Psicoanalisi contro n. 20 – La sorgente della salute

marzo , 1986

Le parole sono una presenza costante ed ineliminabile: ci rapportiamo agli altri per mezzo di parole, i nostri stessi pensieri sono parole. Soltanto servendomi di parole io posso affermare che siamo circondati di parole. Brandelli di frasi ovunque. Nel pensiero, le parole si accavallano, si intrecciano, si dissolvono l’una nell’altra. Le frasi che pronunciamo o pensiamo non sono quasi mai complete: altri suoni le interrompono, altre esigenze, altri pensieri; eventi dentro e fuori di noi.
Si nasce in un gruppo sociale che possiede una propria lingua. Una lingua un po’ diversa da quella di altri gruppi. Ognuno poi ha il proprio stile, anche nel commettere errori, nello sbriciolare frasi, nel costruire architetture sintattiche che spesso risultano sghembe oppure assurde. Persino le persone più dotte e padrone di un linguaggio forbito usano, nel parlare quotidiano, espressioni un po’ sgangherate.
Le parole riempiono anche il silenzio: il monaco, isolato nella sua cella, solitario, ha la mente invasa dalle parole; non soltanto dalle preghiere che deve dire, ma da parole che vengono di lontano e che continuano a ruotargli dentro. «Adesso guardo il cielo», dice il monaco a se stesso, alza gli occhi, poi soggiunge: «Ma, però…» Monaco, attento non si dice: «Ma, però». Solo uno o solo l’altro; ricorda: te l’hanno insegnato, tanti anni or sono, a scuola, che ma è uguale a però. Per cui sarebbe come dire: «Ma, ma» oppure: «Però, però» Una iterazione assolutamente inutile. Fuori, nel prato, c’è un albero; quell’albero è immobile, senza parole, mentre il monaco continua a sentire nella testa brandelli di frasi che ruotano: la parola «albero» e la parola «quercia»… «ma..però.. quell’albero non è una quercia… che cosa è?» Di nuovo, nel silenzio, in mente, altre parole, che ruotano e scivolano inarrestabili.
Ho parlato di un monaco, ho parlato di me. Il fuoco nel camino scoppietta: sono parole, le parole del fuoco.

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Gli esseri umani parlano e hanno bisogno di parlare. È un bisogno che, talvolta, sorge irrefrenabile, magari perchè si è contenti, troppo contenti, e allora si vuole raccontare, dire. Oppure abbiamo incontrato un amico che… oppure siamo, finalmente, con la persona amata e ci vien voglia di parlare, di dirle tutto, crediamo di avere cose bellissime da narrare, pensieri acutissimi da comunicare.
Qualche volta, se ci pare di essere da troppo tempo inascoltati, se pensiamo che ciò che diciamo non venga preso abbastanza in considerazione, possiamo anche decidere di iniziare un trattamento psicoanalitico. Le ragioni che spingono ad iniziare una psicoterapia sono molte e di vario genere; alcune sono consapevoli e altre meno. Spesso è un disagio intenso e cocente, qualche altra volta è una voglia di capire; o un desiderio di acquistare potere attraverso quel bizzarro strumento che è la psicoanalisi; diciamo: potere su di noi, ma in realtà, più spesso, è desiderio di acquistare maggior potere sugli altri. C’è anche la voglia di essere, finalmente, ascoltati. Ci accorgiamo subito che parlare non è difficile, mentre è faticoso e pericoloso ascoltare. Le parole dell’analista ci colpiscono sferzanti, sono scomode e ci destrutturano. Ci sforziamo di pensare che, tutto sommato, quello che il terapeuta ci va dicendo, può, in fondo, tornarci utile, anche se ci fa soffrire, se ci toglie i punti di riferimento. Troviamo spesso riprese parole che noi stessi abbiamo detto e che avremmo preferito fossero lasciate cadere nel vuoto, galleggiare nell’aria della stanza. Invece quella sottolineatura le ha ingrandite a dismisura, come se fossero stampate a lettere di fuoco sulla nostra fronte e nella nostra coscienza. Ci accorgiamo che ci sarà da ballare. Siamo costretti ad ammettere la presenza di un ascoltatore reale, che ci ascolta davvero, che replica a quello che diciamo e che ci costringe a rispondere a nostra volta. Questa è la via della psicoanalisi, o meglio, una delle vie. Quali sono le altre?

