Archivio di maggio 1985

Psicoanalisi contro n. 13 – Contro la rassegnazione

lunedì, 13 maggio 1985

Tutti gli esseri umani, da sempre, ricercano soltanto la felicità. Questa è un’affermazione semplice. Secondo me, esprime una verità inequivocabile, forse l’unica verità che sia realmente esprimibile. Ho detto «forse», quindi l’incertezza getta la sua ombra anche su questa frase così semplice. Nonostante ciò, sono convinto che sia l’unica affermazione assolutamente vera, d’una verità immediata, così palpabile che fa paura. Non c’è bisogno di costruire complesse dimostrazioni, basta ascoltare, o meglio sentire, ed ogni essere umano si accorgerà che cerca soltanto di essere felice. La felicità può realizzarsi in un piccolo piacere immediato: accarezzare i capelli della persona amata, bere un bicchiere di acqua fresca quando si ha sete, oppure, ancora, può essere rinviata alla speranza della vita eterna, oppure la si può trovare nella fantasia che ci fa essere eroi gloriosi e potenti. «Che strana cosa, disse, o amici, sembra essere questo che gli uomini chiamano piacere! E che meravigliosa natura è la sua in relazione a quello che sembra essere il suo contrario, il dolore! (…) Come appunto sembra che sia seguito anche a me: ché mentre prima, sotto il peso della catena, c’era nella mia gamba il dolore, ecco che già sento a quello venir dietro il piacere». (Cfr. Platone, Fedone, III) Spesso il piacere sorge da un disagio: la quiete dopo la tempesta. La quiete fa piacere perché prima c’è stato l’uragano; ma è ancora da dimostrarsi che l’uragano sia sgradevole! Ci sono situazioni di sofferenza che l’uomo continuamente tende a superare per raggiungere il piacere; quando non riesce ad ottenerlo può adattarsi alla sofferenza cercando di gustarla come se fosse gioia. Piacere, gioia, felicità: è impossibile definire ciò che sta dietro a queste tre parole; semplicemente sappiamo che ci muoviamo soltanto per il piacere, per la gioia e per la felicità. Ecco il rigorismo dei moralisti: guai a coloro che perseguono soltanto il piacere e lo fanno coincidere con il sommo bene. Questi moralisti affermano che coloro i quali hanno sostenuto che l’uomo non può far altro che ricercare la gioia, la felicità, in ultima analisi il piacere, sono filosofi empi ed immorali, poco degni di servire la filosofia. La filosofia tende alle supreme sfere della verità: la vita non può essere soltanto ricerca del piacere; deve essere qualcosa di più grande: ricerca della giustizia; come se la giustizia dovesse essere cosa sgradevole. Ricerca di Dio; come se Dio dovesse essere sgradevole. Ricerca della verità: la verità in effetti potrebbe essere sgradevole, ma non la sua ricerca; e una volta che la si è trovata, se è sgradevole, cosa ci rimane? Ci rimane il bisogno di trovare un’altra verità, o di abbattere questa, con l’obiettivo, però, di giungere ancora al piacere.

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Io ritengo che l’amore realizzi il piacere più profondo. Può darsi che dica questo perché ho paura di dire che la mia vita non è altro che ricerca del piacere; ma non ritengo che tentare di nobilitare il nostro piacere sia in contraddizione con il principio fondamentale che regge ogni vita, da sempre. In quanto esseri umani non possiamo fare che ricercare il piacere che coincide con la felicità. C’è una ragione profonda per cui gli esseri umani hanno paura dell’affermazione che ho appena fatto, semplice, drastica nella sua nuda immediatezza; questa ragione scaturisce da una paura misteriosa che aleggia dentro ogni uomo; gli antichi l’avevano espressa con una bellissima formula: gli dèi sono invidiosi della felicità umana; se sei felice il dio ti invidia perché tu hai strappato a lui con empietà una sua prerogativa e ben presto, perciò, farà calare dall’alto la sua punizione; come se godere fosse una colpa. È pur vero che alla ricerca del piacere gli esseri umani non esitano a compiere delitti terribili; ma perché il godimento in sé dovrebbe essere un male? Sono pochi gli uomini che sanno assaporare il piacere e la felicità senza una, seppur leggera, sensazione di disagio, senza sentirsi anche un po’ in colpa; in colpa perché? Perché sono tante le sofferenze intorno a noi, perché sappiamo che la felicità senza una, seppur leggera, sensazione di disagio, senza sentirsi anche un po’ in colpa; in colpa perché? Perché sono tante le sofferenze intorno a noi, perché sappiamo che la felicità è fragile, fragilissima, ed è vero che sfuma con estrema rapidità, che può essere continuamente contraddetta, che può essere mista a disagi, sofferenze. Però la felicità esiste, talvolta ce la siamo sentita addosso. Il piacere guida continuamente ogni nostro gesto; nessuno, ma proprio nessuno, cerca volontariamente il dolore, il dolore in se stesso. Certo, una simile affermazione così chiara e semplice, di fatto è troppo poco, bisogna completarla. È giusto chiedersi quali piaceri e quale felicità. Vivere consiste anche nel lottare per realizzare un tipo di felicità contro un altro; allora, possono esistere due, tre, quattro felicità? In un certo senso sì, in quanto le felicità sono tante quante sono gli esseri umani, o meglio quanti sono gli istanti di vita di ogni essere umano. Per un altro verso la felicità è una, come il bene platonico, assolutamente indivisibile. La felicità è la felicità e basta: tautologia che sta a fondamento.

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Un aspetto ributtante del moralismo espresso dalla nostra cultura è l’esortazione alla rassegnazione. La morale della rassegnazione è quanto di più squallido, volgare e in ultima analisi immorale abbia prodotto il senso comune. In realtà, per fortuna, nessuno realmente si rassegna, anche se si cerca di insegnare la rassegnazione agli altri. Nei proverbi popolari e nelle omelie la rassegnazione è esaltata. Alcuni terapeuti della psiche, addirittura, fanno coincidere la rassegnazione con la guarigione, chiamandola «senso di realtà». È indubbiamente sano avere la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie possibilità; la realtà ha pur un significato sebbene ambiguo, ma troppo spesso la terapia tenta di smorzare le ribellioni e di reintegrare. Si è detto molto, anche troppo, e anche troppe sciocchezze sul fatto che spesso il terapeuta è un maestro di conformismo, che nel suo tentativo di attutire i conflitti e di far superare le contraddizioni che procurano angoscia, contribuisce ad appiattire il significato esistenziale del suo paziente, facendone un individuo più tranquillo, ma anche più ottuso e conformista. Questa affermazione è vera soltanto in parte; poiché in realtà, fin dal suo inizio, la psicoanalisi riuscì a smuovere tali e tante presenze nascoste, desideri innominabili, che la pur tanto auspicata, dallo stesso terapeuta, reintegrazione nella dinamica di una società normale, divenne obbiettivo assai difficile da raggiungere. Indubbiamente un terapeuta con una visione del mondo opaca, piatta e tradizionale metterà in luce alcuni aspetti e ne lascerà in ombra altri rendendo più quieto, sciocco e vacuo il suo paziente, che allora ricomincerà a vivere nella inconsapevolezza. Sebbene abbia sfiorato verità splendenti e terribili, la sua piccola strada analitica lo ha portato altrove. Non lo ha portato verso la guarigione: chi è sano non si rassegna mai, vuole andare ancora, sempre, oltre e contro. Contro, appunto, la rassegnazione.

