Archivio di marzo 1985

11 – Marzo ‘85

venerdì, 1 marzo 1985

Mozart, come tutte le figure importanti di una cultura, è circondato di leggende; su di lui si raccontano aneddoti e si favoleggia della sua straordinaria abilità musicale. In lui, però, c’è indubbiamente molto di più. Non soltando trascende le possibilità umane; ma, secondo noi, mentre il più grande compositore della storia della musica è J.S. Bach, Mozart non può essere ricompreso in quella storia dell’arte musicale, in cui sono compresi, oltre a Bach, tutti gli altri: Beethoven, Brahms, Debussy, eccetera. La musica di Mozart è la più alta espressione in assoluto (e sottolineiamo in assoluto) della cultura occidentale. La sua figura sconvolge, inquieta e innamora; egli non conduce la vita eroica tipica di altri geni: né conosce il terribile esilio di Dante, né muore nel modo sublime di Socrate. In lui, mito e verità si sovrappongono per descrivere una figura non catalogabile e non iscrivibile in nessuno schema. Il suo volto, perverso e ingenuo, si mescola alla musica delle sue note.

L’idea su cui si regge il film Amadeus di Milos Forman, tratto dall’omonima commedia di Peter Shaffer, ha una grossa efficacia teatrale ed emozionale e consiste nell’aver voluto partire da un bel personaggio: Antonio Salieri, buon musicista, pio e santo, che, con la sua musica, vorrebbe cantare le lodi del Signore; ma viene a contatto di un giovinetto, volgare e dissoluto, il quale, non solo scrive musica molto più bella della sua, ma addirittura realizza l’aspirazione, sempre inseguita dall’italiano, di far parlare la voce di Dio. L’odio che nasce dall’invidia e dall’amore spingerà Salieri a una lotta empia contro la divinità e contro il giovane salisburghese.

Non ci interessa qui affrontare il problema della veridicità storica dell’odio di Salieri, compositore di corte a Vienna, per Wolfgang Amadeus, e l’ipotesi non è un’invenzione di Forman, né di Shaffer che ha curato la sceneggiatura e la riduzione del suo testo teatrale, di cui ricordiamo una buona realizzazione al teatro Argentina, un paio di anni fa. La versione teatrale era indubbiamente più coinvolgente e concedeva meno ai facili colpi di scena e agli sbrodolamenti, di cui il cinema non può fare a meno, non soltanto per ragioni di cassetta, ma anche per motivi di linguaggio.

Il film di Forman è fatto veramente bene, di grande efficacia, con momenti di vera poeticità. La storia inizia con il vecchio Salieri, rinchiuso in manicomio dopo un tentato suicidio cui è giunto per il rimorso di aver causato la morte di Mozart. Salieri, interpretato da F. Murray Abraham, racconta ad un prete, venuto per confessarlo, come e perché si consideri l’assassino di Mozart. Si dipana così la storia del disperato amore del mediocre Salieri per il divino Mozart. Manca, purtroppo, nel film, il lungo monologo che, in teatro, il compositore di corte rivolgeva direttamente al pubblico, sostituito da un breve frammento nel quale il vecchio in carrozzella attraversando la corsia del manicomio si proclama campione di mediocrità. Quello che neanche Forman riesce a far venire fuori è la volgarità di Mozart, incarnato in modo più che adeguato da Tom Hulce, il quale è tenero, appassionato e bizzarro e raggiunge momenti di grandezza morale, come quando, davanti all’imperatore imbecille non esita a dire: merda! Questo è un gesto di fronte al quale il titanismo beethoveniano scompare. Crediamo che il doppiaggio abbia commesso un errore: la famosa risatina di Mozart, esplode infatti all’improvviso, come un tuono, senza senso e risulta del tutto incoerente col resto del personaggio.
Mozart lo si può vedere in mille modi diversi: la sua figura non ne soffre mai. Oltre alla prestazione dei due attori protagonisti ci è parsa buona anche l’interpretazione di Elizabeth Berridge, che rende bene il personaggio della moglie di Mozart, Costanza, anche nelle scene più ingrate. Il ritmo, per tutto il film, è costante, non c’è mai un momento di noia, aneddoti, veri ed inventati ad hoc, non danno fastidio. C’è soltanto una scena del tutto sbagliata, degna di un drammone di terz’ordine: la morte del salisburghese alla presenza di Salieri, con la moglie, appena tornata, che strilla. Troppo falsa, anche se non si fosse voluta rendere come è probabilmente avvenuta, poco dopo che Mozart aveva finito di lavorare alla stesura del Lacrimosa del suo Requiem, insieme con i suoi amici e collaboratori più fidati. Questa scena, coi due personaggi a diretto confronto, dà però adito ad un gioiello di rara godibilità: un’analisi musicale di un breve brano del Requiem, scomposto nelle sue varie parti: un pezzo utilissimo, dal punto di vista didattico, per chi voglia capire, in breve, quale è la struttura di un brano di musica e anche di grande efficacia drammatica.

Il film riacquista dignità nell’ultima scena: il funerale, descritto come vuole la tradizione, con il corpo di Mozart che, sotto la pioggia, viene buttato fuori dalla bara, in una fossa comune e coperto di calce.
La fotografia di Miroslav Ondricek è sempre riuscita a rendere climi ed atmosfere di grande emozione e l’apparente realismo risultava così accurato ed ammiccante anche nella cura dei particolari da essere tutt’altro che pura descrizione; particolarmente felice l’incontro tra il fotografo e lo scenografo Josef Svoboda nelle scene che riproducevano la rappresentazione in teatro di alcuni brani delle opere di Mozart.