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Coloro che hanno esperienza psicoanalitica, spesso, confessano di sentirsi a disagio quando si trovano a parlare con chi non ha mai fatto psicoanalisi. Non si tratta solo del fastidio che si prova nel venire gratuitamente attaccati per una propria scelta, ma di una vera e propria difficoltà a comunicare; difficoltà che non provano neppure quando si scontrano con persone che hanno fatto la loro analisi con terapeuti operanti in base a principi molto diversi da quelli su cui è stato basato il loro lavoro.
Nessuno scontro fra teorie diverse può infatti creare altrettanto disagio quanto se ne prova a confronto con chi non ha mai fatto analisi.
D’altra parte, coloro che non hanno mai fatto psicoanalisi sono pressoché unanimi nell’affermare che non è possibile nemmeno chiacchierare con chi ha fatto o sta facendo psicoanalisi: «Sono saccenti e anche quando non ti aggrediscono con interpretazioni e osservazioni sull’inconscio – per cui ti spiegano il perché e il per come di ogni tuo gesto, o cosa si nasconde dietro ogni tuo piccolo errore – pure, sempre, ti si presentano con aria sussiegosa, come se loro stessero vivendo un’esperienza importante e fondamentale, da cui tu, poveretto, mai toccato dalla grazia, sei escluso per sempre, confinato in un mondo inferiore. Loro ti passano accanto, alteri e benevoli, sempre profondamente irritanti».

Entrambi questi discorsi rispecchiano una realtà di fatto. È vero che la psicoanalisi è un’esperienza profonda e – ciò che conta – se fatta con onestà e correttezza, riesce a far vedere il mondo, gli altri e noi stessi in modo un po’ diverso; ma è anche vero che viene, spesso, usata come arma per difendersi e offendere, per aggredire e dominare; e ciò accade soprattutto – anche se non soltanto – quando l’analisi non ha svolto correttamente la sua funzione. Quando la «guarigione» non è stata completa, quando si è rimasti lontani dalla realizzazione di un contatto pieno e vitale con Eros. Chi, del resto, potrà mai possedere veramente Eros? Con le sue ali d’oro, egli, sempre, un poco ci sfuggirà, avvolto in una nebbia che lo nasconde e ci confonde.

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Dopo aver insegnato che cosa significa parlare per essere ascoltati e ascoltare per poter rispondere, dopo che, grazie ad un attento lavoro terapeutico, il dialogo diventa reale e non l’incontro tra i monologhi di alcuni e i silenzi di altri, la psicoanalisi deve anche insegnare a capire la struttura del linguaggio da cui siamo avvolti.
Quasi tutti parliamo, ma non sempre sappiamo cosa stiamo dicendo; o meglio: la forma linguistica in cui si calano i pensieri, i desideri, i messaggi, è quanto mai frammentaria, imperfetta e imprecisa. Non voglio dire che sia indispensabile fare come coloro che torniscono le parole, levigandole, facendole uscire di bocca con meticolosa attenzione: donne con voci sempre morbide e flautate e maschi che estraggono dall’ampio torace parole vibranti di tutti i loro armonici, gravi e sensuali. È indubbiamente molto piacevole abbandonarsi al gioco delle sonorità, purché, non faccia perdere il senso di ciò che si sta dicendo. Io parlo della difficoltà di fissare l’attenzione sulle parole. I nostri desideri sopraffanno le parole. Chi ha provato a correggere gli errori di una prima operazione di stampa, le cosiddette «bozze», si sarà accorto di come l’occhio, automaticamente, tenda a correggere, senza che il lettore li percepisca, errori anche macroscopici. La stessa cosa vale per il significato: si ascoltano realmente soltanto tre su dieci parole che ci vengono dette, il resto lo costruiamo. Anche quando siamo noi a parlare, non siamo ben consapevoli di quali parole stiamo usando; non solo commettiamo gravi errori, trasgredendo le regole della lingua, ma facciamo uscire dalle nostre labbra espressioni raffazzonate, schiave di contorcimenti che le rendono zoppicanti ed incerte. Si parla, quasi sempre, senza essere completamente autoconsapevoli, e così pure si ascolta, con l’orecchio e la mente altrove. La psicoanalisi deve anche insegnare a cogliere il significato dei termini che vengono usati nella comunicazione. C’è un solo modo vero di parlare; l’altro, confuso e impreciso, non è per niente più spontaneo, come alcuni pretendono che sia, è solo più brutto, ottuso e prigioniero di interne e non espresse intenzioni. Le parole non sono il vestito dei pensieri sono il modo in cui essi si rendono concreti. Frasi dette distrattamente e in modo frammentario sono frutto di una personalità complessivamente disarmonica e che a malapena tenta di costruire un’immagine accettabile di sé, appiccicando disordinatamente brandelli delle proprie maschere. Un linguaggio che fa sentire freddo.