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Finalmente, a venticinque anni, si decise a tentare anche la strada della psicoanalisi. I sintomi, negli ultimi quattro anni, erano diventati veramente pesanti: consistevano in un terribile mal di testa che insorgeva improvvisamente, refrattario il più delle volte all’aggressione degli analgesici anche potenti. I dolori al capo erano incominciati dagli occhi e lentamente si erano estesi a tutta la fronte e poi alla volta cranica e infine a tutta la testa, tanto che le dolevano anche le mascelle. Nelle crisi più forti doveva sdraiarsi ma con la testa non troppo bassa, doveva chiudere gli occhi e non poteva tollerare il benché minimo rumore, tanto che quelli che, malgrado tutto, trapelavano, provenienti dalla strada, le procuravano sensazioni dolorosissime, come se le si conficcassero nel cervello e poi esplodessero. Il pensiero non perdeva lucidità, ma era tanto stanca, non le riusciva di studiare, non aveva voglia di parlare, tutto era faticosissimo e lei diventava irascibile, intrattabile. I familiari temevano quei momenti, perché, oltretutto, vedevano quasi paralizzata la loro vita: si dovevano muovere in punta di piedi, non potevano usare elettrodomestici, accendere radio, televisore o giradischi; guai se una porta veniva chiusa troppo violentemente o se un oggetto cadeva: erano urla, strilli, pianti, recriminazioni. Quel terribile dolore nella testa la rendeva tirannica, ingiusta e cattiva, ne era consapevole. Raccontava delle sue sfuriate ai familiari per ogni più piccola cosa con atteggiamento mesto, compunto, ammettendo esplicitamente di essere insopportabile e che i suoi avevano proprio ragione ad essere esasperati. Sotto, sotto si sentiva però una grande soddisfazione, ma molto lontana, quasi impercettibile, il rammarico era anche sincero. C’erano poi i cosiddetti rituali ossessivi che l’avevano rinchiusa in una morsa terribile. Quelli non davano tregua. I dolori al capo, almeno qualche volta scomparivano lasciando una sensazione di euforia gradevole e poi un ricordo lontano, come se il male non ci fosse mai stato.

I rituali, al contrario, erano sempre lì. Come apriva gli occhi al mattino, a stento, perché la inchiodava un sonno di piombo, già i primissimi movimenti le erano imposti: bisognava scendere dal letto sempre da quella stessa parte, controllare che gli oggetti sul comodino, nella notte, non si fossero spostati e guardare intorno per verificare che tutto fosse come prima, come la sera precedente; poi le abluzioni in bagno, lunghe, lente, esasperanti. Prima bisognava lavare certe parti del corpo, poi certe altre e poi pulire il bagno con cura, perché neanche una goccia imperlasse il bordo della vasca o del lavandino e tutti gli oggetti andavano ordinati al loro posto. Era indispensabile una stanza da bagno soltanto per lei; nessun altro vi poteva entrare; i restanti membri della famiglia: il padre, la madre, un fratello e una zia erano relegati nel secondo bagno, con tutte le loro cose ammucchiate, insieme con la lavatrice e le ceste per i panni e lo stenditoio; guai se qualcuno entrava nel «suo» bagno, le prime volte avevano provato a farlo di nascosto, quando lei era fuori, ma se ne accorgeva sempre e allora erano tragedie. Poi bisognava riordinare la camera, spianare bene le coperte, che non facessero una grinza, mettere tutto in ordine; e le ore passavano e la stanchezza aumentava. Vi erano alcune parti della casa che poteva pulire soltanto lei, con meticolosa precisione. Le sue cose, i suoi vestiti, i suoi libri nessuno li poteva toccare o spostare. Per strada era un tormento, dover fare attenzione che nessuno la sfiorasse; non poté più prendere i mezzi di trasporto pubblici, poteva telefonare soltanto usando l’apparecchio di casa sua; al bar o al ristorante non toccava quasi nulla, con le mani o con le labbra: introduceva in bocca il cibo, cercando di non sfiorare il metallo della posata. La sera i rituali sembravano accanirsi contro di lei per impedirle di andare a dormire. Uno fra questi era a suo avviso particolarmente assurdo: nel salotto, sopra un mobile, c’era una statuetta che aveva una forma che le pareva coincidere con un disegno della tappezzeria alle pareti; prima di andare a letto l’ultimo gesto doveva essere di mettere quella statuetta in modo che guardando dalla porta risultasse perfettamente inserita nel disegno della carta da parati; da quel punto di osservazione controllava con attenzione e tornava più volte a spostare la statuina che non le sembrava coincidere a sufficienza col disegno, una volta dopo l’altra, e ancora e ancora, mentre nella mente si formava il pensiero che se non le fosse riuscita perfettamente l’operazione, se fosse andata a dormire senza aver raggiunto in pieno lo scopo, le sarebbe successa questa o quella disgrazia. Le venivano in mente idee terribili, pensava a punizioni. Che dovevano venire da chi? Lei non era religiosa, era atea, profondamente atea, assolutamente convinta della non esistenza di qualche ente supremo; quindi, chi poteva punirla? Eppure, se non riusciva a compiere uno dei gesti obbligati, se tentava di ribellarsi a quella imposizione, ecco che si faceva sentire una voce che le diceva: «Sarai punita!» Punita perché? Quale colpa aveva commesso? Punita da chi? Eppure la voce ripeteva inesorabile: «Sarai punita!». Qualche volta lei diceva: «No, non lo faccio». Allora di dentro le sorgeva un’ansia, un disagio, una paura; diventava ancora più circospetta, in attesa della punizione. Qualche volta la punizione era realmente giunta: dopo una sua ribellione a qualche rituale, era successo qualcosa di sgradevole; spesso proprio la realizzazione di ciò che la voce aveva minacciato. Certo, alcune altre volte ciò non era successo, però le sembrava che non fossero soltanto coincidenze. «Ma allora sono pazza? Io sento che questi rituali sono assurdi, sono una malattia». E lo diceva convinta, col suo fare compunto di ragazza seria e bene. Quando però parlava del disgusto che le procurava toccare la cornetta di un telefono pubblico; del disagio nell’essere sfiorata da qualcuno, si sentiva che, sotto sotto, lo riteneva ovvio, scontato: c’è tanta gente che puzza, che è sporca. «Però io sono esagerata, questi sono sintomi, io sono malata, molto malata e i miei familiari sono esasperati ed hanno ragione; mi accusano di essere debole; si accusano di avermi viziata troppo; ma loro non sanno…». Nel dire questo si ergeva un po’ con un gesto regale e imperioso. «…ma loro non sanno quanto io soffro; quindi mi debbono obbedire». Oppure accasciandosi: «Poveracci anche loro».

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Aveva dovuto interrompere gli studi, anche perché non riusciva mai a leggere più di tre o quattro pagine di seguito, doveva sempre tornare indietro e ripetere, controllare se aveva dimenticato qualcosa; e poi faceva schemi, schemi su schemi, per ricordare, ricordare tutto; e poi i riassunti; i riassunti erano spesso più lunghi del testo che riassumevano. Le piaceva la biologia, la affascinava; ma dopo alcuni esami all’università, esami sostenuti con grande successo, aveva dovuto smettere.
Era sempre stata ossessiva; sua madre racconta che da piccola, piccolissima era molto ordinata, guai se gli abiti erano sgualciti o avevano una macchia e così i suoi giocattoli, ordinati e puliti, nessuno poteva toccarli; però non era certo allora una cosa così tormentosa, pareva una ragazza precisa, forse un po’ pignola. Il fratello aveva due anni meno di lei, era un bellissimo ragazzo, lui sì che era felice, allegro, spensierato; aveva tanti amici. I genitori non avevano mai discriminato tra loro due, quel che poteva fare il maschio lo poteva fare anche la femmina; eppure lei provava, da sempre, un’invidia terribile per il fratello. Quando era piccolo, lo tormentava, era imperiosa, gli si imponeva, gli dava ordini continuamente; lui era abbastanza obbediente, cercava soltanto di sfuggirle un po’, eppure lei lo ha sempre invidiato. Parlava di un grande amore verso il fratello; ma anche qui in lontananza si sentivano esplodere pensieri di odio, un odio tenace e implacabile. A fatica, confessò che, quando era piccola, desiderava che il fratello morisse; le era venuto in mente mentre raccontava con attenzione i rituali: tra le disgrazie che la voce le minacciava, se non avesse compiuto il rito, c’era la morte del fratello, pensiero che la terrorizzava. Questa morte l’aveva anche molto desiderata e pensata consciamente e attentamente; aveva perfino fantasticato, e se lo ricordava benissimo, il modo di ucciderlo, poi se n’era spaventata, anche allora e aveva cercato di non pensarci più. «Però le mie disgrazie sono legate a lui, perché? Non lo posso dire, non ho il coraggio di dirlo, forse non ne ho il diritto». Io mi misi pazientemente ad aspettare, ancora ricordi, sogni, sogni terribili, pieni di aggressioni e di aggressività, e poi le solite lamentele, il racconto ostinato dei rituali, delle minacce da parte della voce interna. Finalmente un giorno si decise, mi disse: «Tutto cominciò quattro anni fa, entrai nella camera di mio fratello, credevo che stesse studiando con un suo amico, invece erano sdraiati sul letto e si baciavano; lui era sotto, mi guardò, quasi sorridendo, io inorridita richiusi la porta, ebbi il primo attacco di mal di testa».