Non sappiamo quanto il successo del film sia dovuto all’uso sapiente della musica mozartiana – il coordinamento musicale è di Neville Marriner -, però noi consigliamo a tutti di andarlo a vedere pagando il pesante pedaggio delle settemila lire della prima visione, quando il sonoro è ancora sopportabile. Al cinema, non sappiamo perché, l’aspetto acustico lascia sempre a desiderare: distorsioni, squilibri timbrici, rumori rendono troppo spesso sgradevole l’ascolto; quando la musica di questa colonna sonora uscirà da altoparlanti gracchianti in sale dalla pessima acustica, crediamo che il film perderà gran parte della sua efficacia. È un peccato, perché ci sono giochi musicali spiritosi, come la trasformazione, operata da Mozart, di una banale marcetta di Salieri nell’aria delle Nozze di Figaro: «Non più andrai…»; e sono presenti tanti dei brani più famosi, quelli che tutti hanno nelle orecchie, usati con efficacia, mai bistrattati, anzi assolutamente rispettati, se pure resi a brandelli. L’idea musicale è sempre presente in modo da avere un senso compiuto, ovviamente in relazione con la scena. Sono citazioni più o meno lunghe, che contribuiscono a dare tensione drammatica alla rappresentazione. Come, ad esempio, l’alternarsi del Flauto magico con il Requiem.

Che importa che di Mozart molto sia stato inventato? L’unica cosa vera è stata comunque detta: è stata la voce di Dio.

Psicoanalisi contro n. 11 – La bilancia d’oro

venerdì, 1 marzo 1985

Un antico filosofo greco disse: «Tutto è pieno di dèi». Questa profonda religiosità degli Elleni, è presenza collettiva e si fonda su di una teologia contraddittoria, senza dogmi, senza libri sacri ufficiali; libri sacri sono i canti dei poeti, le statue degli scultori, le pitture vascolari. Gli dèi sono chiamati immortali, ma la loro immortalità non abbraccia l’infinito: sono circoscritti nel tempo, non coincidono con l’assoluto, cui sono estranei, che loro sfugge.

Gli dèi sono nati; alle loro spalle bisognerebbe dire che c’è il nulla, se il nulla fosse esprimibile; ma il nulla è l’infinito. Gli dèi nascono, cominciano in un momento del tempo, sono figli del tempo, la loro vita si svolge nel tempo e non «muoiono» nel tempo. Anche per loro trascorrono gli anni, i secoli, i millenni; ma non raggiungeranno mai l’eternità. Che cos’è allora questo loro non morire? Che cosa vuol dire chiamarli immortali?

È una parola presa in prestito, forse da qualche altra teologia, oppure vuol semplicemente dire che gli dèi non conoscono lo strazio della morte, per tutti inevitabile. Ad essa sfuggono soltanto gli dèi, come se i Greci, condannati a morire dicessero: Che almeno qualcuno non muoia! La vita è troppo bella per essere distrutta dalla morte ineluttabile.

Gli dèi si possono sottrarre alla morte, ma non sfuggire al tempo. Questa è la prima contraddizione: essere nel tempo vuol dire, necessariamente, morire; il tempo sfugge, non ha dimensioni, è un istante; eppure se è un istante, esiste, una dimensione ce l’ha; solo che non è afferrabile. È come la sua raffigurazione: un robusto e maturo uomo barbuto, nudo, che fugge, con le ali e stringendo tra le mani un serpente e la falce.
Il tempo fugge, come se il tempo scorresse rapidamente. Il tempo è più rapido di ogni rapidità; il tempo è e non è più nello stesso tempo. Nello stesso tempo, il tempo è qualcos’altro dal tempo. Gli dèi non muoiono eppure sono nel tempo. Alcuni antichi filosofi tentarono di liberarli dalla necessità del divenire del tempo; ma la trascendenza non era un concetto proprio della mentalità degli Elleni; quindi Dio è ricompreso nel cerchio del tempo e rotea su se stesso, in un istante che si contraddice nel momento stesso in cui è, come il tempo contraddice se stesso.
La parola tempo non ha senso perché parla di un fluire che, forse, non è neppure un fluire: l’istante è eterno e negato; quindi non è eterno e non è negato. Gli dèi sono nel tempo come gli uomini; gli dèi non muoiono, gli uomini sì.

Gli dèi godono di un privilegio che per gli esseri umani è solo un desiderio. Gli uomini per poter pregare gli dèi devono essere in grado di pensarli, debbono raffigurarseli per sperare di poterli conoscere. Una religione è tanto più vicina all’uomo, quanto più la sua divinità è umana. Troppo spesso la trascendenza divina esprime un disinteresse dell’uomo per la divinità, più che un disinteresse di Dio per l’umanità. È l’uomo che respinge Dio, ponendolo così lontano da renderlo irraggiungibile, invisibile e inconfrontabile.
Gli antichi dèi, sull’Olimpo, nel mare, tra i boschi, nell’Ade e lungo i fiumi, vivevano una vita quotidiana ed eroica: scherzi, amori, baruffe, inganni, interminabili banchetti, intrighi sentimentali, gelosie, aggressioni. Gli dèi vivevano nel tempo e con il tempo: le loro avventure si ripeteranno finché ci sarà qualcuno che le racconterà; poi anche gli dèi spariranno.

Dove comincia il sacro e dove finisce il profano? Se gli dèi sono umanizzati, gli uomini somigliano agli dèi. Apollo tenta di abbracciare Dafne, che gli sfugge, Zeus rapisce il bel Ganimede. Gli dèi sono colti nudi, anche nei loro gesti sessuali. Gli dèi, nel mondo dei Greci, sono dappertutto, perché dappertutto è l’uomo e dappertutto è il mistero. L’uomo si proietta nelle stelle e vi si identifica, si proietta e si identifica nel vento, nel mare, nell’ombra. Gli dèi esprimono la presenza degli uomini dappertutto.
Gli uomini sanno che il mondo è creato a loro «immagine e somiglianza» e loro sono creati a immagine e somiglianza di Dio, come dice una frase biblica che, pur non appartenendo alla stessa antica mitologia, esprime però ugualmente bene la convinzione che l’uomo ha sempre avuto di essere dappertutto, come Dio. Dovunque è il mistero, il mistero di Dio e il mistero degli Dei. Trascendenza e immanenza; la divinità è oltre il mondo, ma è anche nel mondo: è il mondo.