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Chi è prigioniero dei cosiddetti rituali ossessivi, si sente, ed è, veramente ingabbiato: pensieri e gesti coatti lo costringono a sprecare energie, senza ottenere, apparentemente, nulla in cambio; eppure bisogna che questo gesto preceda quell’altro, che quegli oggetti siano tutti allineati; pensieri e immagini si affacciano alla mente con imperiosa violenza.
Nessuno è del tutto libero da gesti e pensieri che sembrano imposti da una forza misteriosa; ma vi sono alcune situazioni esistenziali in cui la vita sembra paralizzata da assurdi rituali e da giaculatorie mentali, che eternamente ritornano. Spesso tutto ciò sembra l’offerta dovuta a una terribile divinità. Si pensa: «Se non fai questo ti accadrà una disgrazia, o capiterà qualcosa a qualcuno che ti è caro». I gesti si ripetono, continuamente, e devono essere compiuti alla perfezione; la stanchezza aumenta. Proiezione ed espiazione; ma protezione da che? Qual è la colpa da espiare?
Ci sono anche coloro che sembrano liberi: i distratti e i disordinati. Costoro paiono affrontare la vita così come viene, senza l’imposizione di schemi o di comandi sotterranei. Intorno a loro c’è una caotica libertà: gli oggetti scompaiono e ricompaiono; costoro sono alla perenne ricerca delle chiavi, delle sigarette, di un libro. Se fanno la lista della spesa la lasciano a casa, non sono capaci di compilare un modulo, di elencare con ordine. Sembrano liberi, ma, osservati da vicino, risultano completamente schiavi del loro disordine, almeno quanto gli ossessivi sono vittime dei propri rituali. Il volto di questi campioni della confusione non è mai disteso, il loro parlare è concitato, se tacciono, rimuginano. Se guidano un’automobile, vanno troppo veloci quando dovrebbero rallentare e sono lentissimi quando sarebbe necessario muoversi con maggior speditezza. Studiano e non ricordano, dimenticano il nome degli amici e gli indirizzi, scordano il titolo dell’opera di cui vogliono parlare; confondono i giorni e gli orari degli spettacoli e dei treni, le loro mani cincischiano gli abiti nervosamente, prendono, posano e toccano gli oggetti in continuazione; i loro occhi scrutano inevitabili. Vittime di una spontaneità obbligata e finta che è la loro terribile prigionia, incapace però a proteggerli e nemmeno utile ad espiare. Resta solo la condanna inesorabile a una tensione continua, a una concitazione travolgente, a un caos che sconvolge tutta la vita. Ognuno di noi è prigioniero, poco o molto, di confusioni e di ossessioni; la libertà è, certo, per tutti lontana. Io non sono sicuro di sapere che cosa sia questa libertà di cui tanto si parla; so però cosa sono un gesto rilassato, un pensiero tranquillo, anche se emotivamente intenso. È bello fare lapsus e gesti distratti, scordarsi qualcosa. Soprattutto, è bello non sentirsi dominati da forze capaci di costringerci troppo a fare o a non fare, a ricordare o dimenticare. Forse anche questa disposizione d’animo dipende da meccanismi costrittivi interiori, ma l’importante è sentirsi, almeno un po’, in armonia col comportamento scelto; saper eventualmente giocare e sorridere anche delle coazioni e delle distrazioni. Ciò vale per i gesti importanti e per quelli futili di ogni giorno, vale anche per le parole. Ci sono persone che parlano sputando le parole con impressionante rapidità, una dopo l’altra, apparentemente strutturate, ma che risultano imprecise e poco adatte ai concetti che vogliono esprimere, non appena vengano analizzate nei loro rapporti logici e grammaticali. C’è chi balbetta o è affetto da altre forme di disturbo della verbalizzazione; c’è chi non riesce mai a concludere una frase. Parlare bene è difficile, quasi quanto vivere bene.