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Questa è una storia come tante, affascinante come è affascinante la vita di ogni essere umano. Lo psicoanalista deve sapersi immergere in essa, abbandonarsi al racconto dell’altro, cercare di percepire e di rivivere in sé le sensazioni, le immagini. Senza dubbio, proietterà molto di suo, sovrapporrà sue sensazioni alle sensazioni di chi gli parla. Quando sente dire «una domenica di sole» deve saper ritrovare in sé emozioni, odori, malinconie, struggimenti, allegrie proprie delle sue domeniche assolate; ma che abbiano qualche cosa anche delle emozioni che gli vengono raccontate. Calarsi nella vita di un altro può essere difficilissimo, se si è ammalati, cioè se si è chiusi nelle proprie difese, se il narcisismo e il sadomasochismo costruiscono un velo compatto e rigido nei confronti degli altri e del mondo, altrimenti è facilissimo. Ogni seduta analitica è un frammento di vita altrui vissuta insieme: le emozioni e i pensieri si confondono. L’analista deve sempre saper distinguere tra ciò che è suo e ciò che è dell’altro; e poi, nuovamente sapersi confondere. Si accorgerà, fin dai primi incontri, che l’altro si comporta con lui come se egli fosse questa o quella persona che fanno parte di una vita che prima non è sua ma che poi diventerà anche sua. La vita del paziente lentamente si trasforma in qualcosa che appartiene anche all’analista pur restando la vita di un altro. Nella storia che ho raccontato il trauma immediato sembra evidente, anzi lo è, e la reazione è comprensibile: questa ragazza che ha assorbito i valori fondamentali della società in cui è nata, che non si è mai posta molti problemi, scopre improvvisamente che il fratello ammirato ed, anche, con tutte le ambivalenze, profondamente amato, è omosessuale e ne resta profondamente turbata; forse non è giusto, forse non dovrebbe essere così; però questo in realtà è solo l’ultimo episodio di una serie di avvenimenti che la hanno strutturata. Perché quei rituali che la imprigionano? Più ragioni contribuiscono a scrivere il copione di quei gesti, che confluiscono in un unico meccanismo difensivo. Il sadismo la porta a voler punire il fratello: non gli aveva mai perdonato di esistere, di sottrarle spazio con la sua presenza; e poi ancora non gli aveva mai perdonato di essere buono e bello, troppo buono e troppo bello; ma soprattutto non gli aveva mai perdonato di essere maschio. La liberalità dei genitori, indubbiamente encomiabile, risultò per lei terribile; perché il fratello non aveva privilegi? Avrebbe dovuto avere privilegi, perché era maschio, così voleva la società, così dicevano le sue amichette, se il fratello maschio fosse stato anche nella sua famiglia coccolato, privilegiato, se gli fossero state permesse cose che a lei erano proibite, avrebbe potuto tranquillamente prima invidiarlo e poi odiarlo; era invece rimasto libero un odio senza ragione, un’invidia per lui perché era maschio e basta; probabilmente le giunsero anche messaggi inconsci dagli stessi genitori: quel fallo era prezioso, un ornamento; eppure i genitori non volevano differenze; da sempre la madre le diceva: lui ha il pisello e tu hai la passerina; non c’è differenza, tu hai una cosa e lui ne ha un’altra, hanno lo stesso valore; e lei diceva: sì; ma non ci credeva.

Questa uguaglianza, per lei fu una condanna ad invidiare senza ragione; e poi l’invidia aumentò quando lui cominciò a giocare giochi da maschi, cui lei avrebbe voluto partecipare, ad appartarsi con i suoi amici. Lei rifiutava le sue amiche, non voleva i loro giochi; lei voleva andare con il fratello; ma gli amici di lui glielo rapivano; ed i genitori, soprattutto la madre, pacata e democratica, quando la scorgevano, irosa, tormentarsi per l’esclusione le dicevano: «Tuo fratello è libero di giocare con chi vuole. Lo sei anche tu; scegliti altri amici maschi». Ma lei non voleva gli altri maschi, voleva il fratello e i suoi amici, ma loro le sfuggivano. Ecco allora, le sue vendette, il suo bisogno di punire. I rituali non imprigionano soltanto lei, ma tutta la famiglia: fratello, padre, madre e … bisogna obbedirle: «Dovete soffrire per quello che non mi avete dato, per quello che lui ha avuto; dovete espiare soprattutto anche per la vostra tolleranza, che non mi ha permesso di odiarlo tranquillamente, per non aver commesso ingiustizie, per aver detto che io ero uguale a lui, che la mia passerina era uguale al suo pisello. Non è vero e io non voglio che sia vero, quindi dovrete essere puniti, prigionieri con me di questi gesti tremendi e feroci». Ed ecco il senso di colpa insieme con il bisogno di espiare. Ma la sofferenza non è mai ricercata per se stessa, deve trasformarsi in piacere; al sadismo si aggiunge quindi il masochismo: piacere di soffrire. In un gioco interminabile di proiezioni ed identificazioni le vendette, le sofferenze e i piaceri si mescolano.
I rituali hanno anche un’altra funzione difensiva: tengono lontani dalla coscienza i pensieri aggressivi nella loro immediatezza. Senza quei rituali, una folla di idee, pensieri, fantasie e desideri irromperebbero nella coscienza sommergendola: sarebbe lei stessa tutto ciò; conoscerebbe prima la depressione e poi forse la follia; questo lei lo sa, anche se non se lo è mai detto.

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Venne poi fuori chiara, esplicita, la sua voglia, da sempre, di essere maschio; ma non per rapportarsi alla madre, per la quale provava una sottile e indescrivibile nausea, e neppure per identificarsi col padre. Perché il padre non era ammirato? Perché aveva ceduto quel pisello, quel fallo, alla madre! Avrebbe dovuto darlo a lei, invece, ma soprattutto avrebbe dovuto tenerlo per sé, o forse darlo ad altri maschi, proprio come aveva fatto il fratello. Qui era il nodo di tutta l’analisi; qui un’esplosione spaventosa.
Era primavera, mi portò una scatola di cioccolatini, mi disse: «Sono molto buoni, mi piacciono, spesso me li compro e li mangio, di nascosto: non so perché di nascosto, nessuno mi direbbe nulla, eppure non voglio che lo sappiano, che mi vedano; neppure il mio ragazzo lo deve sapere, eccoli, sono per te».
Io la ringraziai posando sul tavolo la scatola poi soggiunsi: «Però c’è qualcosa di amaro che stai per dirmi».
Ci pensai un po’ e mi accorsi di aver detto una sciocchezza, mi corressi: «No, che tu vorresti che fosse amaro e invece è peggio». Fu un periodo veramente pesante e sconvolgente per lei.
Si accorse che forse da sempre avrebbe voluto essere un maschio, che va con altri maschi: il fratello l’aveva espropriata anche di questo, cioè di tutto.
La ricostruzione fu lenta, dolorosa, poi quieta e poi anche allegra, però quei cioccolatini continuano a piacerle e io non capisco perché.