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Chi è Dio? Era la domanda con cui iniziava il vecchio catechismo, dei cristiani, cattolici, apostolici romani, ai tempi di Pio X. La risposta non soddisfaceva, perciò si costringevano i bambini ad imparare la formula a memoria, a ripeterla, ritmandola, sotto le volte delle chiese, bei pomeriggi di primavera dedicati alla preparazione alla prima comunione, al banchetto col corpo di Cristo, Dio fatto uomo.
«Tutto è pieno di dèi». Presenza dell’uomo e presenza del mistero. Dove c’è l’uomo c’è la conoscenza; ma dove c’è la conoscenza, c’è anche la conoscenza del mistero; forse sarebbe meglio dire riconoscimento del mistero. Misterioso è il corso delle stelle, nonostante le navi spaziali; misteriosi sono i mari, nonostante le ricerche oceanografiche; misteriosi sono i fiori, nonostante la botanica; misteriosa è la vita, nonostante la biologia.

Misterioso è l’uomo, sconosciuto a se stesso, che continua ad inventarsi un po’ ogni giorno; ma ogni giorno i pensieri di oggi contraddicono quelli di ieri.
La dialettica hegeliana cerca di conciliare ciò che è inconciliabile. Il divenire del tutto, di tutto, si realizza attraverso tre momenti. Il primo è quello in cui qualcosa si fonda sulla sua necessità di dover essere, presenza concreta e ineludibile. Nel secondo momento, qualcos’altro si oppone: una contraddizione che è anche un superamento, ciò che è di oggi era anche di ieri. Successivamente, il primo e il secondo momento, tesi ed antitesi, si riconciliano nella sintesi; risultante che, però, è anche armonia, superamento e progresso. La sintesi, a sua volta, è fattualità di un evento necessario e, con una nuova contrapposizione e una nuova riconciliazione, tutto ricomincia e tende verso un progresso indefinibile, ma inevitabile. Il ritmo di valzer del filosofo tedesco vorrebbe accompagnare il divenire della storia e dell’universo; ma la musica del tutto non l’hanno scoperta i pitagorici e neppure i professori dell’università di Berlino.
Karl Marx, credendo di superare lo spiritualismo della dialettica hegeliana, ha chiamato lo spirito col nome di «materia», ricadendo involontariamente nel dominio della metafisica. Per le visioni metafisiche, non ha senso la divisione tra spirito e materia: dialettica dello spirito o materialismo dialettico non sovvertono realmente i principi; negano la trascendenza per sostenere il valore dell’immanenza; ma la materia non è meno spirituale dello spirito il quale, a sua volta, non è meno materiale della materia. Spirito e materia sono due parole che hanno la stessa astratta concretezza, sono un flatus vocis.
Marx aveva ragione nel dire: Hegel non è un cane morto. Neppure Karl Marx è un cane morto. Marx ed Hegel sono entrambi ben vivi e continuano a latrare alla luna. Ma, è utile la luna ai cani, e sono i cani utili alla luna? Forse, la filosofia è tutta qui.
Marx ha tentato di radicare nel concreto le proprie fantasie metafisiche, parlando di bisogni; ma i bisogni sono desideri e oltre egli non ha saputo andare, perché non era tempo.
Non ha disvelato la realtà; ne ha dato una chiave di lettura estremamente feconda, se pure troppo positivistica, troppo ingenua e anche un po’ triste. La lotta politica non deve essere soltanto tristezza, sebbene possa partire dal disagio della tristezza.
Da una visione della metafisica sono passato a parlare dei bisogni secondo Marx e poi alla lotta politica. Si lotta perché si è a disagio e perché si spera di stare meglio nel mondo. Perché si possa stare meglio si devono realizzare i desideri; ma non tutti i desideri e non i desideri di tutti. Non i desideri degli sfruttatori, per esempio. Allora gli sfruttatori non debbono lottare per realizzare i loro desideri? Gli sfruttatori non dovrebbero esistere, mi si potrebbe rispondere. Ma, se esistono, rimane la profondità del desiderio su cui bisogna fondare la lotta. Il desiderio si deve fondare su altro: su di un altro desiderio o un altro aspetto del desiderio.
Per Hegel e per Marx tutto è tensione e risoluzione della tensione, in un divenire che, ad un tempo, è assoluta prigionia e continua liberazione.
Visioni, queste, del mondo e della storia di cui è nutrita la cultura di oggi.
Punto di riferimento anche per l’uomo moderno rimane però la pregnante e splendida frase dell’antico filosofo: «Tutto è pieno di dèi».