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È indubbiamente brutto dover ascoltare voci sgradevoli, pronunce viziate da eccessive inflessioni dialettali, espressioni prive di senso; ma non si tratta di un problema semplicemente estetico. Le disarmonie del linguaggio possono creare un disagio profondo; sono imperfezioni organiche, come una schiena cifotica, una pelle squamante, occhi cisposi, denti guasti; mali cui è doveroso tentare, sempre, di porre rimedio. Sarebbe certo un guaio se tutti parlassimo con la stessa voce, con la stessa precisa dizione, con lo stesso accento. Anche al di là della ricchezza che si esprime nelle parlate dialettali, è comunque bello che nella voce di ciascuno sia possibile leggerne la storia e se ne capisca l’origine. È bello che ogni voce sia personale, sono belle le variazioni di tono, le modulazioni. Fa piacere poter distinguere tra frasi secche e nervose ed altre più distese, o, addirittura, percepire la furia, oltre che la dolcezza, nel suono di una voce. È bello, infatti, avere una fisionomia, ma è brutto essere ammalati o deformi. Del resto, come è possibile essere ammalati in un punto solo della persona? La malattia ci coinvolge tutti, interamente. Mi accorgo di aver parlato finora del linguaggio, delle parole, come se fossero un elemento esterno, un involucro. In realtà non è così: l’ho detto un po’ per pigrizia, un po’ per ingenuità e un po’ per farmi capire; ma intendo dire che il linguaggio parlato è la persona, è uno dei modi in cui l’essere umano si costruisce, un fondamento del sé di fronte agli altri. Non è possibile analizzare il linguaggio parlato come se fosse un’organizzazione di segni, una serie di segnali, più o meno organica, che si può affrontare separatamente dall’analisi del significato, lasciando ad altri la cura di questo. La salute si esprime anche attraverso un linguaggio armonico. Si diventa sani sforzandosi di usare un linguaggio ricco e disteso. La spontaneità non consiste nel disordine. Si è spontanei solo se si è contenti e si è contenti solo quando non si è prigionieri di forze incontrollabili. La prigione può consistere in un cumulo di gesti solo apparentemente liberi, ma invece scoordinati, frutto di una profonda patologia che affonda le sue radici nell’essere o chissà dove.

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Uno dei sintomi sociali più evidenti di questa condizione patologica della parola è l’incapacità generale di affrontare la discussione. È, infatti assolutamente impossibile, almeno nel nostro mondo culturale, vedere un gruppo di persone che discutono intorno a un qualsiasi problema, intervenendo nella discussione una alla volta. Gli interlocutori possono essere, indifferentemente, le persone più educate o le più irascibili, sempre le frasi si accavalleranno e ciascuno dovrà continuamente lottare contro l’altro per poter finire di dire la frase che sta pronunciando, a sua volta richiamato all’ordine perché non ha lasciato che un altro finisse di dire quello che stava dicendo.
Questo tipo di disturbo collettivo è molto diffuso ed io dispero di riuscire a curare me stesso e gli altri. Significa forse che mi starebbe bene solo un mondo di discussioni paludate e rigide, come nei convegni, quando c’è un presidente dell’assemblea che dà, di volta in volta, la parola ai convenuti? Certamente no. Non desidero che ogni intervento in una discussione sia preceduto dal saluto agli «Illustri colleghi». Né il convegno né la rissa sono forme autentiche di dialogo. Il dialogo potrà instaurarsi quando tutti saranno un po’ più sani: chissà quando! Allora, forse, sapremo discutere con allegria, con pazienza e anche con irruenza e passione, senza sopraffare. Non sono dialoghi neppure quelli del grande Platone, ma lunghi monologhi, inframezzati dall’intercalare monotono: «Dici bene, o Socrate». Il grande poeta-filosofo aveva, anche lui, paura del confronto e dell’attesa.

