel suono di una voce. È bello, infatti, avere una fisionomia, ma è brutto essere ammalati o deformi. Del resto, come è possibile essere ammalati in un punto solo della persona? La malattia ci coinvolge tutti, interamente. Mi accorgo di aver parlato finora del linguaggio, delle parole, come se fossero un elemento esterno, un involucro. In realtà non è così: l’ho detto un po’ per pigrizia, un po’ per ingenuità e un po’ per farmi capire; ma intendo dire che il linguaggio parlato è la persona, è uno dei modi in cui l’essere umano si costruisce, un fondamento del sé di fronte agli altri. Non è possibile analizzare il linguaggio parlato come se fosse un’organizzazione di segni, una serie di segnali, più o meno organica, che si può affrontare separatamente dall’analisi del significato, lasciando ad altri la cura di questo. La salute si esprime anche attraverso un linguaggio armonico. Si diventa sani sforzandosi di usare un linguaggio ricco e disteso. La spontaneità non consiste nel disordine. Si è spontanei solo se si è contenti e si è contenti solo quando non si è prigionieri di forze incontrollabili. La prigione può consistere in un cumulo di gesti solo apparentemente liberi, ma invece scoordinati, frutto di una profonda patologia che affonda le sue radici nell’essere o chissà dove.

7

Uno dei sintomi sociali più evidenti di questa condizione patologica della parola è l’incapacità generale di affrontare la discussione. È, infatti assolutamente impossibile, almeno nel nostro mondo culturale, vedere un gruppo di persone che discutono intorno a un qualsiasi problema, intervenendo nella discussione una alla volta. Gli interlocutori possono essere, indifferentemente, le persone più educate o le più irascibili, sempre le frasi si accavalleranno e ciascuno dovrà continuamente lottare contro l’altro per poter finire di dire la frase che sta pronunciando, a sua volta richiamato all’ordine perché non ha lasciato che un altro finisse di dire quello che stava dicendo.
Questo tipo di disturbo collettivo è molto diffuso ed io dispero di riuscire a curare me stesso e gli altri. Significa forse che mi starebbe bene solo un mondo di discussioni paludate e rigide, come nei convegni, quando c’è un presidente dell’assemblea che dà, di volta in volta, la parola ai convenuti? Certamente no. Non desidero che ogni intervento in una discussione sia preceduto dal saluto agli «Illustri colleghi». Né il convegno né la rissa sono forme autentiche di dialogo. Il dialogo potrà instaurarsi quando tutti saranno un po’ più sani: chissà quando! Allora, forse, sapremo discutere con allegria, con pazienza e anche con irruenza e passione, senza sopraffare. Non sono dialoghi neppure quelli del grande Platone, ma lunghi monologhi, inframezzati dall’intercalare monotono: «Dici bene, o Socrate». Il grande poeta-filosofo aveva, anche lui, paura del confronto e dell’attesa.

8

In analisi bisogna imparare a parlare. Forse è questa l’unica situazione in cui, lentamente, si impara a dialogare; ma questa condizione ideale si realizzerà solo quando analista e paziente saranno del tutto sani. Quando? Forse quando, lasciata la stanza dell’analisi si accorgeranno che:

«…il pino ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, strumenti
diversi
sotto innumerevoli dita».
(G. D’Annunzio, La pioggia nel pineto).

Allora, saranno capaci anche di parlare tra di loro: ma questa è una fantasia, un mito. La realtà è però qui ed oggi, in questa realtà bisogna imparare a diventare sano, anche parlando ed ascoltando in una seduta psicoanalitica.
Uno dei precetti della psicoanalisi più antica, e che io ritengo ancora abbastanza utile, è quello che esorta a dire le cose, così, come vengono in mente, a fare, cioè, «libere associazioni». Bisogna dire d’altro canto che tutti i pensieri, anche i più coatti, sono risultato di libere associazioni. Questa tecnica è molto utile operativamente; permette al pensiero di lasciarsi andare, di far seguire un’immagine ad un’altra. Questo risultato è però difficile da ottenere. Quasi sempre, il paziente invitato ad associare non fa che ripetere lo stesso racconto, o ribadire lo stesso concetto, tutt’al più con parole diverse. Allora l’analista si trova impegnato in un faticoso lavoro di addestramento: «Cosa ti fa venire in mente quel vaso?» «Ma, non saprei, era blu…» «No, non voglio dire il colore, o come era, cerca di associare qualcosa a quel vaso». «Mi viene in mente un vaso pesante». «E quel vaso pesante cosa ti fa venire in mente?» «Che era pesante, ed era su di un tavolino». «Questo lo hai già detto».
E difficile mettere in moto il meccanismo delle libere associazioni, perché è difficile lasciarsi andare. Per andare dove? Non si sa: ecco perché la libera associazione fa paura. Sarebbe, questo, il pensiero spontaneo? Sì e no, allo stesso tempo. Sì, perché quando si riesce ad associare liberamente vuol dire che si è sufficientemente rilassati e distesi e si ha il coraggio camminare con le proprie gambe, guardando senza troppa paura quello che affiora dall’inconscio. No, perché i pensieri e le immagini non rampollano le une dagli altri a caso, ma sono dirette da un principio che potrebbe essere veramente coercitivo e che rappresenterebbe quindi il massimo grado della mancanza di libertà.

