Psicoanalisi contro n. 13 – Contro la rassegnazione

maggio , 1985

Tutti gli esseri umani, da sempre, ricercano soltanto la felicità. Questa è un’affermazione semplice. Secondo me, esprime una verità inequivocabile, forse l’unica verità che sia realmente esprimibile. Ho detto «forse», quindi l’incertezza getta la sua ombra anche su questa frase così semplice. Nonostante ciò, sono convinto che sia l’unica affermazione assolutamente vera, d’una verità immediata, così palpabile che fa paura. Non c’è bisogno di costruire complesse dimostrazioni, basta ascoltare, o meglio sentire, ed ogni essere umano si accorgerà che cerca soltanto di essere felice. La felicità può realizzarsi in un piccolo piacere immediato: accarezzare i capelli della persona amata, bere un bicchiere di acqua fresca quando si ha sete, oppure, ancora, può essere rinviata alla speranza della vita eterna, oppure la si può trovare nella fantasia che ci fa essere eroi gloriosi e potenti. «Che strana cosa, disse, o amici, sembra essere questo che gli uomini chiamano piacere! E che meravigliosa natura è la sua in relazione a quello che sembra essere il suo contrario, il dolore! (…) Come appunto sembra che sia seguito anche a me: ché mentre prima, sotto il peso della catena, c’era nella mia gamba il dolore, ecco che già sento a quello venir dietro il piacere». (Cfr. Platone, Fedone, III) Spesso il piacere sorge da un disagio: la quiete dopo la tempesta. La quiete fa piacere perché prima c’è stato l’uragano; ma è ancora da dimostrarsi che l’uragano sia sgradevole! Ci sono situazioni di sofferenza che l’uomo continuamente tende a superare per raggiungere il piacere; quando non riesce ad ottenerlo può adattarsi alla sofferenza cercando di gustarla come se fosse gioia. Piacere, gioia, felicità: è impossibile definire ciò che sta dietro a queste tre parole; semplicemente sappiamo che ci muoviamo soltanto per il piacere, per la gioia e per la felicità. Ecco il rigorismo dei moralisti: guai a coloro che perseguono soltanto il piacere e lo fanno coincidere con il sommo bene. Questi moralisti affermano che coloro i quali hanno sostenuto che l’uomo non può far altro che ricercare la gioia, la felicità, in ultima analisi il piacere, sono filosofi empi ed immorali, poco degni di servire la filosofia. La filosofia tende alle supreme sfere della verità: la vita non può essere soltanto ricerca del piacere; deve essere qualcosa di più grande: ricerca della giustizia; come se la giustizia dovesse essere cosa sgradevole. Ricerca di Dio; come se Dio dovesse essere sgradevole. Ricerca della verità: la verità in effetti potrebbe essere sgradevole, ma non la sua ricerca; e una volta che la si è trovata, se è sgradevole, cosa ci rimane? Ci rimane il bisogno di trovare un’altra verità, o di abbattere questa, con l’obiettivo, però, di giungere ancora al piacere.

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Io ritengo che l’amore realizzi il piacere più profondo. Può darsi che dica questo perché ho paura di dire che la mia vita non è altro che ricerca del piacere; ma non ritengo che tentare di nobilitare il nostro piacere sia in contraddizione con il principio fondamentale che regge ogni vita, da sempre. In quanto esseri umani non possiamo fare che ricercare il piacere che coincide con la felicità. C’è una ragione profonda per cui gli esseri umani hanno paura dell’affermazione che ho appena fatto, semplice, drastica nella sua nuda immediatezza; questa ragione scaturisce da una paura misteriosa che aleggia dentro ogni uomo; gli antichi l’avevano espressa con una bellissima formula: gli dèi sono invidiosi della felicità umana; se sei felice il dio ti invidia perché tu hai strappato a lui con empietà una sua prerogativa e ben presto, perciò, farà calare dall’alto la sua punizione; come se godere fosse una colpa. È pur vero che alla ricerca del piacere gli esseri umani non esitano a compiere delitti terribili; ma perché il godimento in sé dovrebbe essere un male? Sono pochi gli uomini che sanno assaporare il piacere e la felicità senza una, seppur leggera, sensazione di disagio, senza sentirsi anche un po’ in colpa; in colpa perché? Perché sono tante le sofferenze intorno a noi, perché sappiamo che la felicità senza una, seppur leggera, sensazione di disagio, senza sentirsi anche un po’ in colpa; in colpa perché? Perché sono tante le sofferenze intorno a noi, perché sappiamo che la felicità è fragile, fragilissima, ed è vero che sfuma con estrema rapidità, che può essere continuamente contraddetta, che può essere mista a disagi, sofferenze. Però la felicità esiste, talvolta ce la siamo sentita addosso. Il piacere guida continuamente ogni nostro gesto; nessuno, ma proprio nessuno, cerca volontariamente il dolore, il dolore in se stesso. Certo, una simile affermazione così chiara e semplice, di fatto è troppo poco, bisogna completarla. È giusto chiedersi quali piaceri e quale felicità. Vivere consiste anche nel lottare per realizzare un tipo di felicità contro un altro; allora, possono esistere due, tre, quattro felicità? In un certo senso sì, in quanto le felicità sono tante quante sono gli esseri umani, o meglio quanti sono gli istanti di vita di ogni essere umano. Per un altro verso la felicità è una, come il bene platonico, assolutamente indivisibile. La felicità è la felicità e basta: tautologia che sta a fondamento.