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I rituali non sono ancora scomparsi ma si sono attenuati, così il mal di testa arriva ad intervalli sempre più ampi.
Ha parlato del fratello, dell’omosessualità. Questa è una storia che sembra chiara ma è molto oscura. Tante cose restano ancora da sapere. Ho raccontato di un lavoro che è in sviluppo, una strada che stiamo ancora percorrendo insieme; ma le cose principali sono state dette, sono state vissute. Certo, molto qui non è stato detto e altro ho potuto solo accennarlo. Ma questa storia sembra avere un senso, uno sviluppo, si può prevedere una conclusione felice; quella persona però poteva scegliere solo questa strada dopo aver aperto quella porta?
Un problema che non si risolverà mai. I gesti sono tutti frutto di una storia che affonda nel passato. Tutti i gesti: quelli che ci fanno soffrire e quelli che ci fanno godere, non sapremo mai se sono liberi o prigionieri di un meccanismo che ci trascende, che ci imprigiona; forse sarebbe inutile saperlo. Quello che mi preme adesso sottolineare è che questa è una storia diversa e simile a tante altre; la storia di persone che incontro, che lavorano con me, che io lentamente imparo a conoscere e ad amare, perché soltanto se le amo riesco a lottare insieme con loro e soltanto se loro mi amano riusciamo insieme a lottare.
Qualche volta loro riescono a guarire per me.
C’è ancora un’osservazione che voglio fare a conclusione di queste mie righe: il cosiddetto disagio psichico non ha bersagli preferiti socialmente. Il disagio più o meno grave, fino alla follia, può insorgere con la stessa frequenza e intensità sia nel maschio sia nella femmina, nel giovane e nell’anziano, nel ricco o nel povero, nel colto o nell’ignorante, nel cittadino e nel paesano; negli sfruttatori e negli sfruttati: la stessa incidenza; ed è proprio una banale osservazione statistica che mi fa dire questo e mi lascia perplesso; ma dietro a questa perplessità c’è il mio desiderio di capire perché.
Quindi il lavoro continua.

13 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

L’idea da cui parte Jean Luc Godard è vecchia quasi quanto il mondo e altrettanto diffusa:ogni epoca ed ogni popolo hanno voluto rappresentare gli antichi miti a loro immagine e somiglianza; la storia della Natività di Gesù in particolare è stata raccontata fin dai tempi delle sacre rappresentazioni del meiioevo secondo i modi e i costumi del tempo, e non c’è presepio, da quello d’arte del settecento napoletano fino a quello casalingo di oggi, che non abbia fatto i dovuti aggiornamenti. Così è scontato che la versione contemporanea della Madonna possa essere resa da una bella ragazza che si passa il rossetto sulle labbra ed ha per fidanzato Giuseppe, che fa il tassista. Non si può dire per questo che il film sia blasfemo; anzi, da esso traspare un sentimento di religiosità profonda, che noi crediamo anche sincera. Ma si deve dire che è un film imbecille, dilettantesco e noioso.

Il Maestro svizzero fa precedere la sua opera dall’operina Il libro di Maria realizzata dalla sua allieva Anne Marie Mieville che gratuitamente e senza costrutto alcuno ci mostra un bimba autistica di nome Maria, i cui litigiosi genitori stanno divorziando, immersa in giochini ripetitivi e dissennati. Dopo il preambolo arriva Lui con il suo Je vous salue Marie, vera e propria storia dell’Ave Maria in cui viene grosso modo rispettato l’andamento della vicenda evangelica, salvo qualche lacuna culturale e qualche vuoto di memoria e con punte esilaranti per qualche scena presentata con tronfia serietà. Gabriele arriva e parte in jet e non si perita di prendere a schiaffoni il povero Giuseppe a cui l’annunciazione non ha fatto proprio piacere; Maria, un po’ sadicamente mostra con insistenza il pube al fidanzato prima e al marito poi, ma gli fa scenate isteriche se lui tenta di toccarla – eccetto far verificare a lui e al ginecologo l’effettiva verginità. Il bambino nasce proprio a Natale, mentre la neve copre il distributore di benzina del nonno, i genitori sono moderni e lei non si perita di mostrarsi nuda al figlioletto suscitando la riprovazione di Giuseppe, che è un moralista. Il piccolo Gesù è una peste, prepotente con i suoi compagni di giochi cui con grande anticipo sul suo predecessore storico pretendendo di cambiare il nome da Fabien a Pietro e via dicendo, pur di rispondere male a suo padre fa’ poi un salto nel vecchio testamento asserendo che lui «è colui che è»; infine si allontana durante una gita in campagna, per curare i suoi affari; Giuseppe si preoccupa, ma la sposa Maria lo rassicura: tornerà, magari a Pasqua. Nella vicenda trova il suo spazio anche un professore che dimostra alla sua scolaresca l’esistenza di Dio ed ha rapporti sessuali con una allieva di nome Eva. Tutti mangiano molte mele.
Quello che colpisce è l’incapacità di Godard di comporre un racconto cinematografico: il film è monotono con ripetizioni ed infastidisce per un montaggio molto spezzato, che ottiene il risultato di smozzicare il racconto e umilia la colonna sonora ricca di citazioni, interrotte malamente, di Bach, Chopin, Mahler e Dvorak.

Resta ingiudicabile la prestazione degli attori e proprio risulta inspiegabile la grande campagna promozionale che al film dello svizzero e protestante Godard hanno fatto, su opposte barricate, Giovanni Paolo II e i gesuiti.

Psicoanalisi contro n. 13 – In difesa dei ravanelli

mercoledì, 1 maggio 1985

Ogni religione ha i suoi riti, più o meno fastosi e complicati; ogni religione ha le sue verità assolute in nome delle quali impone ai fedeli un credo, una morale, regole di vita. Tra i precetti ve ne sono molti che si riferiscono all’alimentazione: alcuni cibi si possono mangiare e altri no, alcuni sono proibiti in determinati periodi dell’anno; ci sono anche prescrizioni sui rituali da seguire nelle preparazioni e nella cucina di molti ingredienti. È sempre apparso che tutto questo obbedisse a precise esigenze di carattere igienico: si tratti di norme di carattere generale, come i digiuni, utili ad alleggerire il superlavoro dell’organismo, o l’astinenza da alcuni cibi, chiaramente proscritti, di volta in volta, con riferimento all’ambiente e al sistema generale di vita di particolari popolazioni. Così sono spiegate anche le regole sulla manipolazione, che variano secondo le zone climatiche e geografiche. Le stesse regole sono raccomandate anche dalla medicina, che pure non si appoggia all’autorità religiosa.

La scienza dietetica, poi, è ricca di fantasia e raccomanda ed inventa diete, le più diverse tra loro, talvolta accompagnando le raccomandazioni con analisi delle patologie che impongono, di volta in volta, la riduzione o l’eliminazione di alcune sostanze. La storia della dietologia è disseminata di bizzarre prescrizioni alimentari, ed anche oggi che la scienza dell’alimentazione sembra così avanzata i sapienti non sono per nulla concordi sulle raccomandazioni e sulle prescrizioni. Non soltanto proliferano diete dimagranti bizzarre e contraddittorie tra loro, fondate su principi scientifici addirittura opposti gli uni agli altri; ma anche i più generali principi dietetici considerati utili al mantenimento di uno stato di buona salute mutano quanto mai rapidamente.
Che in alcune parti del mondo si mangi troppo è vero, così come in altre troppo poco. Dappertutto, forse, si mangia in modo poco salutare. In questa situazione, poi, l’industria alimentare sottilmente avvelena cibi che più o meno sotto vuoto spinto si presentano sempre più belli e carichi di mortali sostanze. Le mele un po’ striminzite, quelle verdi dentro, si dice siano le migliori perché non hanno subito troppi trattamenti e non sono state ricoperte di sostanze venefiche. La mela, l’antico frutto della fiaba di Biancaneve, quanto più è rossa, lucente, grande, tanto più è dannosa.