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Gli dèi sono in rapporto con gli uomini, sono simili agli uomini, come gli uomini sono simili agli dèi. Gli dèi però affondano la loro natura nel mistero. Un mistero che avvolge le cose, la vita e la morte. Gli dèi stanno nel mezzo, la loro natura è ambigua, come ambigua è la vita umana, o meglio: come ambiguo è il suo significato. Il destino, presenza inquietante per la teologia ellenica, è continuamente sentito, con il suo peso, ma anche con la sua contraddittorietà. Gli dèi dispensano all’uomo la fortuna e i mali, ma a loro volta sono condizionati dal destino. La profonda religiosità dei Greci si ribellava quando la forza ineluttabile degli eventi sembrava dominare lo stesso Zeus. Nell’epos la Moira è abbastanza in accordo col sommo dio. Abbastanza: Zeus, talvolta, tenta di ribellarsi, forse potrebbe; ma non lo fà; gli altri dèi non approverebbero se egli, con il suo potere, contraddicesse troppo il corso del destino: «Terribile Cronide, che parola hai detto. Uomo mortale, da tempo dovuto al destino. Vorresti strappare alla morte lugubre gemito? Fa’, ma non tutti ti loderemo noi dèi». (Iliade, XVI, 440)

La Moira è la parte assegnata ad ognuno, ciò che delimita la vita dell’uomo; è la sua parte di tempo, e il tempo è interrotto dalla morte:

«Allora Zeus, agganciò la bilancia d’oro, le due Chere di morte lunghi strazi vi pose, quella d’Achille e quella d’Ettore domatore di cavalli la tenne sospesa pel mezzo: d’Ettore precipitò il giorno fatale… ». (Il. XXII, 208)

Moira e Morte sono strettamente legate. Così dice Esiodo: «… La notte generò l’odiosa Morte, la nera Chera e il Trapasso. Generò il Sonno, e con esso, tutte le specie di Sogni, e li generò da sola, senza giacere con nessuno, la tenebrosa Notte. Poi generò Sarcasmo, e la Sventura dolorosa e le Esperidi, che al di là dell’Oceano maestoso, hanno cura dei frutti d’oro e degli alberi che portano quei frutti. Mise al mondo anche le Moire e le Chere, implacabili vendicatrici, che perseguono le colpe contro gli dèi e gli uomini, dee il cui temibile sdegno non s’esaurisce prima di aver inflitto al colpevole, qualunque egli sia, una pena durissima… Moire a cui il prudente Zeus ha accordato il massimo privilegio, Cloto, Làchesi e Atropo, che, sole, agli uomini mortali danno felicità e sventura». (Teogonia, 140 e sgg. 904 e sgg.)
Le Moire qui sono tre e così rimarranno nella teologia successiva: le grandi filatrici. Zeus parrebbe, nel passo esiodeo, arbitro del destino, perché egli stesso affidò alle Moire il loro ufficio.

Zeus ha loro assegnato un potere che derivava da lui, oppure ha assegnato loro soltanto un compito che affonda in qualcosa che sta alle spalle di Zeus stesso? Qui sembrerebbero dispensatrici di bene e di male e vendicatrici, come se fossero il braccio della giustizia degli dèi onnipotenti. Queste figure sono ancora più imprecise ora che sono diventate tre: il poeta﷓teologo, forse, cerca di sottrarre Zeus e gli uomini all’inevitabilità del destino. L’immagine poetica ha sopraffatto la lucidità del teologo; ma, come ho già detto, in tutta l’antichità i più grandi teologi sono proprio i poeti, insieme con gli altri artisti. Perciò la teologia si nutre di avventure e di fatti meravigliosi.
Le Moire non sono vere e proprie dee, anche se saranno venerate in Grecia e pure a Roma, ma con un culto discreto, quasi timoroso. Le Moire, come le Parche latine, non hanno mitologia, come non ha mitologia la forza oscura di cui esse sono espressione: il destino, il Fato.
Fatum, «parola detta». Detta per la forza della parola o detta perché racconta un destino che sarà inevitabile? Da molte fonti appare chiaramente, però, che anche gli dèi sono prigionieri di questo destino: «È impossibile sfuggire al destino già fissato anche per un dio». (Erodoto, Storie, I, 91) Tutto deve accadere nel modo prescritto:

«Tutto il futuro
conosco esatto e chiaro,
mai nessuna sventura verrà nuova.
Bisogna che sopporti la mia sorte,
pazienti, riconosca
che la forza del destino non si vince».
(Eschilo, Prometeo inc., vv. 105 sgg.)

Forse si può rallentare il corso degli eventi predeterminati: «…non gli fu possibile piegare le Moire. Tutto quello che esse gli hanno concesso, egli ha compiuto e ne ha fatto grazioso dono a Creso: poiché per ben tre anni è riuscito a protrarre la caduta di Sardi; e sappia appunto, Creso che è stato fatto prigioniero in ritardo di questi tre anni sul tempo fissato dal destino». (Erodoto, ibidem)
Si diceva anche che le Moire fossero figlie di Zeus e di Themi, la dea che rappresenta l’ordine naturale: la legge e la necessità; non tanto ciò che è giusto, ma ciò che non potrebbe essere diverso da come Zeus, con la sua bilancia ha stabilito che fosse: «…quando Zeus le bilance inchina, che è l’arbitro delle battaglie umane» (Iliade, XIX, 224). Gli antichi speravano che gli dèi potessero difenderli dal destino; ma gli dèi stessi ne sono prigionieri, pur essendone anche i dispensatori: lotta e accordo continui.
Poi, quando l’astrologia prese piede, ecco che l’oppressione delle stelle si fece sentire di più: la parola moira fu sostituita da heimarmene, un meccanismo naturale. Ancora la divinità può proteggere, ma la sua protezione è ora più incerta.

4
L’uomo è libero e, allo stesso tempo, prigioniero del destino; oltre gli antichi non hanno voluto andare. Hanno compreso che andare oltre sarebbe stato grottesco. Gli eroi della tragedia sono uomini che hanno un destino sulle spalle; ma vogliono essere padroni delle loro scelte; si oppongono talvolta anche agli dèi e gli dèi li puniscono: oltre non si può andare.
L’uomo ha bisogno di scegliere o almeno di credere di poter scegliere. In seguito filosofi, teologi e riformatori continueranno a dibattere il problema del libero arbitrio: l’uomo, di fronte alla onnipotenza e all’onniscienza di Dio, è libero? La risposta non sarà univoca. Sopraggiunse poi la scienza: l’universo è un grande meccanismo di cui l’uomo non è che un piccolo elemento, componente minima di una macchina gigantesca, in cui forze e contro﷓forze, continuamente, si oppongono, attraendosi e respingendosi. Come può l’essere umano operare una scelta? Non può che fare quello che fa, prigioniero di forze che si scontrano, fuori e dentro di lui: le pulsioni. Un modo di chiamare con un altro nome le energie che si scontrano nell’universo.