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Un aspetto ributtante del moralismo espresso dalla nostra cultura è l’esortazione alla rassegnazione. La morale della rassegnazione è quanto di più squallido, volgare e in ultima analisi immorale abbia prodotto il senso comune. In realtà, per fortuna, nessuno realmente si rassegna, anche se si cerca di insegnare la rassegnazione agli altri. Nei proverbi popolari e nelle omelie la rassegnazione è esaltata. Alcuni terapeuti della psiche, addirittura, fanno coincidere la rassegnazione con la guarigione, chiamandola «senso di realtà». È indubbiamente sano avere la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie possibilità; la realtà ha pur un significato sebbene ambiguo, ma troppo spesso la terapia tenta di smorzare le ribellioni e di reintegrare. Si è detto molto, anche troppo, e anche troppe sciocchezze sul fatto che spesso il terapeuta è un maestro di conformismo, che nel suo tentativo di attutire i conflitti e di far superare le contraddizioni che procurano angoscia, contribuisce ad appiattire il significato esistenziale del suo paziente, facendone un individuo più tranquillo, ma anche più ottuso e conformista. Questa affermazione è vera soltanto in parte; poiché in realtà, fin dal suo inizio, la psicoanalisi riuscì a smuovere tali e tante presenze nascoste, desideri innominabili, che la pur tanto auspicata, dallo stesso terapeuta, reintegrazione nella dinamica di una società normale, divenne obbiettivo assai difficile da raggiungere. Indubbiamente un terapeuta con una visione del mondo opaca, piatta e tradizionale metterà in luce alcuni aspetti e ne lascerà in ombra altri rendendo più quieto, sciocco e vacuo il suo paziente, che allora ricomincerà a vivere nella inconsapevolezza. Sebbene abbia sfiorato verità splendenti e terribili, la sua piccola strada analitica lo ha portato altrove. Non lo ha portato verso la guarigione: chi è sano non si rassegna mai, vuole andare ancora, sempre, oltre e contro. Contro, appunto, la rassegnazione.

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Finalmente, a venticinque anni, si decise a tentare anche la strada della psicoanalisi. I sintomi, negli ultimi quattro anni, erano diventati veramente pesanti: consistevano in un terribile mal di testa che insorgeva improvvisamente, refrattario il più delle volte all’aggressione degli analgesici anche potenti. I dolori al capo erano incominciati dagli occhi e lentamente si erano estesi a tutta la fronte e poi alla volta cranica e infine a tutta la testa, tanto che le dolevano anche le mascelle. Nelle crisi più forti doveva sdraiarsi ma con la testa non troppo bassa, doveva chiudere gli occhi e non poteva tollerare il benché minimo rumore, tanto che quelli che, malgrado tutto, trapelavano, provenienti dalla strada, le procuravano sensazioni dolorosissime, come se le si conficcassero nel cervello e poi esplodessero. Il pensiero non perdeva lucidità, ma era tanto stanca, non le riusciva di studiare, non aveva voglia di parlare, tutto era faticosissimo e lei diventava irascibile, intrattabile. I familiari temevano quei momenti, perché, oltretutto, vedevano quasi paralizzata la loro vita: si dovevano muovere in punta di piedi, non potevano usare elettrodomestici, accendere radio, televisore o giradischi; guai se una porta veniva chiusa troppo violentemente o se un oggetto cadeva: erano urla, strilli, pianti, recriminazioni. Quel terribile dolore nella testa la rendeva tirannica, ingiusta e cattiva, ne era consapevole. Raccontava delle sue sfuriate ai familiari per ogni più piccola cosa con atteggiamento mesto, compunto, ammettendo esplicitamente di essere insopportabile e che i suoi avevano proprio ragione ad essere esasperati. Sotto, sotto si sentiva però una grande soddisfazione, ma molto lontana, quasi impercettibile, il rammarico era anche sincero. C’erano poi i cosiddetti rituali ossessivi che l’avevano rinchiusa in una morsa terribile. Quelli non davano tregua. I dolori al capo, almeno qualche volta scomparivano lasciando una sensazione di euforia gradevole e poi un ricordo lontano, come se il male non ci fosse mai stato.