Ricordate Pinocchio che, schizzinoso, aveva voluto sbucciare la pera per mangiarne soltanto la polpa, poi preso dalla fame ne aveva mangiato anche il torsolo e le bucce? Racconto quanto mai educativo, allora; nella buccia della frutta si trovano le sostanze più benefiche, e inoltre le scorie che contribuiscono a ben spazzare gli intestini. Ma ora ai bambini bisogna raccontare un’altra fiaba: la buccia bisogna toglierla; non basta neppure più lavarla, la frutta. I veleni penetrano in fondo; bisogna asportarne tutta la parte superiore. Caro Pinocchio, se sei un bravo bambino obbediente, sbuccia la tua pera che il sole non è riuscito a purificare. Persino la pioggia che l’ha bagnata, spesso, era carica di sostanze venefiche. Caro Pinocchio, in questa situazione devi stare quanto mai attento ed accorto. Impara che questo si può mangiare e quell’altro no. Ma che cosa non si può mangiare, e che cosa si deve mangiare? Da sempre le carni degli animali viventi sono sottoposte a molte regolamentazioni. La carne umana, per lo più, è vietata agli uomini stessi; e poi, molti precetti e limitazioni si trovano intorno agli animali che vivono sulla terra o volano nell’aria, o guizzano nell’acqua. Probabilmente la nostra alimentazione è troppo ricca di carne ed è squilibrata. Alcuni dicono che mangiare i cadaveri fa sempre male: aumenta l’aggressività e produce una grande quantità di malattie. Per essere sani bisognerebbe essere vegetariani, così dicono molti. Alcuni sostengono ciò solamente per ragioni igieniche di sano equilibrio psichico﷓fisico; altri lo dicono per ragioni morali, affermando che non bisogna mai uccidere. Alcuni si appoggiano su considerazioni metafisiche, altri più strettamente etiche: l’uomo non soltanto non deve uccidere il proprio simile per divorarlo, ma neppure gli altri esseri viventi che vogliono vivere quanto lui.
L’uomo non ha il diritto di uccidere per poter sopravvivere. Questa è una affermazione che mi trova completamente d’accordo: non si deve mai uccidere. La vita non è soltanto bella, è anche sacra. La divinità ne è garante; la vita deve essere difesa sempre e comunque.

Una sera mi trovavo a casa di un amico molto morale, ecologico e non violento. Mi stava preparando una cena vegetariana. Sul tavolo pronti per essere tritati, una serie di corpicini rossi e verdi, faccine tonde con la barbetta, e poi braccia alzate, ancora tese e gonfie d’acqua e di vita. In fila, una serie di ravanelli, piccoli esseri in agonia. Il mio amico ne prese uno per quelle sue piccole braccia colorate, aprì la bocca, recise quel capino e lo sgranocchiò. Gli occhi ebbero un guizzo; mi ricordai immediatamente Polifemo che mangiava i compagni di Odisseo. Perché loro sì, loro che nella terra volevano vivere? Cercavano, con quelle piccole braccia verdi, il sole. Non avete mai visto le piante quanto desiderano vivere, come pulsano, si muovono, strisciano, sonnecchiano, amano? Non bisogna mai uccidere. E perché i ravanelli sì? Sono ugualmente convinto della frase che ho detto. Non bisogna mai uccidere. Forse bisognerebbe aggiungere: inutilmente. Ma ci può essere una morte utile? Bisogna essere consapevoli che siamo assassini, e allora forse uccideremo di meno e soprattutto cercheremo di rispettare di più ciò che è vivo, almeno finché è vivo.

Animali con la pelliccia o con le piume o con le squame, gli alberi e le margherite ed anche i piccoli, teneri, ravanelli.

13 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

Al Ceppo, in via Panama 2, locale pariolino, del genere rustico-elegante, si mangia, come è prevedibile, assai male. Roma e il mondo intero sono infestati da locali di questo livello, in cui si mangia male, si è serviti in modo approssimativo e manca ogni ragione di interesse o di curiosità che li caratterizzi in qualche modo: non sono neppure orrendi, non suscitano raccapriccio, ma sono tediosi. Parlare di questo ristorante piuttosto che di un altro suo pari è una scelta casuale, giustificata solo dal dovere di chi pensa che la ristorazione abbia anche qualche obbligo verso chi, per scelta o per necessità, si siede al tavolo di un pubblico esercizio. Il conto finale non può essere solo una gabella sulla fame!

Certo non sono morti di fame i clienti, borghesi ed impiegati, che si avventurano nelle scelte tra un piatto e l’altro di un menù tanto presuntuoso sulla carta, quanto povero di sapori e sgangherato nella esecuzione dei piatti, siano essi quelli che derivano da una gloriosa cucina tradizionale, come i cremini e le olive fritte, o la zuppa di porri e il sauté di animelle e rognoncini, siano essi invece ammiccanti timidamente alla «nuova cucina», come la trota gelida, sommersa dalla salsa al rafano. L’eguale assenza di note allegre caratterizza primi e secondi, tutti «sotto vuoto spinto»: risotto verde con crescione e borragine, stracotto, spaghetti neri, scaloppine con salsa smitane, crème brulé e mousse al cioccolato. La lista dei vini si presenta assai ricca di italiani e francesi, ma spesso le bottiglie sono state avvilite da un trattamento trascurato e il vino ne ha sofferto. La tassa a fine pasto ci è parsa ingiusta.

Nessun bene ci aspettavamo, «battendo» la zona tra San Pietro e il mercato del Trionfale, un quartiere superaffollato di esercizi commerciali e di turisti traboccanti dai torpedoni, per cui il nostro animo era predisposto ad una sosta di routine quando ci siamo seduti ai tavoli del Trik-Trak, in via Tolemaide 19 con la nostra aria saccente di gastrosofi rassegnati. Il locale è ampio, i tavoli sono abbastanza fitti, eppure regna fin da subito una atmosfera di serenità; si è serviti in modo simpatico, anche se con qualche licenza nella forma. Fin da subito, si è confortati, oltre che dalla cordialità, da un ben assortito piatto di antipastini caldi, graziosamente offerti al commensale prima ancora che si passi alle ordinazioni: bevendo un giovane, gradevole e finemente perlato Prosecco di S. Polo abbiamo apprezzato la gustosa torta verde con cipolla, le fragranti crocchette, le stuzzicanti olive ascolane e la profumata pizza al rosmarino. Passando al pasto vero e proprio possiamo dire che le pennette alla montanara con funghi e carciofi erano ben cotte, sapide e senza panna; eccezionali ci sono parsi poi gli spaghetti al trik-trak, con vongole e porcini, piccanti di peperoncino: i due sapori dominanti, giustamente equilibrati, davano senso compiuto ad una ricetta di concezione piuttosto nuova; il passo ardito, però, ci è parso fatto a ragion veduta e non più lungo della gamba del cuoco! Purtroppo a questo punto è arrivato in tavola un vino bianco sardo dalla debole personalità, un Gregorius di Magoro, completamente al di sotto della situazione, annientato poi dallo splendore del successivo superbo piatto di fresche e prelibate mazzancolle e gamberi. Adeguato, invece, alla situazione un ottimo Amarone Allegrini del 1979, amaro al punto giusto e ricco del profumo del sole sulle «recie» del grappolo, che si sposava bene col brasato e col goulash di corretta professionalità. Tra i dolci ricordiamo un buon mille foglie ed una eccezionale «cannonata», ennesima variazione di un dolce piuttosto inflazionato, qui stranamente capace di ritrovare gusto e personalità. A degna conclusione un vasto assortimento di grappe, amari e superalcolici. Il costo di un banchetto tanto ricco per qualità e quantità non può essere troppo basso, ma rimane contenuto in limiti ragionevoli.

13 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

Per ragioni di tempo, possiamo soltanto citare il XXVII Festival Internazionale del clavicembalo nell’Aula Magna del Palazzo della Cancelleria. L’Associazione Musicale Romana si è valsa di nomi di grande prestigio per celebrare il terzo centenario della nascita di Bach, Haendel c Domenico Scarlatti con una serie di grandi concerti.