Sigmund Freud, nato nell’Ottocento, e figlio dell’ingenua tracotanza della scienza, metafisicamente, non accetta il libero arbitrio. Pulsioni e conflitti costituiscono il vivere di ogni giorno: la psicopatologia della vita quotidiana come la vita della nevrosi e della psicosi. Al di là del principio del piacere c’è una pulsione imperscrutabile, che distrugge la vita e riporta tutto all’inorganico: meccanismo di un meccanismo, del quale l’uomo è assolutamente prigioniero.

5
La filosofia osserva e descrive, la scienza dovrebbe prevedere, intervenire e curare; ma, per prevedere, intervenire e curare, la scienza deve saper descrivere. Se, però, la descrizione porta alla conclusione che tutto ciò che è deve, necessariamente, essere così come è; e deve accadere soltanto ciò che, di fatto, accade, la previsione resta sì possibile, ma l’intervento e la cura? Anche l’intervento e la cura sono inevitabili: l’uomo vuole intervenire e vuole curare, e interverrà come è necessità che intervenga. La cura non è una scelta, avrà un esito, fasto o nefasto, positivo o catastrofico; ma tutto, per questo tipo di scienza, è già determinato. La lotta e la speranza si intrecciano in un balletto, forze e pulsioni si oppongono e precipitano, da un lato e dall’altro, come la bilancia d’oro di Zeus. Una certa filosofia e un determinato tipo di scienza sarebbero d’accordo, a questo punto, nel togliere all’uomo ogni illusione. L’essere umano, se non si vuole disperare, deve cercare altrove; se non vuole cadere nella disperazione per l’inutilità dei suoi gesti. Soltanto l’illusione salva l’uomo: la scienza e la filosofia sembrano portarlo alla disperazione, perché scienza e filosofia paiono alleate nel dare all’uomo solo la consapevolezza dell’inutilità della scelta.

Forse le cose non stanno proprio così. Io posso fantasticare che la condizione umana sia diversa: la previsione non prevede un ineluttabile svolgersi degli eventi. L’essere umano interviene e spera in un esito felice; ma l’esito è già determinato? Forse no. La cura consisterà solo in gesti rituali che avranno un solo esito possibile? Forse no. Eppure la scienza ha bisogno della previsione. Chi interviene e cura deve sapere quale effetto avranno i suoi gesti terapeutici, altrimenti si muoverà alla cieca e insulsamente. In tal caso, la cura non sarebbe cura; ma un intervento dissennato, frutto di una spontaneità bizzarra e, di fatto, inefficace.
Anche lo psicoanalista deve poter prevedere per poter intervenire; deve poter conoscere i meccanismi che presiedono al divenire psichico. Ho usato il termine meccanismo, sto quindi ricadendo nell’atteggiamento di chi considera l’essere umano solo un piccolo ingranaggio inserito in un macchinario più grande; e mi si ripropone il problema dell’utilità dell’intervento: intervengo, infatti, ma sono espropriato dei miei gesti. Chi interviene, allora, per me? Chi è colui che cura? I miei gesti restano miei e mia rimane anche la capacità di prevedere, se sono un buon terapeuta. Bisogna conoscere le cause, fare una diagnosi ed essere anche capaci di una prognosi.

6
Anche la scienza psicologica ha scoperto la statistica. Già l’aveva scoperta la vecchia medicina; quando raccontava i segni della malattia, consigliava la terapia e stabiliva le probabilità di guarigione del male. La statistica è utile nei casi di intervento farmacologico o chirurgico: se si fanno assumere all’organismo precise quantità di sostanze, se si incide o si asporta con precisione, ci sono possibilità determinate che l’azione sui succhi, sugli umori, sui riflessi del corpo umano provochi la regressione o la scomparsa dei sintomi o dei disturbi funzionali. Se il dosaggio è perfetto, se l’intervento è efficace, l’organismo umano non è libero di non guarire. Nessuna terapia prevede il cento per cento di esiti favorevoli; ma questo dipende dall’impossibilità di conoscere con precisione assoluta e di controllare le cause e le concause, gli effetti principali e secondari, per quanto perfezionati possano essere gli strumenti di indagine. Il farmaco, se pure non è efficace al cento per cento, permette però al medico di comportarsi come se fosse certo, dopo aver conosciuto le cause, almeno della sua prognosi. Se l’organismo umano non è libero di ammalarsi o di non ammalarsi, e neppure di guarire o non guarire, e ciò avviene soltanto perché una ridda di forze ignote fa pendere da una parte o dall’altra la bilancia di Zeus, come può la psiche umana comportarsi diversamente?

I discorsi della statistica si riallacciano al calcolo delle probabilità; ma il calcolo delle probabilità è una frivola ciarla matematica. Ogni avvenimento rimane unico e non ha nessuna importanza, matematicamente, che, in condizioni simili si siano verificati eventi simili. Ciò che è probabile non è perciò più o meno possibile. La possibilità è un concetto fisico o metafisico? Domanda che resterà per sempre senza risposta; almeno fino a che noi ci fonderemo sulle probabilità e la scienza continuerà a basarsi su esperimenti che su questo calcolo si fondano; ignorante delle cause prime.

