13 – Maggio ‘85

maggio , 1985

Non eravamo riusciti, all’epoca del suo primo apparire, a vedere questa edizione della «Vedova scaltra» di C. Goldoni, e siamo stati contenti che in questi giorni ce ne si ripresentasse l’occasione al Teatro Parioli.
Il testo, pur solido e di buona fattura, non è tra quelli che noi preferiamo del veneziano e il nostro interesse si è molto incentrato sul lavoro del regista Giorgio Ferrara e sulla messinscena complessiva. Uno spettacolo ambiguo, quello che abbiamo visto, ma non sgradevole: i troppi stimoli e la ricerca di troppe idee ne hanno fatto un po’ una insalatona dagli ingredienti non bene amalgamati. Noi pensiamo che lo spazio scenico debba essere diviso con criteri molto precisi e che i movimenti si debbano articolare con ritmo sempre esatto; invece sulla scena tutti smaniavano, muovendosi eccessivamente, urtandosi e invadendo lo spazio degli altri, dando un senso generale di confusione. Gli attori facevano tutti tante cose, ma alla rinfusa e ripetendo molto, cosicché le caratteristiche di ogni personaggio divenivano ossessive e anche monotone. Parecchie trovate ci sono apparse gratuite, mentre abbiamo giudicato ottima l’idea del teatro nel teatro, col contrappunto degli attori-spettatorisuggeritori.

Tutti gli attori hanno dimostrato una ottima professionalità e una grande capacità di sbrogliarsi nel gran guazzabuglio, con acume e disinvoltura. Su tutti abbiamo preferito la Marionette di Ginella Bertocchi, arguta, spigliata e attenta alle sfumature; gradevole anche il virtuosismo di Gianfranco Mari nel ruolo dell’eccessivo personaggio di Runebif. Gli altri erano: Antonella Berto, Loris Zanchi, Adolfo Belletti, Ezio Marano, Claudio Sora, Luigi Basagaluppi, Livio Moroni, Fabio Meyer e Bruno Santini. Meno di tutti, ancora una volta, ci è piaciuta Adriana Asti, benché riconosciamo che questa non sia una delle sue peggiori interpretazioni. Non ci è piaciuta l’intenzione di trasformare il personaggio in quello de «La vedova volgare», con una dizione sporca, con troppi gesti osceni, con dialettismi sgangherati. Anziché delineare un personaggio lo ha disperso in una serie di arrochite gags, che si ripetevano sempre uguali, anche quando avrebbero dovuto essere differenziate, come nelle quattro variazioni in maschera, che sono risultate di eccessiva stupidità.
Le scene, di Mario Garbuglia, erano risolte con grande e semplicità risultavano gradevoli e accattivanti, in linea con la impostazione registica, ma un po’ fuori stile per il gioco goldoniano, con quelle infinitezze di cieli e di mari in cui si aprivano troppe porte e sportelli. Vivaci e ben riuscite le scelte del costumista Jost Jakob, con tocchi di assurdo e volgarità porti con garbo. Le musiche di Alessio Vlad rivelavano correttezza filologica e grande sensibilità musicale; peccato che la piccola orchestra barocca fosse avvilita da sonorità di sintetizzatore poco gradevoli.
Ripetiamo la nostra perplessità, ma siamo convinti di aver visto uno spettacolo che vale la pena di vedere e di non aver sprecato una serata.

Alla Piramide di Via Benzoni 51, tipica sede del teatro off romano, abbiamo assistito ad uno spettacolo stupidissimo: la «Carmen dell’Iraa» (IRAA sta per: Istituto di ricerche sull’arte dell’attore). Quaranta minuti, circa, di gesti tronfi e dilettanteschi, con sottofondo di brani di musica splendida tratti dalla Carmen di Bizet. La musica e la storia di Merimée non avevano alcun rapporto con la messa in scena: tutt’al più erano collegati con il fondale, dipinto da Roberto Di Girolamo, nel quale era banalizzata una idea di Spagna e di corride attraverso tori neri e colori sgargianti. Muleta e toro erano ripresi anche in fazzoletti rossi sbandierati e giocattolini di cartapesta, montati su rotelline e trainati per il cordino. Attaccapanni, sedie a dondolo, toelettine con specchio, camino in finto marmo con transatlantico effimero di passaggio e quintali di melerosse sparse sull’impiantito, che ridicolmente venivano schiacciate o evitate per un pelo dai gestuanti, erano il resto della scenografia. In essa si dimenavano in lungo e in largo i goffi personaggi. La nota di presentazione dello spettacolo dice che questo gruppo «non racconta» e non vuole quindi raccontare neanche la storia della Carmen, e fin qui possiamo anche essere d’accordo; ma non trapelano neppure «le atmosfere e le suggestioni della Carmen», non c’è nessuna fantasia poetica in quei pochi gesti, sperduti e ridicoli.