Noi ci soffermeremo solo brevemente sull’ultima serata, quella di venerdì 26 aprile all’insegna della «Avanguardia Virtuosistica nel barocco»: il clavicembalista Ton Koopman, quadrato ed irruento, Jordi Savall col suono preciso e sensuale della sua viola da gamba e il soprano Monserrat Figueras con la sua limpida vocalità, hanno offerto all’ascolto brani inconsueti, arguti ed anche bizzarri, che oltre ad essere vere leccornie per gli amanti della musica sono stati per tutti un’ulteriore dimostrazione di come un’avanguardia possa esprimersi al pieno delle sue possibilità nel massimo rispetto, però, della voglia di comunicare: una bella lezione per tanti «avanguardisti» contemporanei, così pieni di sublime disprezzo per gli altri!

15 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

Marguerite Duras, L’amante (Feltrinelli 1985, pp. 123, Lit. 13.000).
La settantenne scrittrice francese ha alle spalle una lunga carriera e la versione cinematografica del suo romanzo La diga sul pacifico, ad opera di R. Clément, del 1958, l’ha resa popolare anche presso il grosso pubblico; popolarità nobilitata dalla stesura dei dialoghi e della sceneggiatura di Hiroshima mon amour, di A. Resnais, l’anno successivo. Meno comprensibile è la stima che le ha fatto vincere per questo romanzo il premio Goncourt per il 1984, perché il travestimento da opera letteraria di un raccontino insipido può ingannare solo chi sia del tutto inesperto e molto incolto. Parlare dei soliti brogli editoriali sembrerebbe una cattiveria: e allora? Con la forma del racconto autobiografico, l’Amante presenta, con salti cronologici avanti e indietro e frequenti passaggi dalla prima alla terza persona, la vita della protagonista in un momento particolare e nello scenario ampio del crollo del sogno coloniale francese in Indocina. Il momento è quello dell’incontro, sul traghetto che attraversa il Mekong, tra la ragazzina quindicenne e un giovane cinese. Il cinese, come è strombazzato su tutti i risvolti di copertina e nei dépliant pubblicitari, è un miliardario, e la cosa è supposta eccitare tremendamente le masse dei lettori. Come tutti i miliardari, il giovane cinese è però un infelice, tormentato, inoltre, dai riflessi della questione razziale. In un turbinio di amplessi, verginità perdute, ripetute docce afrodisiache, la giovane arrivista bianca vivrà il suo distacco dall’adolescenza simbolicamente culminante con la partenza del piroscafo che la riporterà in Europa.
L’autrice si preoccupa, anche, di concludere banalmente, citando la telefonata di trent’anni dopo tra lui sposato con una della sua razza e lei celebrata scrittrice, entrambi ricchi di soldi e di fama: ma privi dell’unico loro momento d’amore. Il tutto è farcito di tanti ingredienti: dall’ambiente famigliare franco-vietnamita, al collegio francese della colonia con l’obbligato contorno saffico. Nel racconto nostalgico del colonialismo francese di altri tempi, si confondono splendori di immense ricchezze perdute e miserie assolute, disperate, così profonde da diventare irreali. Irreale pare anche il quadro dei rapporti con la madre pazza e i due fratelli, uno buono e l’altro cattivo.

Lo stile letterario è stucchevole, di maniera, con un linguaggio (anche nell’originale francese) enfatizzato ed irritante per la volgarità degli effetti cercati. Uno sproloquio filosofico sull’immortalità che muore con la morte ha l’aria di un vero e proprio arrampicarsi sui vetri di chi in vita sua ha letto soltanto le prime diciotto pagine di un manuale scolastico di storia della filosofia ed è convinto che nessuno dei potenziali lettori abbia letto di più.

13 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

Il Don Pasquale, andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1843 e riproposto in questa stagione dal Teatro dell’Opera di Roma, è una delle più note opere di Gaetano Donizetti. La trama non è certo originale: il solito vecchio, ricco borghese, che contrasta l’amore di un giovane nipote e che vuol sposare una graziosa giovinetta, e che alla fine sarà malmenato e gabbato.
Sono in tutto quattro personaggi e la musica tesse per ciascuno una partitura lucida, sentimentale, briosa, non priva, però, di accenti drammatici, rendendo con acume il ritratto psicologico di ciascuno. Una strumentazione che è una trama di seta: tutte le nervature sono palpabili e percepibili; le parti vocali esprimono melodie bellissime e concertati arguti e sapienti.

È d’obbligo, per quel che riguarda questo allestimento, fissare l’attenzione su Giuseppe Taddei, il grande baritono-basso che calca le scene dell’opera lirica da quasi cinquant’anni. La sua voce è ancora intatta, ricca di armonici e la sua bravura è magistrale. Quando canta non solo è preciso, ma sa cantare con tutto il corpo non meno di quanto sappia recitare con la voce. Così deve essere un vero cantante del teatro in musica, non statua che gorgheggi immota. Taddei ha interpretato il suo Don Pasquale tirando fuori da questo bel personaggio non solo gli aspetti comici e burleschi, ma anche quelli tristi e talvolta disperati. Anche quando l’orchestra – eppoi si dirà di questo – copriva la sua voce, egli riusciva a far arrivare al pubblico ogni sfumatura, col canto del suo corpo. Ottima è stata anche il soprano Daniela Dessi: una voce squillante, non rigida, d’un virtuosismo contenuto, efficace, anche dal punto di vista interpretativo, nel brioso personaggio di Norina. Buono il dottor Malatesta interpretato dal baritono William Stone: sapeva amalgamarsi bene con gli altri, sciolto ed equilibrato. Non molto soddisfacente la prestazione del tenore Manfred Fink, un Ernesto dalla voce un po’ metallica e non sufficientemente ricca per la musica di Donizetti, tanto che correva il rischio di incappare in disavventure poco piacevoli a sipario aperto. Anche la recitazione e la presenza scenica risultavano un pò rigide ed impacciate.
Non siamo d’accordo con la direzione di Massimo de Bernart: troppo rataplan e uno sgambettio più da banda che da orchestra d’opera. Abbiamo avuto un’impressione di narcisismo, come se il direttore fosse solo attento ai suoi violini – talvolta striduli – ai suoi violoncelli e ai suoi fiati, che suonavano tutti, sempre, troppo forte, senza sufficiente rispetto per la parallela evoluzione della vicenda scenica, sebbene alcune impetuosità e perfino qualche svenevolezza non risultassero del tutto sgradevoli. Il coro, ben preparato da Ine Meisters, seppure sacrificato dai piccoli spazi richiesti dal genere stesso di quest’opera, si è mosso bene e con sufficiente fluidità.
Le scene e i costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta, stilisticamente collocati in un ottocento dai contorni non troppo precisi, si sono avvalsi di una grande mobilità resa possibile dall’uso di reticolati dipinti che potevano perdere consistenza fino a dissolversi grazie al gioco delle luci. In questi vivaci spazi la regia di Sandro Sequi ha svolto con chiarezza la sua funzione.

13 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

Non eravamo riusciti, all’epoca del suo primo apparire, a vedere questa edizione della «Vedova scaltra» di C. Goldoni, e siamo stati contenti che in questi giorni ce ne si ripresentasse l’occasione al Teatro Parioli.
Il testo, pur solido e di buona fattura, non è tra quelli che noi preferiamo del veneziano e il nostro interesse si è molto incentrato sul lavoro del regista Giorgio Ferrara e sulla messinscena complessiva. Uno spettacolo ambiguo, quello che abbiamo visto, ma non sgradevole: i troppi stimoli e la ricerca di troppe idee ne hanno fatto un po’ una insalatona dagli ingredienti non bene amalgamati. Noi pensiamo che lo spazio scenico debba essere diviso con criteri molto precisi e che i movimenti si debbano articolare con ritmo sempre esatto; invece sulla scena tutti smaniavano, muovendosi eccessivamente, urtandosi e invadendo lo spazio degli altri, dando un senso generale di confusione. Gli attori facevano tutti tante cose, ma alla rinfusa e ripetendo molto, cosicché le caratteristiche di ogni personaggio divenivano ossessive e anche monotone. Parecchie trovate ci sono apparse gratuite, mentre abbiamo giudicato ottima l’idea del teatro nel teatro, col contrappunto degli attori-spettatorisuggeritori.

