13 – Maggio ‘85

maggio , 1985

Rissosità

Una serie di problematiche terapeutiche ha scatenato il dibattito sulla scelta della cura, sul dovere di curare e sul diritto di essere curati. In particolare è sentito il peso sociale di alcune categorie di malati: gli inguaribili, i folli e i tossicodipendenti, i cui spazi di libertà individuale sono messi in più modi in discussione.
Per gli inguaribili si è giunti al punto estremo di polemizzare sul loro eventuale diritto alla buona morte, purché sia, beninteso, un esito più o meno deciso da altri e da altri direttamente agito, siano questi altri terapeuti o persone affettivamente significative, forti comunque di una delega loro concessa.
Dei diritti collegati alla delega si parla anche nel caso di tossicodipendenti che, consapevoli di una loro ridotta capacità di autogestione, hanno affidato alla comunità terapeutica il diritto-dovere della costrizione, anche violenta, al fine primario dell’affrancamento dalla dipendenza. La costrizione sembra poi avere finalità di controllo e di preservazione soltanto del gruppo sociale nel caso di persone, malate di mente e pericolose a sé e agli altri, che dal canto loro non hanno però mai pensato di affidare a chicchessia un mandato di controllo sulla propria libertà di azione. Tutti questi casi presuppongono comunque chiari concetti di cosa sia sano e cosa non lo sia, per una società che ha esclusivamente sé stessa come modello assoluto di riferimento. Dibattere di ciò è dunque rischioso perché significa risolvere conflitti tra il bene in generale e il bene individuale. Succede così che ognuno stabilisca la liceità del suo carcere, l’inevitabilità della correzione di quella che viene percepita come devianza e addirittura si arroghi il diritto di amministrare e somministrare la morte utile, o considerata tale. Particolarmente attivi nell’esercizio polemico sono i moralisti della politica, ansiosi di far coincidere la legge morale con la legge attiva da essi preventivamente stabilita, magari addirittura come trasgressione della legge imposta. La lotta viene così simulata sulle questioni di principio e nessuno è abbastanza onesto da dichiarare che si assolve o si condanna solo in base all’interesse di parte, perché solo così può essere e perché solo tra le parti avverse è lecito che avvenga la lotta. Costrizione e libertà, norma e devianza, salute e malattia sono concetti che non esistono senza la realtà delle persone che chiamiamo in causa. Il giudizio sul modo in cui ci si comporta deve essere dato di volta in volta, in base alla conoscenza delle situazioni e con la consapevolezza che anche il giudice opera perseguendo i propri fini – come hanno reso evidente in modo anche tragico le vicende giudiziarie di questi ultimi anni -.
La psicoanalisi stessa perde parte del suo significato quando non dichiara il proprio progetto e rischia di negare proprio la sua funzione fondamentale di riappropriazione della consapevolezza, se si sottrae all’esigenza della lotta. La lotta senza consapevolezza poi, anche quando simula di vertere sui massimi sistemi, è solo rissa all’interno della grande gabbia che qualcun altro chiude o apre a suo piacimento.