9

Allora è meglio andare non tanto alla ricerca di un’astratta libertà, ma piuttosto del proprio modo di sentirsi liberi. Bisogna anzitutto scoprire l’origine di quella forza misteriosa che ci costringe a dire quelle parole, ad essere così sconclusionati: la sorgente della malattia. Certo, dietro ogni malattia se ne scoprirà un’altra, e poi un’altra ancora. Ci sembrerà di avere dentro di noi soltanto motivazioni malate, solo forze patogene, che ci costringono. La salute sembra sempre più lontana. Quando questo succede ci si sente a disagio, si ha paura e si desidera fuggire, interrompendo la cura.
Un giorno, tanto tempo fa, un tale che era stato psicoanalista, mi disse: «Io ho smesso perché non sopportavo più di vedere soltanto e dappertutto malattia». Io rimasi un po’ turbato. Qualche volta, quella frase mi torna alla mente, ma poi mi accorgo che nel mio lavoro, mi capita di vedere, ogni tanto, profilarsi all’orizzonte, un po’ di salute; le parole di chi mi sta di fronte diventano più chiare e, ad un certo punto ci incontriamo, quasi ci scopriamo: un fenomeno che ha qualcosa del riconoscersi, un modo nuovo di parlare e di ascoltare. Questo è uno dei possibili percorsi verso la guarigione, ma vi sono anche altre vie. Indubbiamente scegliere una o l’altra delle strade può sembrare riduttivo per chi vuole scegliere la strada di tutte le guarigioni, l’unica. Io non la conosco e i miei strumenti sono ancora inadeguati a questo fine. Per ora, io riesco, appena, lentamente e con fatica, a trasformare alcune situazioni patologiche in situazioni di salute; attraverso l’uso di una tecnica che si serve anche della parola, in base a un meccanismo di domande e risposte; ma non soltanto. Guai se mi fermassi qui!

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

Al Teatro Manzoni di Roma, in Via Monte Zebio, di recentissima inaugurazione, va anche
un po’ di merito per aver contribuito, con l’Associazione Giovani Musicisti e l’Assessorato alla cultura della Regione Lazio, ad organizzare le due serate di Giovani per la Musica il 24 febbraio e il sei marzo. Iniziativa che ci trova almeno entusiasti: sosteniamo da sempre, infatti, che la musica contemporanea deve essere il più possibile ascoltata da tutti, eseguita dai giovani, e non imbalsamata nel giro mortifero degli addetti ai lavori.

In una sala affollata – per lo più da amici e parenti dei giovani musicisti – si sono eseguite musiche di autori collaudati come Berkeley, Petrassi, Ghedini e Milhaud insieme con brani di giovani compositori come Dimitri Nicolau, Claudio Anguillara, Fabrizio Cardosa e Corrado Oddi. Composizioni quanto mai varie, sempre per pochi esecutori. Noi abbiamo assistito alla serata del 24 e siamo rimasti pienamente soddisfatti per la correttezza di tutti e per la bravura di alcuni. Ci ha rallegrato anche cogliere qualche brandello di infervorata discussione sul significato e valore dei brani e delle interpretazioni, tra il pubblico. La musica di oggi è sempre più viva: non si ha più tanto l’assurdo e ingenuo timore del passato e coraggiosamente si fa musica; bella, brutta, bene, male. Il 1985 è stato dichiarato Anno Europeo per la Musica; ma non si è fatto un gran che, per cui è importante che ci si rimbocchi le maniche e chi desidera ascoltare e fare musica non perda occasioni come queste e abbia voglia di lavorare senza aspettare interventi troppo paludati e troppo dall’alto. La serata è iniziata con un bel brano di Lennox Berkeley, Concertino. L’autore è nato in Inghilterra nel 1903 e la sua è una musica non troppo difficile, gradevole e accattivante. Così era anche questo brano per quattro strumenti eseguito dal Systema Ensemble: Alberto Galletti al pianoforte, Donatella Casa al flauto, Beatrice Gargano al violino e Albert Booz al violoncello. Un inizio brillante, ricco di imitazioni, poi una sezione centrale con un bel dialogo melodico fra flauto e violoncello; un ammirevole, anche per le armonie, discorso tra violino e pianoforte, concludeva un finale disinvolto e serrato con chiari grumi tonali che si stemperavano l’uno nell’altro. Ottima l’esecuzione dei quattro, espressivamente precisi.