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In analisi bisogna imparare a parlare. Forse è questa l’unica situazione in cui, lentamente, si impara a dialogare; ma questa condizione ideale si realizzerà solo quando analista e paziente saranno del tutto sani. Quando? Forse quando, lasciata la stanza dell’analisi si accorgeranno che:

«…il pino ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, strumenti
diversi
sotto innumerevoli dita».
(G. D’Annunzio, La pioggia nel pineto).

Allora, saranno capaci anche di parlare tra di loro: ma questa è una fantasia, un mito. La realtà è però qui ed oggi, in questa realtà bisogna imparare a diventare sano, anche parlando ed ascoltando in una seduta psicoanalitica.
Uno dei precetti della psicoanalisi più antica, e che io ritengo ancora abbastanza utile, è quello che esorta a dire le cose, così, come vengono in mente, a fare, cioè, «libere associazioni». Bisogna dire d’altro canto che tutti i pensieri, anche i più coatti, sono risultato di libere associazioni. Questa tecnica è molto utile operativamente; permette al pensiero di lasciarsi andare, di far seguire un’immagine ad un’altra. Questo risultato è però difficile da ottenere. Quasi sempre, il paziente invitato ad associare non fa che ripetere lo stesso racconto, o ribadire lo stesso concetto, tutt’al più con parole diverse. Allora l’analista si trova impegnato in un faticoso lavoro di addestramento: «Cosa ti fa venire in mente quel vaso?» «Ma, non saprei, era blu…» «No, non voglio dire il colore, o come era, cerca di associare qualcosa a quel vaso». «Mi viene in mente un vaso pesante». «E quel vaso pesante cosa ti fa venire in mente?» «Che era pesante, ed era su di un tavolino». «Questo lo hai già detto».
E difficile mettere in moto il meccanismo delle libere associazioni, perché è difficile lasciarsi andare. Per andare dove? Non si sa: ecco perché la libera associazione fa paura. Sarebbe, questo, il pensiero spontaneo? Sì e no, allo stesso tempo. Sì, perché quando si riesce ad associare liberamente vuol dire che si è sufficientemente rilassati e distesi e si ha il coraggio camminare con le proprie gambe, guardando senza troppa paura quello che affiora dall’inconscio. No, perché i pensieri e le immagini non rampollano le une dagli altri a caso, ma sono dirette da un principio che potrebbe essere veramente coercitivo e che rappresenterebbe quindi il massimo grado della mancanza di libertà.

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Allora è meglio andare non tanto alla ricerca di un’astratta libertà, ma piuttosto del proprio modo di sentirsi liberi. Bisogna anzitutto scoprire l’origine di quella forza misteriosa che ci costringe a dire quelle parole, ad essere così sconclusionati: la sorgente della malattia. Certo, dietro ogni malattia se ne scoprirà un’altra, e poi un’altra ancora. Ci sembrerà di avere dentro di noi soltanto motivazioni malate, solo forze patogene, che ci costringono. La salute sembra sempre più lontana. Quando questo succede ci si sente a disagio, si ha paura e si desidera fuggire, interrompendo la cura.
Un giorno, tanto tempo fa, un tale che era stato psicoanalista, mi disse: «Io ho smesso perché non sopportavo più di vedere soltanto e dappertutto malattia». Io rimasi un po’ turbato. Qualche volta, quella frase mi torna alla mente, ma poi mi accorgo che nel mio lavoro, mi capita di vedere, ogni tanto, profilarsi all’orizzonte, un po’ di salute; le parole di chi mi sta di fronte diventano più chiare e, ad un certo punto ci incontriamo, quasi ci scopriamo: un fenomeno che ha qualcosa del riconoscersi, un modo nuovo di parlare e di ascoltare. Questo è uno dei possibili percorsi verso la guarigione, ma vi sono anche altre vie. Indubbiamente scegliere una o l’altra delle strade può sembrare riduttivo per chi vuole scegliere la strada di tutte le guarigioni, l’unica. Io non la conosco e i miei strumenti sono ancora inadeguati a questo fine. Per ora, io riesco, appena, lentamente e con fatica, a trasformare alcune situazioni patologiche in situazioni di salute; attraverso l’uso di una tecnica che si serve anche della parola, in base a un meccanismo di domande e risposte; ma non soltanto. Guai se mi fermassi qui!