I rituali, al contrario, erano sempre lì. Come apriva gli occhi al mattino, a stento, perché la inchiodava un sonno di piombo, già i primissimi movimenti le erano imposti: bisognava scendere dal letto sempre da quella stessa parte, controllare che gli oggetti sul comodino, nella notte, non si fossero spostati e guardare intorno per verificare che tutto fosse come prima, come la sera precedente; poi le abluzioni in bagno, lunghe, lente, esasperanti. Prima bisognava lavare certe parti del corpo, poi certe altre e poi pulire il bagno con cura, perché neanche una goccia imperlasse il bordo della vasca o del lavandino e tutti gli oggetti andavano ordinati al loro posto. Era indispensabile una stanza da bagno soltanto per lei; nessun altro vi poteva entrare; i restanti membri della famiglia: il padre, la madre, un fratello e una zia erano relegati nel secondo bagno, con tutte le loro cose ammucchiate, insieme con la lavatrice e le ceste per i panni e lo stenditoio; guai se qualcuno entrava nel «suo» bagno, le prime volte avevano provato a farlo di nascosto, quando lei era fuori, ma se ne accorgeva sempre e allora erano tragedie. Poi bisognava riordinare la camera, spianare bene le coperte, che non facessero una grinza, mettere tutto in ordine; e le ore passavano e la stanchezza aumentava. Vi erano alcune parti della casa che poteva pulire soltanto lei, con meticolosa precisione. Le sue cose, i suoi vestiti, i suoi libri nessuno li poteva toccare o spostare. Per strada era un tormento, dover fare attenzione che nessuno la sfiorasse; non poté più prendere i mezzi di trasporto pubblici, poteva telefonare soltanto usando l’apparecchio di casa sua; al bar o al ristorante non toccava quasi nulla, con le mani o con le labbra: introduceva in bocca il cibo, cercando di non sfiorare il metallo della posata. La sera i rituali sembravano accanirsi contro di lei per impedirle di andare a dormire. Uno fra questi era a suo avviso particolarmente assurdo: nel salotto, sopra un mobile, c’era una statuetta che aveva una forma che le pareva coincidere con un disegno della tappezzeria alle pareti; prima di andare a letto l’ultimo gesto doveva essere di mettere quella statuetta in modo che guardando dalla porta risultasse perfettamente inserita nel disegno della carta da parati; da quel punto di osservazione controllava con attenzione e tornava più volte a spostare la statuina che non le sembrava coincidere a sufficienza col disegno, una volta dopo l’altra, e ancora e ancora, mentre nella mente si formava il pensiero che se non le fosse riuscita perfettamente l’operazione, se fosse andata a dormire senza aver raggiunto in pieno lo scopo, le sarebbe successa questa o quella disgrazia. Le venivano in mente idee terribili, pensava a punizioni. Che dovevano venire da chi? Lei non era religiosa, era atea, profondamente atea, assolutamente convinta della non esistenza di qualche ente supremo; quindi, chi poteva punirla? Eppure, se non riusciva a compiere uno dei gesti obbligati, se tentava di ribellarsi a quella imposizione, ecco che si faceva sentire una voce che le diceva: «Sarai punita!» Punita perché? Quale colpa aveva commesso? Punita da chi? Eppure la voce ripeteva inesorabile: «Sarai punita!». Qualche volta lei diceva: «No, non lo faccio». Allora di dentro le sorgeva un’ansia, un disagio, una paura; diventava ancora più circospetta, in attesa della punizione. Qualche volta la punizione era realmente giunta: dopo una sua ribellione a qualche rituale, era successo qualcosa di sgradevole; spesso proprio la realizzazione di ciò che la voce aveva minacciato. Certo, alcune altre volte ciò non era successo, però le sembrava che non fossero soltanto coincidenze. «Ma allora sono pazza? Io sento che questi rituali sono assurdi, sono una malattia». E lo diceva convinta, col suo fare compunto di ragazza seria e bene. Quando però parlava del disgusto che le procurava toccare la cornetta di un telefono pubblico; del disagio nell’essere sfiorata da qualcuno, si sentiva che, sotto sotto, lo riteneva ovvio, scontato: c’è tanta gente che puzza, che è sporca. «Però io sono esagerata, questi sono sintomi, io sono malata, molto malata e i miei familiari sono esasperati ed hanno ragione; mi accusano di essere debole; si accusano di avermi viziata troppo; ma loro non sanno…». Nel dire questo si ergeva un po’ con un gesto regale e imperioso. «…ma loro non sanno quanto io soffro; quindi mi debbono obbedire». Oppure accasciandosi: «Poveracci anche loro».