Tutti gli attori hanno dimostrato una ottima professionalità e una grande capacità di sbrogliarsi nel gran guazzabuglio, con acume e disinvoltura. Su tutti abbiamo preferito la Marionette di Ginella Bertocchi, arguta, spigliata e attenta alle sfumature; gradevole anche il virtuosismo di Gianfranco Mari nel ruolo dell’eccessivo personaggio di Runebif. Gli altri erano: Antonella Berto, Loris Zanchi, Adolfo Belletti, Ezio Marano, Claudio Sora, Luigi Basagaluppi, Livio Moroni, Fabio Meyer e Bruno Santini. Meno di tutti, ancora una volta, ci è piaciuta Adriana Asti, benché riconosciamo che questa non sia una delle sue peggiori interpretazioni. Non ci è piaciuta l’intenzione di trasformare il personaggio in quello de «La vedova volgare», con una dizione sporca, con troppi gesti osceni, con dialettismi sgangherati. Anziché delineare un personaggio lo ha disperso in una serie di arrochite gags, che si ripetevano sempre uguali, anche quando avrebbero dovuto essere differenziate, come nelle quattro variazioni in maschera, che sono risultate di eccessiva stupidità.
Le scene, di Mario Garbuglia, erano risolte con grande e semplicità risultavano gradevoli e accattivanti, in linea con la impostazione registica, ma un po’ fuori stile per il gioco goldoniano, con quelle infinitezze di cieli e di mari in cui si aprivano troppe porte e sportelli. Vivaci e ben riuscite le scelte del costumista Jost Jakob, con tocchi di assurdo e volgarità porti con garbo. Le musiche di Alessio Vlad rivelavano correttezza filologica e grande sensibilità musicale; peccato che la piccola orchestra barocca fosse avvilita da sonorità di sintetizzatore poco gradevoli.
Ripetiamo la nostra perplessità, ma siamo convinti di aver visto uno spettacolo che vale la pena di vedere e di non aver sprecato una serata.

Alla Piramide di Via Benzoni 51, tipica sede del teatro off romano, abbiamo assistito ad uno spettacolo stupidissimo: la «Carmen dell’Iraa» (IRAA sta per: Istituto di ricerche sull’arte dell’attore). Quaranta minuti, circa, di gesti tronfi e dilettanteschi, con sottofondo di brani di musica splendida tratti dalla Carmen di Bizet. La musica e la storia di Merimée non avevano alcun rapporto con la messa in scena: tutt’al più erano collegati con il fondale, dipinto da Roberto Di Girolamo, nel quale era banalizzata una idea di Spagna e di corride attraverso tori neri e colori sgargianti. Muleta e toro erano ripresi anche in fazzoletti rossi sbandierati e giocattolini di cartapesta, montati su rotelline e trainati per il cordino. Attaccapanni, sedie a dondolo, toelettine con specchio, camino in finto marmo con transatlantico effimero di passaggio e quintali di melerosse sparse sull’impiantito, che ridicolmente venivano schiacciate o evitate per un pelo dai gestuanti, erano il resto della scenografia. In essa si dimenavano in lungo e in largo i goffi personaggi. La nota di presentazione dello spettacolo dice che questo gruppo «non racconta» e non vuole quindi raccontare neanche la storia della Carmen, e fin qui possiamo anche essere d’accordo; ma non trapelano neppure «le atmosfere e le suggestioni della Carmen», non c’è nessuna fantasia poetica in quei pochi gesti, sperduti e ridicoli.

Una cantante con la valigia (Susi Casalino), canticchia con una vocetta graziosa la Habanera, ripetendola poi deformata in modo musicalmente insulso. Una signorina in sottoveste nera (Raffaella Rossellini) butta avanti e indietro la sua lunga chioma bruna avvitacchiata ad un giovanottino (Renato Cuocolo, che è anche il regista). Una coppia maschile, un giovane ed un vecchio (Carlo Salucci e Massimo Ranieri), in bianchi abiti anni trenta, si aggirano persi in giochini infantili, incontrando a volte una graziosa danzatrice (Karin Elmore) che altro non pare bramare che esporre il suo grazioso petto nudo alla luce del riflettore e agli occhi dello spettatore, imbarazzato anche dal goliardico uccello impagliato che la bella brandisce alto nel pugno.
Che altro dire? Sarebbero facili i moralismi: diciamo solo che la buona fede non giustifica
certi tradimenti dell’intelligenza e della professionalità.

Abbiamo visto alla Ringhiera, di via dei Riari, uno sconosciuto dramma di Joe Orton: Que ceffo dietro la porta. L’autore è un drammaturgo inglese, morto nel 1967 a trentaquattro anni, poco noto in Italia. I suoi testi sono ironici e drammatici, non particolarmente originali, tra Wilde e Jonesco. La conoscenza della tecnica teatrale non è molto profonda, però rivela una buona capacità di coinvolgere, soprattutto quando, come in questo caso, non si dilunga più dello stretto necessario.

Una stanza squallida dove si dorme e si mangia, un letto, una credenza, un vaso di pesci rossi, una porta. Lui, Mike è proprietario di un furgone dal lavoro ambiguo; lei Joyce, la sua ragazza, lo vede uscire e si sente prendere dall’ansia. Bussano alla porta: dalla porta che dà sulle scale entra un ragazzo, Wilson, col pretesto di chiedere se c’è una stanza in affitto. Si snoda la vicenda: Wilson amava, anche sessualmente, il proprio fratello, morto, forse assassinato dal furgone di Mike, per questo, perseguendo una strana vendetta, egli si trova alla porta coi insistenza, quando la ragazza rimane sola. Una strana alleanza si crea poi tra i due uomini quando si incontrano, tanto che la ragazza si sente perseguitata dai due. Ma quale vendetta chiede Wilson? Chiede di essere ucciso come il fratello, da Mike ingelosito in seguito al suo comportamento con Joyce. Un colpo di pistola uccide il ragazzetto mentre lei si dispera sul vaso dei pesci rossi.
La recitazione è urlata, seria, tesa; le battute, assurde e spesso grottescamente umoristiche sono rese con realismo in una atmosfera dominata dal bel corpo assente del fratello ucciso, desiderato e perduto. I tre giovani interpreti: Bianca Pesce, Stefano Muré e Marco Belocchi, guidati dal regista Domenico Mongelli, dimostrano una buona capacità di stare in scena, anche se talvolta si intuisce che quei toni esasperati mascherano incertezze nelle scelte interpretative e giovinezza ancora acerba. Da vecchi divoratori di spettacoli siamo rimasti complessivamente soddisfatti nel constatare come sulla piccola scena fossero assenti la saccenteria e il dilettantismo di tanto teatro di avanguardia. Ci fossero invece, ben presenti, le premesse di un mestiere che è buona garanzia di un futuro positivo lavoro. Le musiche erano di Alessandro Castiglia; le scene e i costumi di Antonio Grieco.