Seguivano nel programma Tre giochi per flauto e chitarra op. 58 del compositore greco, da qualche tempo cittadino italiano, Dimitri Nicolau, in prima esecuzione assoluta. L’autore mira al preziosismo e spesso ci riesce: le sonorità scarne, ma sensuali si susseguono con cura meticolosa e gusto di stampo «ellenistico». I tre giochi rivelano nel complesso una buona capacità di comunicare attraverso la musica, malgrado qualche scollamento nel dialogo tra i due strumenti e alcune ingenuità degne di commentare un cortometraggio sulla savana. Non ci sono dispiaciute certe reminiscenze spagnolesche e abbiamo apprezzato il fluire continuo del la musica anche se non sempre consequenziale. Avremmo preferito poi un maggior rispetto per l’anatomia e la fisiologia degli strumenti; questo è però un discorso che vorremmo rivolgere a tutti i compositori: ogni strumento si è venuto formando nei secoli, secondo un processo di vera e propria evoluzione «genetica» e il «fenotipo» ha quindi caratteristiche proprie che devono assolutamente essere rispettate, anche se portate alle possibilità estreme; è inutile far spernacchiare una tromba o usare un violoncello come un tam tam, non bisogna mancare di rispetto allo strumento e allo strumentista. Bravi anche nei momenti più difficili Lisa Beth va Friend ai flauti e Claudio Scozzafava alla chitarra.
Cinque lieder hanno costituito il momento vocale della serata: il baritono Furio Zanasi ha cantato un sonetto del Petrarca musicato da Anguillara, Pace non trovo, dalla bella melodia arcaicizzante, con interessanti armonie; poi Verborgenheit di Morike, musicato da H. Wolf e Morgen di Mackay su musica di R. Strauss, pezzi di sapiente fattura. Il cantante ci è parso un po’ troppo rigido, con i muscoli della gola e del collo tesi in modo inverosimile, tanto da compromettere il timbro. Emozionato?

Il soprano Elízabeth Norberg Schulz ha eseguito: Canta un augello di Boiardo, messo in musica da G.F. Ghedini e il Lamento di Arianna, versi di De Libero musicati da G. Petrassi. Corretta ma insicura all’inizio di alcune frasi melodiche del primo brano, la giovane cantante ha dato un’interpretazione buonissima dello stupendo pezzo petrassiano, con voce precisa, calda, appassionata e drammatica.

Al buio, dal buio, per nastro magnetico, di F. Cardosa, con cui si è aperta la seconda parte della serata, era solo un frivolo e ormai datato giochetto sonoro; mentre la successiva Ignota Elegia, per pianoforte amplificato, del medesimo autore, benché eseguita con bravura da Alberto Galletti, ci è parsa una successione di accordi volgari, inframezzati da sgradevoli note isolate, senza logica a dispetto dei vaneggiamenti della presentazione.
Ancora di Nicolau abbiamo ascoltato: Nel sogno una cosa, op. 57, per sax contralto, sax baritono e pianoforte. Un bel brano che apre con un lungo dialogo amoroso tra i due sax, sensuale e piacevole, ma che esclude troppo il pianoforte, costretto ad adattarsi a fare da eco e da accompagnamento, ben trovando la sua collocazione solo nel finale, quando riesce ad amalgamarsi coi due. L’esecuzione di Federico Mondelci al sax contralto, Massimo Mazzoni al baritono e Giovanna Giuliodori al pianoforte è stata impeccabile. Scaramouche di D. Milhaud è un brano arguto e ironico, arricchito da un samba bellissimo. Mondelci e la Giuliodori lo hanno eseguito con sapiente ingenuità attenti al ritmo e al fraseggio.

