15 – Maggio ‘85

maggio , 1985

Marguerite Duras, L’amante (Feltrinelli 1985, pp. 123, Lit. 13.000).
La settantenne scrittrice francese ha alle spalle una lunga carriera e la versione cinematografica del suo romanzo La diga sul pacifico, ad opera di R. Clément, del 1958, l’ha resa popolare anche presso il grosso pubblico; popolarità nobilitata dalla stesura dei dialoghi e della sceneggiatura di Hiroshima mon amour, di A. Resnais, l’anno successivo. Meno comprensibile è la stima che le ha fatto vincere per questo romanzo il premio Goncourt per il 1984, perché il travestimento da opera letteraria di un raccontino insipido può ingannare solo chi sia del tutto inesperto e molto incolto. Parlare dei soliti brogli editoriali sembrerebbe una cattiveria: e allora? Con la forma del racconto autobiografico, l’Amante presenta, con salti cronologici avanti e indietro e frequenti passaggi dalla prima alla terza persona, la vita della protagonista in un momento particolare e nello scenario ampio del crollo del sogno coloniale francese in Indocina. Il momento è quello dell’incontro, sul traghetto che attraversa il Mekong, tra la ragazzina quindicenne e un giovane cinese. Il cinese, come è strombazzato su tutti i risvolti di copertina e nei dépliant pubblicitari, è un miliardario, e la cosa è supposta eccitare tremendamente le masse dei lettori. Come tutti i miliardari, il giovane cinese è però un infelice, tormentato, inoltre, dai riflessi della questione razziale. In un turbinio di amplessi, verginità perdute, ripetute docce afrodisiache, la giovane arrivista bianca vivrà il suo distacco dall’adolescenza simbolicamente culminante con la partenza del piroscafo che la riporterà in Europa.
L’autrice si preoccupa, anche, di concludere banalmente, citando la telefonata di trent’anni dopo tra lui sposato con una della sua razza e lei celebrata scrittrice, entrambi ricchi di soldi e di fama: ma privi dell’unico loro momento d’amore. Il tutto è farcito di tanti ingredienti: dall’ambiente famigliare franco-vietnamita, al collegio francese della colonia con l’obbligato contorno saffico. Nel racconto nostalgico del colonialismo francese di altri tempi, si confondono splendori di immense ricchezze perdute e miserie assolute, disperate, così profonde da diventare irreali. Irreale pare anche il quadro dei rapporti con la madre pazza e i due fratelli, uno buono e l’altro cattivo.

Lo stile letterario è stucchevole, di maniera, con un linguaggio (anche nell’originale francese) enfatizzato ed irritante per la volgarità degli effetti cercati. Uno sproloquio filosofico sull’immortalità che muore con la morte ha l’aria di un vero e proprio arrampicarsi sui vetri di chi in vita sua ha letto soltanto le prime diciotto pagine di un manuale scolastico di storia della filosofia ed è convinto che nessuno dei potenziali lettori abbia letto di più.