13 – Maggio ‘85

maggio , 1985

Amazzonomachia, le sculture frontonali del tempio di Apollo Sosiano, Roma, Campidoglio, Palazzo dei Conservatori. Non è molto quello che rimane di queste sculture, portate a Roma in epoca augustea per ornare il Tempio di Apollo medico o Sosiano che si trovava presso il teatro di Marcello, alle quali è toccata la stessa sorte capitata a tutta la cultura ellenica: di essere ridotte a qualche frammento, come dopo un grande cataclisma. Della Grecia antica si conosce pochissimo, è soprattutto un sogno; ma anche questi pochi brandelli sono di una bellezza veramente incomparabile.

Nella sala degli Orazi e Curiazi la mostra è stata allestita con intelligenza: il tentativo di ricostruire una idea più suggestiva che realistica del frontone è ben riuscito e gli elementi scultorei recuperati si inseriscono senza sforzo nell’ideale frontone, delimitato dalle linee tese di acciaio che suggeriscono il timpano. Non danno fastidio neppure i molti pannelli che spiegano il come e perché delle scelte fatte e dei criteri seguiti nel restauro e nella ricostruzione. La scena rappresentata dovrebbe essere la battaglia che Eracle e Teseo condussero contro le Amazzoni e la disposizione degli elementi non contrasta con l’ipotesi generale, anche se si capisce che qualche altra ipotesi altrettanto plausibile sarebbe stata possibile. L’attenzione è concentrata su alcuni elementi: la statua di Atena al centro, i resti di un Eracle a sinistra, un Teseo a destra. In una bacheca, lì vicino, ci sono diversi frammenti più piccoli, che acquistano una aria di preziose reliquie.

Avvicinarsi, o meglio, sentire vicine quelle sculture, ci ha fatto provare una emozione intensissima che noi chiameremmo nostalgia, non sappiamo di che, sappiamo soltanto di aver vissuto alcuni minuti di profondo turbamento e di indescrivibile struggimento.
Attorno alle tre figure principali si muove una piccola folla di elementi: frammenti di figure maschili e femminili, di parti di animali e drappeggi di stoffe rese dal marmo con incredibile leggerezza. Tutto è mirabile, ma il torso di Eracle, un maturo nudo virile, senza testa, con molte mutilazioni e con le tracce di una pelle di leone è forse il pezzo che ci ha emozionato maggiormente, superbo e tenero nelle sue forme preclassiche, assolutamente e realmente eroico e divino. Poi lo splendore classico di Teseo, un giovane maschio nudo in movimento, con un braccio proteso, meno mutilo e più ricostruito che gli altri pezzi, di una bellezza meno drammatica, dalle forme perfette. Infine la ieratica compostezza della tunica di Atena, centro della composizione e punto di massimo equilibrio. Sono solo pochi frammenti, ma bastano a rendere bene il significato della parola «sacro».

Il ventuno aprile, data celebrativa di quello che retoricamente si è voluto chiamare il Natale di Roma, è stata inaugurata a Palazzo Braschi una mostra di manifesti dedicati a Roma. In realtà la mostra Amoroma, così è stata chiamata, è sparsa un po’ dappertutto sui manifesti attaccati ai muri, in vie e piazze della capitale, e un po’ anche in giro per l’Italia ed è quindi sotto gli occhi di vere moltitudini. A Palazzo Braschi sono esposti oltre agli originali anche i disegni preparatori di ogni singolo manifesto.
L’idea che sorregge la mostra è simpatica, e gli artisti sono senz’altro famosi; ma il risultato non è un gran che. Una città così ricca di meraviglie e così stimolante per la fantasia ha suscitato nei dieci artisti, che qui si sono espressi, idee per lo più banalissime.
Quasi tutti costoro hanno visto Roma nel modo più scontato e ovvio: come una gran puttana. Ciò ci ha lasciati esterrefatti, perché amiamo Roma anche noi e perché ci aspettavamo da questi abili professionisti una maggiore scaltrezza. Due manifesti soltanto ci sono piaciuti veramente: quello inquietante e originale di Mario Schifano e quello gioioso e ricco
Mario Schifano e quello gioioso e ricco di fantasia di Emanuele Luzzati.
Senza ruderi e senza puttane, Schifano rappresenta drammaticamente Roma, con una forma virile – che sembra dare forma e al tempo stesso prendere consistenza dalla città – immersa in pennellate contorte di blu e di verde, narrando e rappresentando con asciutto rigore. Dominato dall’immagine del donnone coronato d’alloro, il Colosseo di Luzzati ospita – oltre che l’emblematico gattone – una serie di figurine affacciate che tessono la trama storica e culturale della città: i colori mettono allegria e la tecnica è ricca di spunti.

Non crediamo proprio alla dichiarazione d’amore di Altan, se analizziamo la raffigurazione di questa città dominata da una ributtante ed infingarda lupa verde, attorno e sulla quale sbavano mostriciattoli biancastri e sopra cui incombe un cielo nero crivellato di stelle. La dolciastra Valentina di Crepax omaggia se stessa avvilendo la bella cuspide della Sapienza. Hugo Pratt mette alla finestra una donnina in sottoveste e la città c’entra come per caso con una cupola in cornice sulla parete, il tutto con l’aspetto di brutta cartolina.
Tanino Liberatore carica con tutta la volgarità del fumetto di cattivo gusto la sua ragazzotta orientale tra i ruderi. La puttana a gambe larghe che si staglia fra le costellazioni celesti schiaccia i clienti lillipuziani tra gli archi dell’acquedotto nel manifesto banalmente neo-realista di Milo Manara.

Il Bobo di Sergio Staino s’invischia nei luoghi comuni di ruderi e di poppe. Non c’è poesia e c’è poca abilità nella ripetitività degli scherzi di Pablo Echaurren. Troviamo infine buttati via alcuni buoni spunti, leggibili più chiaramente nei disegni preparatori, nel guerriero con l’elmo d’oro di Andrea Pazienza. C’è una vecchia canzone che dice «Quanto sei bella Roma! ». Ma da questi manifesti d’amore non risulta.