13 – Maggio ‘85

maggio , 1985

Il Don Pasquale, andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1843 e riproposto in questa stagione dal Teatro dell’Opera di Roma, è una delle più note opere di Gaetano Donizetti. La trama non è certo originale: il solito vecchio, ricco borghese, che contrasta l’amore di un giovane nipote e che vuol sposare una graziosa giovinetta, e che alla fine sarà malmenato e gabbato.
Sono in tutto quattro personaggi e la musica tesse per ciascuno una partitura lucida, sentimentale, briosa, non priva, però, di accenti drammatici, rendendo con acume il ritratto psicologico di ciascuno. Una strumentazione che è una trama di seta: tutte le nervature sono palpabili e percepibili; le parti vocali esprimono melodie bellissime e concertati arguti e sapienti.

È d’obbligo, per quel che riguarda questo allestimento, fissare l’attenzione su Giuseppe Taddei, il grande baritono-basso che calca le scene dell’opera lirica da quasi cinquant’anni. La sua voce è ancora intatta, ricca di armonici e la sua bravura è magistrale. Quando canta non solo è preciso, ma sa cantare con tutto il corpo non meno di quanto sappia recitare con la voce. Così deve essere un vero cantante del teatro in musica, non statua che gorgheggi immota. Taddei ha interpretato il suo Don Pasquale tirando fuori da questo bel personaggio non solo gli aspetti comici e burleschi, ma anche quelli tristi e talvolta disperati. Anche quando l’orchestra – eppoi si dirà di questo – copriva la sua voce, egli riusciva a far arrivare al pubblico ogni sfumatura, col canto del suo corpo. Ottima è stata anche il soprano Daniela Dessi: una voce squillante, non rigida, d’un virtuosismo contenuto, efficace, anche dal punto di vista interpretativo, nel brioso personaggio di Norina. Buono il dottor Malatesta interpretato dal baritono William Stone: sapeva amalgamarsi bene con gli altri, sciolto ed equilibrato. Non molto soddisfacente la prestazione del tenore Manfred Fink, un Ernesto dalla voce un po’ metallica e non sufficientemente ricca per la musica di Donizetti, tanto che correva il rischio di incappare in disavventure poco piacevoli a sipario aperto. Anche la recitazione e la presenza scenica risultavano un pò rigide ed impacciate.
Non siamo d’accordo con la direzione di Massimo de Bernart: troppo rataplan e uno sgambettio più da banda che da orchestra d’opera. Abbiamo avuto un’impressione di narcisismo, come se il direttore fosse solo attento ai suoi violini – talvolta striduli – ai suoi violoncelli e ai suoi fiati, che suonavano tutti, sempre, troppo forte, senza sufficiente rispetto per la parallela evoluzione della vicenda scenica, sebbene alcune impetuosità e perfino qualche svenevolezza non risultassero del tutto sgradevoli. Il coro, ben preparato da Ine Meisters, seppure sacrificato dai piccoli spazi richiesti dal genere stesso di quest’opera, si è mosso bene e con sufficiente fluidità.
Le scene e i costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta, stilisticamente collocati in un ottocento dai contorni non troppo precisi, si sono avvalsi di una grande mobilità resa possibile dall’uso di reticolati dipinti che potevano perdere consistenza fino a dissolversi grazie al gioco delle luci. In questi vivaci spazi la regia di Sandro Sequi ha svolto con chiarezza la sua funzione.