Una cantante con la valigia (Susi Casalino), canticchia con una vocetta graziosa la Habanera, ripetendola poi deformata in modo musicalmente insulso. Una signorina in sottoveste nera (Raffaella Rossellini) butta avanti e indietro la sua lunga chioma bruna avvitacchiata ad un giovanottino (Renato Cuocolo, che è anche il regista). Una coppia maschile, un giovane ed un vecchio (Carlo Salucci e Massimo Ranieri), in bianchi abiti anni trenta, si aggirano persi in giochini infantili, incontrando a volte una graziosa danzatrice (Karin Elmore) che altro non pare bramare che esporre il suo grazioso petto nudo alla luce del riflettore e agli occhi dello spettatore, imbarazzato anche dal goliardico uccello impagliato che la bella brandisce alto nel pugno.
Che altro dire? Sarebbero facili i moralismi: diciamo solo che la buona fede non giustifica
certi tradimenti dell’intelligenza e della professionalità.

Abbiamo visto alla Ringhiera, di via dei Riari, uno sconosciuto dramma di Joe Orton: Que ceffo dietro la porta. L’autore è un drammaturgo inglese, morto nel 1967 a trentaquattro anni, poco noto in Italia. I suoi testi sono ironici e drammatici, non particolarmente originali, tra Wilde e Jonesco. La conoscenza della tecnica teatrale non è molto profonda, però rivela una buona capacità di coinvolgere, soprattutto quando, come in questo caso, non si dilunga più dello stretto necessario.

Una stanza squallida dove si dorme e si mangia, un letto, una credenza, un vaso di pesci rossi, una porta. Lui, Mike è proprietario di un furgone dal lavoro ambiguo; lei Joyce, la sua ragazza, lo vede uscire e si sente prendere dall’ansia. Bussano alla porta: dalla porta che dà sulle scale entra un ragazzo, Wilson, col pretesto di chiedere se c’è una stanza in affitto. Si snoda la vicenda: Wilson amava, anche sessualmente, il proprio fratello, morto, forse assassinato dal furgone di Mike, per questo, perseguendo una strana vendetta, egli si trova alla porta coi insistenza, quando la ragazza rimane sola. Una strana alleanza si crea poi tra i due uomini quando si incontrano, tanto che la ragazza si sente perseguitata dai due. Ma quale vendetta chiede Wilson? Chiede di essere ucciso come il fratello, da Mike ingelosito in seguito al suo comportamento con Joyce. Un colpo di pistola uccide il ragazzetto mentre lei si dispera sul vaso dei pesci rossi.
La recitazione è urlata, seria, tesa; le battute, assurde e spesso grottescamente umoristiche sono rese con realismo in una atmosfera dominata dal bel corpo assente del fratello ucciso, desiderato e perduto. I tre giovani interpreti: Bianca Pesce, Stefano Muré e Marco Belocchi, guidati dal regista Domenico Mongelli, dimostrano una buona capacità di stare in scena, anche se talvolta si intuisce che quei toni esasperati mascherano incertezze nelle scelte interpretative e giovinezza ancora acerba. Da vecchi divoratori di spettacoli siamo rimasti complessivamente soddisfatti nel constatare come sulla piccola scena fossero assenti la saccenteria e il dilettantismo di tanto teatro di avanguardia. Ci fossero invece, ben presenti, le premesse di un mestiere che è buona garanzia di un futuro positivo lavoro. Le musiche erano di Alessandro Castiglia; le scene e i costumi di Antonio Grieco.