13 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

Rissosità

Una serie di problematiche terapeutiche ha scatenato il dibattito sulla scelta della cura, sul dovere di curare e sul diritto di essere curati. In particolare è sentito il peso sociale di alcune categorie di malati: gli inguaribili, i folli e i tossicodipendenti, i cui spazi di libertà individuale sono messi in più modi in discussione.
Per gli inguaribili si è giunti al punto estremo di polemizzare sul loro eventuale diritto alla buona morte, purché sia, beninteso, un esito più o meno deciso da altri e da altri direttamente agito, siano questi altri terapeuti o persone affettivamente significative, forti comunque di una delega loro concessa.
Dei diritti collegati alla delega si parla anche nel caso di tossicodipendenti che, consapevoli di una loro ridotta capacità di autogestione, hanno affidato alla comunità terapeutica il diritto-dovere della costrizione, anche violenta, al fine primario dell’affrancamento dalla dipendenza. La costrizione sembra poi avere finalità di controllo e di preservazione soltanto del gruppo sociale nel caso di persone, malate di mente e pericolose a sé e agli altri, che dal canto loro non hanno però mai pensato di affidare a chicchessia un mandato di controllo sulla propria libertà di azione. Tutti questi casi presuppongono comunque chiari concetti di cosa sia sano e cosa non lo sia, per una società che ha esclusivamente sé stessa come modello assoluto di riferimento. Dibattere di ciò è dunque rischioso perché significa risolvere conflitti tra il bene in generale e il bene individuale. Succede così che ognuno stabilisca la liceità del suo carcere, l’inevitabilità della correzione di quella che viene percepita come devianza e addirittura si arroghi il diritto di amministrare e somministrare la morte utile, o considerata tale. Particolarmente attivi nell’esercizio polemico sono i moralisti della politica, ansiosi di far coincidere la legge morale con la legge attiva da essi preventivamente stabilita, magari addirittura come trasgressione della legge imposta. La lotta viene così simulata sulle questioni di principio e nessuno è abbastanza onesto da dichiarare che si assolve o si condanna solo in base all’interesse di parte, perché solo così può essere e perché solo tra le parti avverse è lecito che avvenga la lotta. Costrizione e libertà, norma e devianza, salute e malattia sono concetti che non esistono senza la realtà delle persone che chiamiamo in causa. Il giudizio sul modo in cui ci si comporta deve essere dato di volta in volta, in base alla conoscenza delle situazioni e con la consapevolezza che anche il giudice opera perseguendo i propri fini – come hanno reso evidente in modo anche tragico le vicende giudiziarie di questi ultimi anni -.
La psicoanalisi stessa perde parte del suo significato quando non dichiara il proprio progetto e rischia di negare proprio la sua funzione fondamentale di riappropriazione della consapevolezza, se si sottrae all’esigenza della lotta. La lotta senza consapevolezza poi, anche quando simula di vertere sui massimi sistemi, è solo rissa all’interno della grande gabbia che qualcun altro chiude o apre a suo piacimento.

13 – Maggio ‘85

mercoledì, 1 maggio 1985

Amazzonomachia, le sculture frontonali del tempio di Apollo Sosiano, Roma, Campidoglio, Palazzo dei Conservatori. Non è molto quello che rimane di queste sculture, portate a Roma in epoca augustea per ornare il Tempio di Apollo medico o Sosiano che si trovava presso il teatro di Marcello, alle quali è toccata la stessa sorte capitata a tutta la cultura ellenica: di essere ridotte a qualche frammento, come dopo un grande cataclisma. Della Grecia antica si conosce pochissimo, è soprattutto un sogno; ma anche questi pochi brandelli sono di una bellezza veramente incomparabile.

Nella sala degli Orazi e Curiazi la mostra è stata allestita con intelligenza: il tentativo di ricostruire una idea più suggestiva che realistica del frontone è ben riuscito e gli elementi scultorei recuperati si inseriscono senza sforzo nell’ideale frontone, delimitato dalle linee tese di acciaio che suggeriscono il timpano. Non danno fastidio neppure i molti pannelli che spiegano il come e perché delle scelte fatte e dei criteri seguiti nel restauro e nella ricostruzione. La scena rappresentata dovrebbe essere la battaglia che Eracle e Teseo condussero contro le Amazzoni e la disposizione degli elementi non contrasta con l’ipotesi generale, anche se si capisce che qualche altra ipotesi altrettanto plausibile sarebbe stata possibile. L’attenzione è concentrata su alcuni elementi: la statua di Atena al centro, i resti di un Eracle a sinistra, un Teseo a destra. In una bacheca, lì vicino, ci sono diversi frammenti più piccoli, che acquistano una aria di preziose reliquie.

Avvicinarsi, o meglio, sentire vicine quelle sculture, ci ha fatto provare una emozione intensissima che noi chiameremmo nostalgia, non sappiamo di che, sappiamo soltanto di aver vissuto alcuni minuti di profondo turbamento e di indescrivibile struggimento.
Attorno alle tre figure principali si muove una piccola folla di elementi: frammenti di figure maschili e femminili, di parti di animali e drappeggi di stoffe rese dal marmo con incredibile leggerezza. Tutto è mirabile, ma il torso di Eracle, un maturo nudo virile, senza testa, con molte mutilazioni e con le tracce di una pelle di leone è forse il pezzo che ci ha emozionato maggiormente, superbo e tenero nelle sue forme preclassiche, assolutamente e realmente eroico e divino. Poi lo splendore classico di Teseo, un giovane maschio nudo in movimento, con un braccio proteso, meno mutilo e più ricostruito che gli altri pezzi, di una bellezza meno drammatica, dalle forme perfette. Infine la ieratica compostezza della tunica di Atena, centro della composizione e punto di massimo equilibrio. Sono solo pochi frammenti, ma bastano a rendere bene il significato della parola «sacro».

Il ventuno aprile, data celebrativa di quello che retoricamente si è voluto chiamare il Natale di Roma, è stata inaugurata a Palazzo Braschi una mostra di manifesti dedicati a Roma. In realtà la mostra Amoroma, così è stata chiamata, è sparsa un po’ dappertutto sui manifesti attaccati ai muri, in vie e piazze della capitale, e un po’ anche in giro per l’Italia ed è quindi sotto gli occhi di vere moltitudini. A Palazzo Braschi sono esposti oltre agli originali anche i disegni preparatori di ogni singolo manifesto.
L’idea che sorregge la mostra è simpatica, e gli artisti sono senz’altro famosi; ma il risultato non è un gran che. Una città così ricca di meraviglie e così stimolante per la fantasia ha suscitato nei dieci artisti, che qui si sono espressi, idee per lo più banalissime.
Quasi tutti costoro hanno visto Roma nel modo più scontato e ovvio: come una gran puttana. Ciò ci ha lasciati esterrefatti, perché amiamo Roma anche noi e perché ci aspettavamo da questi abili professionisti una maggiore scaltrezza. Due manifesti soltanto ci sono piaciuti veramente: quello inquietante e originale di Mario Schifano e quello gioioso e ricco
Mario Schifano e quello gioioso e ricco di fantasia di Emanuele Luzzati.
Senza ruderi e senza puttane, Schifano rappresenta drammaticamente Roma, con una forma virile – che sembra dare forma e al tempo stesso prendere consistenza dalla città – immersa in pennellate contorte di blu e di verde, narrando e rappresentando con asciutto rigore. Dominato dall’immagine del donnone coronato d’alloro, il Colosseo di Luzzati ospita – oltre che l’emblematico gattone – una serie di figurine affacciate che tessono la trama storica e culturale della città: i colori mettono allegria e la tecnica è ricca di spunti.

Non crediamo proprio alla dichiarazione d’amore di Altan, se analizziamo la raffigurazione di questa città dominata da una ributtante ed infingarda lupa verde, attorno e sulla quale sbavano mostriciattoli biancastri e sopra cui incombe un cielo nero crivellato di stelle. La dolciastra Valentina di Crepax omaggia se stessa avvilendo la bella cuspide della Sapienza. Hugo Pratt mette alla finestra una donnina in sottoveste e la città c’entra come per caso con una cupola in cornice sulla parete, il tutto con l’aspetto di brutta cartolina.
Tanino Liberatore carica con tutta la volgarità del fumetto di cattivo gusto la sua ragazzotta orientale tra i ruderi. La puttana a gambe larghe che si staglia fra le costellazioni celesti schiaccia i clienti lillipuziani tra gli archi dell’acquedotto nel manifesto banalmente neo-realista di Milo Manara.

Il Bobo di Sergio Staino s’invischia nei luoghi comuni di ruderi e di poppe. Non c’è poesia e c’è poca abilità nella ripetitività degli scherzi di Pablo Echaurren. Troviamo infine buttati via alcuni buoni spunti, leggibili più chiaramente nei disegni preparatori, nel guerriero con l’elmo d’oro di Andrea Pazienza. C’è una vecchia canzone che dice «Quanto sei bella Roma! ». Ma da questi manifesti d’amore non risulta.