Il Gruppo Jazz ha eseguito Rhombe. 3/4 Piece di Corrado Oddi, un brano complessivamente molto ben costruito, dal bell’inizio barocco e dissonante, che si stempera un poco in una parte centrale di routine, ovvia, ma che sa però riprendere quota e mordente nel finale. Corrado Oddi alla chitarra, Massimo Nunzi alla tromba, Mauro Guidi al sax alto, Maurizio Urbani al sax tenore, Gianfranco Tedeschi al contrabbasso, Sandro Tomassetti al vibrafono e alle percussioni e Fulvio Maras alla batteria erano ben amalgamati, magari un po’ compiaciuti di qualche effetto da antica band. Perplessi ci hanno lasciato le amplificazioni; ma è un guaio ricorrente di cui non ci si sente di incolpare i suonatori.

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

Il consenso

L’interesse per la psicoanalisi pare esprimersi soprattutto sotto la forma di una eccessiva curiosità per gli psicoanalisti. Mentre è indispensabile che un fisico diventi almeno un premio Nobel perché la gente si interessi a lui e un chirurgo che si occupa di trapianti cardiaci non fa breccia col suo nome nella memoria collettiva rimasta ferma al magico nome di Barnard, gli psicoanalisti vengono tirati in ballo con una certa frequenza nelle discussioni di salotto e d’ufficio. Al di là però dell’accanimento con cui viene sostenuta la posizione dell’uno o dell’altro, c’è l’impressione che non tanto di teorie scientifiche o di tecniche terapeutiche si stia trattando, quanto dell’accettabilità di questa o quella figura di imbroglione. Capita, infatti, che un insuccesso clinico o un’avventura personale spingano subito l’opinione comune a identificare la teoria con il teorizzatore, trascurando l’una e vivisezionando l’altro, più ancora: negando che la psicoanalisi sia qualcosa di autonomo dal singolo psicoanalista. Cosa per lo meno strana, se si consideri che nessun crollo o disastro, avvenuto per una cattiva applicazione dei calcoli di ingegneria, ha messo in discussione la legittimità della matematica. Mago, strizzacervelli, guru, persuasore occulto, sono termini ed espressioni che alludono alla poca limpidezza dell’atmosfera che si costituisce intorno a chi si occupa di psicoanalisi, cercando, magari, di svolgere con la maggior discrezione e correttezza possibile la professione che si è scelto. Se poi costui ha la presunzione di elaborare una teoria, di operare in base ad essa e di formare altri alla sua scuola, proponendosi come Maestro, allora è subito guerra santa! Da una parte, il drappello dei seguaci: allievi e discepoli o semplicemente simpatizzanti, che imbarazzano per l’entusiasmo acritico di cui si rivelano, fuori luogo, capaci; dall’altra parte, l’esercito dei denigratori, troppo preoccupati difensori della libertà da ogni impegno, per sembrare genuini e sfuggire al sospetto dell’intolleranza o dell’invidia. La ricerca del consenso è il comune denominatore di ogni attività umana ed è tanto più intensa quanto meno è esplicita, tanto più negata quanto più totale: tanto meno criticata quanto più frivola. Ma se questa ricerca di consenso diventa esplicita, non banalizzante e pretende di porre le condizioni per una reciproca e consapevole accettazione allora è lo scandalo. Come si può avere l’improntitudine di porre le condizioni di un contratto e di pretenderne l’applicazione, senza che le norme siano quelle totalizzanti del potere che non ha limiti e dell’obbedienza che non ha coscienza? Ecco che lo psicoanalista non ha più il diritto di sentirsi legittimato a costruire il suo edificio, scegliendo i materiali, il disegno e i collaboratori che trova più congeniali al progetto; se osa farlo dovrà accettare che si tenti di abbattere la sua costruzione insieme con lui. A meno che non sia tanto furbo da ottenere più consenso di quanto gliene serva, senza però chiederlo, solo concedendo un poco alla stupidità che si finge democrazia.