7
Osservo l’essere umano che è di fronte a me: le sue dinamiche interne, i suoi conflitti con se stesso e con il mondo. Conosco l’efficacia del disvelamento e conosco anche l’inefficacia del puro e semplice disvelamento. Intervengo: l’errore è sempre possibile; ma io debbo essere in grado di prevedere l’effetto dei miei gesti terapeutici.
L’inefficacia terapeutica è soltanto frutto dell’ignoranza o è anche frutto di una libertà intrinseca al divenire del mondo e al dispiegarsi della vita umana?
Che il medico cosiddetto «del corpo» possa prevedere l’efficacia dei suoi medicamenti, possa conoscere il decorso della malattia, non turba nessuno; anzi: deve essere così; ma se lo psicoanalista conosce il divenire della psiche e prevede il comportamento dell’essere umano, fa paura; si teme che la persona intera sia espropriata della sua libertà e, se ne è espropriato il paziente, lo è pure il terapeuta.
Resta il fatto che l’intervento terapeutico ha senso solo se si contempla la possibilità di conoscere e prevedere i comportamenti umani; l’effetto dei gesti della cura deve corrispondere in qualche modo alle ipotesi da cui il terapeuta si muove, in modo che egli sappia anche dosarli, in modo da renderli sempre più efficaci.
Asclepio era un dio, Ippocrate non lo era; ma entrambi cercavano di opporsi al destino.
Ma che senso ha opporsi al destino? Asclepio e Ippocrate non potevano far altro che colmare il destino, essere strumenti del suo disegno.

8
Io sono seduto nel mio studio, una persona è davanti a me, mi racconta la sua vita, ed io comincio a strutturare quella storia, a studiarne le cause e gli effetti. Io ho una mia teoria per cui credo che a determinate situazioni debbano seguire alcuni fatti; ed ecco che la storia di quella persona si dipana di fronte a me: molte cose sembrano conseguenza di altre. Talvolta, il mio stesso interlocutore, guardandomi fisso, mi dice: «Era ovvio che io reagissi così! » Oppure: «Come poteva essere altrimenti?» Poi si snodano le fantasie, i sogni, i sintomi, frutto della confluenza di più forze in conflitto tra loro.
I sogni vengono da molte parti. Distesa nel suo letto quella persona ha elaborato una rappresentazione, talvolta interrotta da un brusco risveglio, che ha fatto esplodere il sogno come una bolla di sapone, magari solo perché il cane del vicino ha abbaiato alla luna. La luna era lì, in quell’istante. Poteva non esserci? Avrebbe potuto il cane non abbaiare e non causare l’improvviso risveglio? Il sogno si è interrotto lì.

Io dico sempre, a coloro che mi raccontano i sogni: «Tu sei l’autore del sogno, quindi sei responsabile, non solo delle azioni che nel sogno tu compi, ma anche di quelle che compiono tutti gli altri personaggi. Tu hai scritto il copione, tu sei il regista, si potrebbe dire anche che sei sia l’attore principale sia l’interprete di tutte le altre parti».
Di dove viene questa mia espressione: — Sei responsabile —? Il sogno avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato? Talvolta, poi, capita qualcosa che, se ci ripenso, mi stupisce e mi turba: saluto quella persona che mi sta lì davanti e, per un istante, ho la percezione di sapere cosa farà domani.
Se ha fatto quel sogno, se ha quel passato, e io ho detto quello che ho detto, domani non potrà che compiere quell’azione. Talvolta immagino anche il contenuto dei sogni che farà. Molto spesso tutto ciò che ho previsto si verifica: magia o scienza, o ritorna il vecchio discorso del calcolo delle probabilità?
Di fronte a un problema che pare insolubile, io ritengo che l’atteggiamento umanamente più valido, poeticamente e scientificamente più fecondo, sia quello degli antichi Elleni: ci si deve comportare «come se». Come se il mondo fosse determinato, tutto fosse scritto e la previsione fosse possibile; ma anche come se fosse vero il contrario.
Due righe solo per la conclusione di un problema così importante… ma oltre non si deve andare.

11 – Marzo ‘85

venerdì, 1 marzo 1985

In Piazza S. Apollonia, vicino al Teatro Belli, c’è l’Hostaria der Belli, dove si può cenare anche dopo teatro. È un’osteria trasteverina di sapore sardo-marinaresco, anche se in realtà ha, secondo noi, la vocazione della cremeria: la panna pervade tutto, cola, schizza e gorgoglia. Prima una carrellata di antipasti: strane cose non identificabili chiaramente, fredde, rinsecchite, quasi mummificate. Poi, spaghetti alla vernaccia, non cattivi anche se tendenti al pastrocchio. La pasta dei ravioli sardi è fatta con cura, e così quella degli gnocchetti, ma dava fastidio quella salsetta cremosa e insapore. Tra i secondi un sauté di cozze, con qualche guscio di troppo, ma senza panna; un vero delirio i tournedos alla Rossini, dove la carne affogava nell’intingolo dolce di panna e marsala, più adatto a ricoprire delle meringhe. Assurdo il formaggio arrosto col miele, assurdo che il formaggio fosse così cattivo. Abbiamo tentato di operare una scelta ragionata dei vini, ma è stato difficile perché o erano finiti, o non erano in fresco, oppure, ancora, erano solo in bottigliette col tappo a vite da trentatre centilitri. Elencando di seguito: un Nuragus di Cagliari insipido e anonimo, un vermentino di Alghero di Sella e Mosca, industrialissimo e dal sapore metallico; un Cannonau di Parteolla, imbevibile, vero e proprio infortunio sul lavoro. Non male un mirto e il fil e ferru finali. Il prezzo è consolantemente onesto.

