20 – Marzo ‘86

marzo , 1986

Heiner Muller è un autore tedesco contemporaneo di cui si fa un certo parlare, noto da noi per un suo Filottete che Glauco Mauri portò in scena per i teatri italiani abbinato alla tragedia di Sofocle. Ora allo Spazio Uno di vicolo dei Panieri 3 si rappresenta una sua Medea nella traduzione di Saverio Vertone.
Il testo, misero, dura poco meno di un’ora ed ha due difetti fondamentali: il primo difetto è una tronfia presunzione da cui scaturisce una accozzagliata di parole prive di senso e di buon gusto, che si rifà, se mai, a un ritrito espressionismo di scarto; il secondo difetto è che non ha nulla a che vedere con un copione teatrale, dipanandosi flaccido, inerte e senza architettura.

Un moderno Giasone arriva ad una spiaggia abbandonata, dove si addormenta tra i rifiuti, sdraiato sul relitto di una cassa di legno. Nel sonno gli appare l’incubo di una nera ombra femminile, con tre teste che parlano tre diverse lingue; per giustificare il fatto di essere Medea, gli strilla ogni tanto parole come: «Colchide» o «Corinto». Interrotto il sonno, il pover’uomo, sempre più tetro, se ne va concludendo che, secondo lui: «Le pietre e il sangue non hanno denti..» Affermazione pregnante, che riassume bene l’insignificanza del testo.
Chissà perché un serio e bravo uomo di teatro come Enrico Job, che noi conosciamo ed apprezziamo soprattutto come scenografo e costumista, ha accettato di compromettere la sua rispettabilità firmando anche la regia?
E’ riuscito comunque a svolgere un lavoro davvero egregio; dando allo spettacolo, oltre che credibilità, ritmo e consequenzialità visiva e acustica, aiutato dalle martellanti sonorità di Roberto Marafante che hanno scandito tutta la vicenda. Tra gli attori, il malcapitato Giasone non se l’è cavata molto male: Marcello Murru gli dava corpo, voce e movenze incisivi e appena incrinati da qualche acerba ingenuità espressiva.
La triplice Medea, immane ombra nera sospesa a mezz’aria, risultava figura efficace e, prescindendo dalla banalità del testo, affascinava per il gioco musicale delle tre lingue (italiano, greco moderno e tedesco) che si sovrapponevano, s’inseguivano, si stringevano in nodi che poi si scioglievano; dolci, violente, disperate e lubriche, ben accompagnate dal movimento del corpo unico e della triplice testa, danzanti. Un bell’effetto scenico realizzato con precisione e bravura da Manuela Morosini, Gudrun Gundlach e Antonia Forlani. Un ottimo lavoro, dunque quello della compagnia, ma secondo noi sprecato, a meno che non si voglia dar credito a tutte le pseudo-interpretazioni socio-intellettual-vetero-femministe che si potrebbero addurre a riempire la vuotezza del testo e che noi preferiamo risparmiarci e risparmiarvi.