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Aveva dovuto interrompere gli studi, anche perché non riusciva mai a leggere più di tre o quattro pagine di seguito, doveva sempre tornare indietro e ripetere, controllare se aveva dimenticato qualcosa; e poi faceva schemi, schemi su schemi, per ricordare, ricordare tutto; e poi i riassunti; i riassunti erano spesso più lunghi del testo che riassumevano. Le piaceva la biologia, la affascinava; ma dopo alcuni esami all’università, esami sostenuti con grande successo, aveva dovuto smettere.
Era sempre stata ossessiva; sua madre racconta che da piccola, piccolissima era molto ordinata, guai se gli abiti erano sgualciti o avevano una macchia e così i suoi giocattoli, ordinati e puliti, nessuno poteva toccarli; però non era certo allora una cosa così tormentosa, pareva una ragazza precisa, forse un po’ pignola. Il fratello aveva due anni meno di lei, era un bellissimo ragazzo, lui sì che era felice, allegro, spensierato; aveva tanti amici. I genitori non avevano mai discriminato tra loro due, quel che poteva fare il maschio lo poteva fare anche la femmina; eppure lei provava, da sempre, un’invidia terribile per il fratello. Quando era piccolo, lo tormentava, era imperiosa, gli si imponeva, gli dava ordini continuamente; lui era abbastanza obbediente, cercava soltanto di sfuggirle un po’, eppure lei lo ha sempre invidiato. Parlava di un grande amore verso il fratello; ma anche qui in lontananza si sentivano esplodere pensieri di odio, un odio tenace e implacabile. A fatica, confessò che, quando era piccola, desiderava che il fratello morisse; le era venuto in mente mentre raccontava con attenzione i rituali: tra le disgrazie che la voce le minacciava, se non avesse compiuto il rito, c’era la morte del fratello, pensiero che la terrorizzava. Questa morte l’aveva anche molto desiderata e pensata consciamente e attentamente; aveva perfino fantasticato, e se lo ricordava benissimo, il modo di ucciderlo, poi se n’era spaventata, anche allora e aveva cercato di non pensarci più. «Però le mie disgrazie sono legate a lui, perché? Non lo posso dire, non ho il coraggio di dirlo, forse non ne ho il diritto». Io mi misi pazientemente ad aspettare, ancora ricordi, sogni, sogni terribili, pieni di aggressioni e di aggressività, e poi le solite lamentele, il racconto ostinato dei rituali, delle minacce da parte della voce interna. Finalmente un giorno si decise, mi disse: «Tutto cominciò quattro anni fa, entrai nella camera di mio fratello, credevo che stesse studiando con un suo amico, invece erano sdraiati sul letto e si baciavano; lui era sotto, mi guardò, quasi sorridendo, io inorridita richiusi la porta, ebbi il primo attacco di mal di testa».