Il ristorante di Carmelo La rosetta, in via della Rosetta 9, proprio a un passo dal Pantheon, è uno dei più vecchi ristoranti di Roma; gode di un grande prestigio, molti ne parlano addirittura con reverenza. Si mangia solo pesce, cucinato in vari modi, con alcune variazioni sicule. Il locale punta su di uno stile rustico-opulento, di maniera, con poco buon gusto nell’assommare un arredamento composto di troppe cose in poco spazio. Gli avventori, messi gomito a gomito, sono turisti con molti quattrini, grossi borghesi fuori a pranzo, uomini d’affari e politici con tempo per digerire. La tavola è mal apparecchiata e vi impongono il vino bianco in bicchieri di vetro larghi e bassi, riservando il bicchiere a stelo agli spumanti.
La qualità del pesce non è all’altezza di un locale di quella fama: le ostriche fresche sono un po’ asciutte e fibrose, il polpo in insalata è duretto e condito da un sugo casalingo e sciatto; la spigola cruda al limone è però gradevolmente fresca e gustosa. La zuppa di pesce risultava un’imprecisata brodaglia in cui qualche brandello di polpa sfatta teneva compagnia a troppe lische. Le pennette alla siciliana sono state una simpatica sorpresa: la pasta era molto cotta, ma il sugo alle sarde era proprio buono. Stucchevoli e dolciastri invece i gamberi al vino bianco.
I profiteroles erano di cartone, mentre la coppa di gelato al cioccolato era squisita, tanto che ci è venuta la tentazione maligna di chiedere dove l’avevano comperata. Abbiamo bevuto un gradevole se pure banale Sauvignon del Collio dell’83 e un piacevole e sapido Greco di Tufo.
Per tutto il pasto, siamo stati torturati da un orrendo signore che, parlando spagnolo e bevendo vino rosso col pesce, ci appestava l’aria col fumo del suo sigaro. Basterebbe la buona educazione e non ci sarebbe bisogno di un ennesima legge, per impedire che si fumi al ristorante. Il prezzo ci è parso elevato, ma non esorbitante.

11 – Marzo ‘85

venerdì, 1 marzo 1985

Vogliamo parlare dei due concerti della Stagione sinfonica dell’Accademia di S. Cecilia, all’Auditorium di via della Conciliazione, nel mese di febbraio, sotto la direzione di Giuseppe Sinopoli. Insieme, le due serate permettono di avere una visione esauriente del mondo musicale di questo ottimo direttore d’orchestra: i due programmi infatti comprendevano brani di autori degli ultimi tre secoli, in una scelta antologica che richiede una profonda conoscenza della storia della musica, degli stili e delle atmosfere musicali. Un interprete, quando balza da Schoenberg a Mozart, deve riuscire ad entrare nello spirito di climi culturali e di strutture linguistiche molto diversi tra loro; contemporaneamente deve però essere capace di legare con la propria personalità le due interpretazioni. A Sinopoli ciò è riuscito meravigliosamente bene: non un errore di stile, attenzione per i diversi impasti sonori, secondo le epoche e la tradizione, riuscendo sempre a far brillare la qualità del suo personale buon gusto. Di ogni autore ha cercato di scavare nel profondo, penetrando la partitura e mettendone in luce anche gli aspetti strutturali ed emotivi più nascosti; il tutto unito a una pastosa semplicità, quasi la musica sbocciasse per una sua dinamica interna, senza sforzo.

Il primo concerto è iniziato con due brani orribili: le Due espressioni per orchestra, di Luigi Nono, composte nel 1953. Un assemblaggio un po’ particolare di strumenti: fiati, archi e percussioni che dipanavano un susseguirsi di suoni e timbri, insulsi e volgari; potremmo dire, la spazzatura di Webern. Un discorso sgradevole senza logica e, tutto sommato, frivolo. Forse qualcuno avrà capito che a noi Nono non piace proprio per niente, ed è vero, perché lo consideriamo uno dei più grossi bluff dell’Italia musicale contemporanea.

L’orchestra si è sforzata di dare il meglio di sé, il direttore era attento nel far risaltare il possibile, ma non diciamo di più.
In tutt’altra atmosfera si è entrati con la Kammersymphonie in mi maggiore per 15 strumenti solisti, op. 9 di Arnold Schoenberg, del 1906. Un’orchestra, limitata nel numero dei suoi elementi, presenta qui un brano compatto, se pur diviso in sezioni, di una equilibrata perfezione; le stratificazioni tonali e timbriche lo rendono di facile e difficile lettura, allo stesso tempo. Tutto è conseguente, quasi ovvio, eppure anche nuovo e inaspettato. Perfetta l’interpretazione di Sinopoli: i suoni sembrava che uscissero direttamente dalle sue mani, sensuali e precisi.

La Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore, op. 60 di Ludwig van Beethoven, del 1806, è stata nella sua totalità interpretata in modo superbo, coerente e personale. Sinopoli ha messo in evidenza l’aspetto misterioso e, nel primo tempo, quasi di attesa; un’intensa espressività si stemperava senza sforzo in momenti di meditazione. Malinconico il secondo tempo, che si snoda su di un ritmo preciso e morbido. Veramente piacevole, nel terzo tempo, tutto costruito su domande e risposte, ascoltare i frammenti melodici e armonici che scivolavano senza sforzo gli uni negli altri. Nel quarto tempo, che ha la briosità di un’ouverture teatrale, serpeggiava di nuovo il mistero, un po’ ammiccante ed estremamente sensuale, proprio come in una gustosa rappresentazione scenica; anche qui Sinopoli è stato splendido.
Nel secondo concerto, all’orchestra di S. Cecilia si affiancavano la pianista Marta Argerich e l’oboista Augusto Loppi; il programma comprendeva: il Concerto in do maggiore per oboe e orchestra, K. 314 di W.A. Mozart, il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore, per pianoforte e orchestra, op. 19 di L. van Beethoven e la Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore D. 485 di Franz Schubert.