20 – Marzo ‘86

sabato, 1 marzo 1986

Giulio Turcato è nato nel 1912, ha operato scelte estetiche difficili quando queste scelte significavano contraddire il fascismo e il realismo naturalista caro a Togliatti. Una militanza artistica che ha la prerogativa della coerenza, come si può anche ben vedere in questa grande mostra antologica e retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Valle Giulia, curata da Augusta Monferrini, con la collaborazione di Vana Caruso e Gianfranco Proietti. L’astrattismo per Turcato si esprime soprattutto con il colore e i suoi colori mettono addosso un’allegria un po’ superficiale. Nelle sale, grandissime e meno grandi, i colori fanno bella mostra di sé. La pittura di Turcato ci sembra soprattutto buffa: graziosa, seduttoria, decorativa, non ha la pretesa di grandi o piccoli messaggi e, col tempo, ha perso l’energia polemica che l’animava, per esibirsi, ironica ed autoironica, straripando anche spazialmente, con l’enormità delle ultime tele. Tralasciando riflessioni possibili su quadri assai remoti come il Ritratto di Gloria Chilanti del 1944 pienamente figurativo, con reminiscenze di Matisse; l’interesse nostro è stato attirato dalla rapida evoluzione verso l’astrattismo che ci pare di poter cogliere tutta nelle due edizioni di Comizio. Il quadro del 1948 e quello del 1950 sembrano a prima vista uguali, col dominante rosso delle bandiere; ma nella stesura del 1950 i rettangoli rossi sono diventati triangoli e un facilmente leggibile paesaggio è diventato reticolo di segni bianco-marroni. Dopo di che: il pittore si lascia andare ai suoi Reticoli grigi e neri; alle sue Composizioni di segni su fondo rosso, ai suoi ricordi di New York, con pezzi di carta carbone incollati sulla tela, visioni di Superfici lunari nerissime con piccoli bubboni che preparano lo sganciamento da ogni realtà e che portano al colore puro e irridente dell’Apparizione, del 1985, gioco gestaltista azzurro e arancione di cui non viene detto quale dei due è sfondo per l’altro, proprio perché nessuno dei due è figura.

Oltre che i colori dei quadri, aumentano l’atmosfera da fiera i numerosi «oggetti» di Turcato, dai colori e dalle forme che vorrebbero essere inventati, sculture mobili appese a fili, come le Oceaniche o il triplice Sarcofago del 1974; qualche volta con improbabile ispirazione mistica come La ruota di S. Caterina del 1968 o La spina di Cristo e della Maddalena, del 1972; opere che forniscono come dato la pochezza dei materiali, stridenti con la ricchezza cromatica di cui si vestono. Gran spreco di spazio per, tutto sommato, poca cosa, che però ha fornito il pretesto mondano per una vernice frivola e affollata di personaggi che col loro garrulo cicaleccio accentuavano l’impressione di vanità di quei colori e di quelle forme degne di un carosello per la Coca Cola; non sempre si può bere Chateu d’Ygem!

Nino Cordio, un siciliano di quasi cinquant’anni, è un uomo maturo e un artista schietto e molto della sua personalità umana ed artistica si può capire attraverso l’esame del suo lavoro nel corso degli anni. Le sue opere sono piacevoli da guardare, accattivanti, talvolta un po’ ingenue e rivelano una grande capacità tecnica e uno spirito attento ed autonomo: suggestioni dei presente e del passato occhieggiano, inserite però sempre in una sintesi personale. Nature morte e paesaggio sono i soggetti preferiti, scelti però non a caso e raccontati con cura, a costruire una storia, fatta di colori e di luci, di amore e di ricordi. In questa mostra alla galleria d’arte Il Gabbiano, di via della Frezza 15 sono presentati tra l’altro recenti dodici affreschi, particolarmente interessanti e affascinanti per quel che di arcaico sanno suscitare nell’osservatore. Viene voglia di toccare e non solo di guardare quelle tavole massicce, incorniciate di legno grezzo, per meglio rendersi conto della concretezza di quei materiali che parevano dimenticati e si rivelano capaci di amichevole ed immediata poesia. Anche i soggetti di queste opere sono semplici cose, diversamente accostate: cipolle e melagrane, pane e granturco, arance e mele o sommessi paesaggi di felceti. Sicilia e Umbria sono i luoghi anche della mente oltre che della vita del pittore. Un tentativo che non ci ha del tutto convinti è quello delle sculture di legno nelle quali non ci pare ancora ben riuscito l’incontro tra l’artista, il materiale i soggetti prescelti; sono però qui presentate solo tre opere non recentissime, come se il discorso fosse stato lasciato in sospeso qualche tempo fa.