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Questa è una storia come tante, affascinante come è affascinante la vita di ogni essere umano. Lo psicoanalista deve sapersi immergere in essa, abbandonarsi al racconto dell’altro, cercare di percepire e di rivivere in sé le sensazioni, le immagini. Senza dubbio, proietterà molto di suo, sovrapporrà sue sensazioni alle sensazioni di chi gli parla. Quando sente dire «una domenica di sole» deve saper ritrovare in sé emozioni, odori, malinconie, struggimenti, allegrie proprie delle sue domeniche assolate; ma che abbiano qualche cosa anche delle emozioni che gli vengono raccontate. Calarsi nella vita di un altro può essere difficilissimo, se si è ammalati, cioè se si è chiusi nelle proprie difese, se il narcisismo e il sadomasochismo costruiscono un velo compatto e rigido nei confronti degli altri e del mondo, altrimenti è facilissimo. Ogni seduta analitica è un frammento di vita altrui vissuta insieme: le emozioni e i pensieri si confondono. L’analista deve sempre saper distinguere tra ciò che è suo e ciò che è dell’altro; e poi, nuovamente sapersi confondere. Si accorgerà, fin dai primi incontri, che l’altro si comporta con lui come se egli fosse questa o quella persona che fanno parte di una vita che prima non è sua ma che poi diventerà anche sua. La vita del paziente lentamente si trasforma in qualcosa che appartiene anche all’analista pur restando la vita di un altro. Nella storia che ho raccontato il trauma immediato sembra evidente, anzi lo è, e la reazione è comprensibile: questa ragazza che ha assorbito i valori fondamentali della società in cui è nata, che non si è mai posta molti problemi, scopre improvvisamente che il fratello ammirato ed, anche, con tutte le ambivalenze, profondamente amato, è omosessuale e ne resta profondamente turbata; forse non è giusto, forse non dovrebbe essere così; però questo in realtà è solo l’ultimo episodio di una serie di avvenimenti che la hanno strutturata. Perché quei rituali che la imprigionano? Più ragioni contribuiscono a scrivere il copione di quei gesti, che confluiscono in un unico meccanismo difensivo. Il sadismo la porta a voler punire il fratello: non gli aveva mai perdonato di esistere, di sottrarle spazio con la sua presenza; e poi ancora non gli aveva mai perdonato di essere buono e bello, troppo buono e troppo bello; ma soprattutto non gli aveva mai perdonato di essere maschio. La liberalità dei genitori, indubbiamente encomiabile, risultò per lei terribile; perché il fratello non aveva privilegi? Avrebbe dovuto avere privilegi, perché era maschio, così voleva la società, così dicevano le sue amichette, se il fratello maschio fosse stato anche nella sua famiglia coccolato, privilegiato, se gli fossero state permesse cose che a lei erano proibite, avrebbe potuto tranquillamente prima invidiarlo e poi odiarlo; era invece rimasto libero un odio senza ragione, un’invidia per lui perché era maschio e basta; probabilmente le giunsero anche messaggi inconsci dagli stessi genitori: quel fallo era prezioso, un ornamento; eppure i genitori non volevano differenze; da sempre la madre le diceva: lui ha il pisello e tu hai la passerina; non c’è differenza, tu hai una cosa e lui ne ha un’altra, hanno lo stesso valore; e lei diceva: sì; ma non ci credeva.

Questa uguaglianza, per lei fu una condanna ad invidiare senza ragione; e poi l’invidia aumentò quando lui cominciò a giocare giochi da maschi, cui lei avrebbe voluto partecipare, ad appartarsi con i suoi amici. Lei rifiutava le sue amiche, non voleva i loro giochi; lei voleva andare con il fratello; ma gli amici di lui glielo rapivano; ed i genitori, soprattutto la madre, pacata e democratica, quando la scorgevano, irosa, tormentarsi per l’esclusione le dicevano: «Tuo fratello è libero di giocare con chi vuole. Lo sei anche tu; scegliti altri amici maschi». Ma lei non voleva gli altri maschi, voleva il fratello e i suoi amici, ma loro le sfuggivano. Ecco allora, le sue vendette, il suo bisogno di punire. I rituali non imprigionano soltanto lei, ma tutta la famiglia: fratello, padre, madre e … bisogna obbedirle: «Dovete soffrire per quello che non mi avete dato, per quello che lui ha avuto; dovete espiare soprattutto anche per la vostra tolleranza, che non mi ha permesso di odiarlo tranquillamente, per non aver commesso ingiustizie, per aver detto che io ero uguale a lui, che la mia passerina era uguale al suo pisello. Non è vero e io non voglio che sia vero, quindi dovrete essere puniti, prigionieri con me di questi gesti tremendi e feroci». Ed ecco il senso di colpa insieme con il bisogno di espiare. Ma la sofferenza non è mai ricercata per se stessa, deve trasformarsi in piacere; al sadismo si aggiunge quindi il masochismo: piacere di soffrire. In un gioco interminabile di proiezioni ed identificazioni le vendette, le sofferenze e i piaceri si mescolano.
I rituali hanno anche un’altra funzione difensiva: tengono lontani dalla coscienza i pensieri aggressivi nella loro immediatezza. Senza quei rituali, una folla di idee, pensieri, fantasie e desideri irromperebbero nella coscienza sommergendola: sarebbe lei stessa tutto ciò; conoscerebbe prima la depressione e poi forse la follia; questo lei lo sa, anche se non se lo è mai detto.

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Venne poi fuori chiara, esplicita, la sua voglia, da sempre, di essere maschio; ma non per rapportarsi alla madre, per la quale provava una sottile e indescrivibile nausea, e neppure per identificarsi col padre. Perché il padre non era ammirato? Perché aveva ceduto quel pisello, quel fallo, alla madre! Avrebbe dovuto darlo a lei, invece, ma soprattutto avrebbe dovuto tenerlo per sé, o forse darlo ad altri maschi, proprio come aveva fatto il fratello. Qui era il nodo di tutta l’analisi; qui un’esplosione spaventosa.
Era primavera, mi portò una scatola di cioccolatini, mi disse: «Sono molto buoni, mi piacciono, spesso me li compro e li mangio, di nascosto: non so perché di nascosto, nessuno mi direbbe nulla, eppure non voglio che lo sappiano, che mi vedano; neppure il mio ragazzo lo deve sapere, eccoli, sono per te».
Io la ringraziai posando sul tavolo la scatola poi soggiunsi: «Però c’è qualcosa di amaro che stai per dirmi».
Ci pensai un po’ e mi accorsi di aver detto una sciocchezza, mi corressi: «No, che tu vorresti che fosse amaro e invece è peggio». Fu un periodo veramente pesante e sconvolgente per lei.
Si accorse che forse da sempre avrebbe voluto essere un maschio, che va con altri maschi: il fratello l’aveva espropriata anche di questo, cioè di tutto.
La ricostruzione fu lenta, dolorosa, poi quieta e poi anche allegra, però quei cioccolatini continuano a piacerle e io non capisco perché.

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I rituali non sono ancora scomparsi ma si sono attenuati, così il mal di testa arriva ad intervalli sempre più ampi.
Ha parlato del fratello, dell’omosessualità. Questa è una storia che sembra chiara ma è molto oscura. Tante cose restano ancora da sapere. Ho raccontato di un lavoro che è in sviluppo, una strada che stiamo ancora percorrendo insieme; ma le cose principali sono state dette, sono state vissute. Certo, molto qui non è stato detto e altro ho potuto solo accennarlo. Ma questa storia sembra avere un senso, uno sviluppo, si può prevedere una conclusione felice; quella persona però poteva scegliere solo questa strada dopo aver aperto quella porta?
Un problema che non si risolverà mai. I gesti sono tutti frutto di una storia che affonda nel passato. Tutti i gesti: quelli che ci fanno soffrire e quelli che ci fanno godere, non sapremo mai se sono liberi o prigionieri di un meccanismo che ci trascende, che ci imprigiona; forse sarebbe inutile saperlo. Quello che mi preme adesso sottolineare è che questa è una storia diversa e simile a tante altre; la storia di persone che incontro, che lavorano con me, che io lentamente imparo a conoscere e ad amare, perché soltanto se le amo riesco a lottare insieme con loro e soltanto se loro mi amano riusciamo insieme a lottare.
Qualche volta loro riescono a guarire per me.
C’è ancora un’osservazione che voglio fare a conclusione di queste mie righe: il cosiddetto disagio psichico non ha bersagli preferiti socialmente. Il disagio più o meno grave, fino alla follia, può insorgere con la stessa frequenza e intensità sia nel maschio sia nella femmina, nel giovane e nell’anziano, nel ricco o nel povero, nel colto o nell’ignorante, nel cittadino e nel paesano; negli sfruttatori e negli sfruttati: la stessa incidenza; ed è proprio una banale osservazione statistica che mi fa dire questo e mi lascia perplesso; ma dietro a questa perplessità c’è il mio desiderio di capire perché.
Quindi il lavoro continua.