È molto difficile ascoltare una degna interpretazione della musica di Mozart. È una musica troppo difficile e troppo profonda per i più. La minima slabbratura diviene macroscopica, un arpeggio troppo brillante infastidisce, perché ci si accorge che, nonostante la precisione timbrica e sonora, ne è andata perduta la stupenda sacralità. Noi, che vorremmo sempre ascoltare musica di Mozart, non siamo quasi mai soddisfatti del modo in cui viene eseguita (abbiamo ancora nelle orecchie la frivolezza del violino di Uto Ughi che, proprio nella stessa sala, il 23 gennaio, ha suonato Mozart come se fosse Paganini). Siamo stati pienamente soddisfatti dell’interpretazione che Sinopoli e l’oboista Loppi hanno dato del concerto in do maggiore: fin dal primo accordo dell’orchestra, perfetto, morbido e contenuto, abbiamo capito che ci saremmo potuti rilassare ed ascoltare con piacere. L’impalpabile e sottile trama della musica mozartiana era messa in evidenza senza forzature e stupidi saltelli che, troppo spesso, incipriano la musica di questo compositore che, se pure è pienamente del proprio tempo, per un altro verso, è al di fuori di ogni collocazione temporale. La mirabile sonorità dell’oboe si esprimeva in un fluire gradevole, ma attento a non mandare perduta neppure una briciola e ad evidenziare la profonda e disarmante semplicità melodica. Orchestra e solista hanno realizzato un piccolo gioiello nell’interpretare il secondo movimento; solo una volta ci siamo accorti di un’attesa di troppo: smarrimento? Il finale, di straordinaria piacevolezza, pur rispettando il ritmo, non lo imprigionava ed è stato porto con virile tenerezza.

Sempre ottima, da parte del direttore e dell’orchestra, l’interpretazione del concerto di Beethoven di cui ci hanno dato una lettura sobria, corretta e attenta. Più discontinua l’esecuzione di Marta Argerich che, pur dimostrando una buona precisione e un fraseggio assennato, ci è parsa, in alcuni momenti, contratta in qualche bizzosa rigidità: le note finali di una scala o di un arpeggio risultavano in tal modo squilibrate, sproporzionate e dure. Meccanici e troppo bruschi i passi contrappuntistici nel primo tempo. Nel secondo tempo, la Argerich ha dato il meglio di sé, con un buon fraseggio, sentimentale, ma non sdolcinato. Buono il finale, ben reso nelle molteplici e spensierate sfaccettature. La bella quinta sinfonia di Schubert ha concluso degnamente l’ottimo concerto; questo compositore, secondo noi, non è soltanto un grande melodista, ma riesce anche ad elaborare con astuzia magistrale gli sviluppi dei temi. Sinopoli è riuscito sia a far brillare le melodie, sia a guidare l’orecchio alla scoperta dell’intima struttura del discorso orchestrale. Echi mozartiani si udivano ovunque; ma, soprattutto nel bellissimo secondo tempo, l’interpretazione dell’orchestra, ben guidata, ha evidenziato l’arcaico sapore di chiesa. Il minuetto non ha smentito l’impressione di grande bravura e ciò è valso anche per il finale, solido e pungente.

Psicoanalisi contro n. 11 – Il colore dei capelli

venerdì, 1 marzo 1985

Vivere è mettere in scena uno spettacolo. Nessuno racconta soltanto con la voce: guardate qualcuno al telefono sbirciatelo di nascosto: è solo in una camera; l’altro interlocutore è a chilometri di distanza; eppure, quella persona, con i gesti, con l’espressione del volto, accompagnerà quello che dice, mettendo in scena una vera e propria recita; anche, con il corpo che nessuno vede. Neppure il gentiluomo più compassato parla movendo soltanto le labbra. Imitazione ed espressione si mescolano nella rappresentazione; esprimersi ed imitare è tutto ciò che può fare l’uomo vivendo. Gli eremiti, nel deserto e nelle caverne, recitavano per le stelle, per le rocce, per le formiche, per i fantasmi della loro infanzia. L’uomo viene al mondo e rappresenta se stesso, rappresenta un uomo che rappresenta un uomo che rappresenta; ma la rappresentazione, fingendo, rende vero ciò che è nella fantasia. Da sempre, vi è anche il piacere di rappresentare uno spettacolo consapevolmente: cioè, dire, a se stessi e agli altri: ecco adesso ci esibiamo, mettiamo in scena una storia, una fantasia; mostriamo e dimostriamo, narriamo ed imitiamo diciamo esplicitamente che noi siamo anche gli altri; o meglio, siamo soltanto altri. Chi assiste non ci crede, ma fa finta; finta di credere che qui noi siamo gli altri, col canto, col corpo, con la danza, parlando ad alta voce, i corpi nudi o vestiti in un cerchio magico e sacro. Questo era ed è il teatro: sacro; perché non c’è differenza tra il rito e la rappresentazione.

È superfluo avere due parole diverse per designare realtà che sono identiche. Nel cerchio della antica orchestra si realizzava la magia e la fascinazione; non suggestione ma scienza allo stato puro. Il fondamento della scienza sta nel teatro, entrambi sono descrizione ed esperienza, che modificano il mondo accompagnando e mutando il corso degli eventi.

Il teatro interviene nella vita mutandola con accondiscendenza: di fronte ad uno spettacolo lo spettatore ritrova se stesso perché capisce, capisce il mondo e i propri sentimenti, e il divenire dei fenomeni. Il laboratorio di uno scienziato è l’ombra di una rappresentazione teatrale; così un trattato di scienza, di fisica, biologia, chimica, non sono altro che un copione più o meno ben scritto. Ogni cultura ha espresso formule teatrali tipiche. Il teatro occidentale comincia sui campi e sui declivi delle colline dell’antica Grecia, ma noi conosciamo quelle antiche forme teatrali quando già sono vecchie e ben strutturate in generi con formule e moduli che esprimono un linguaggio da tutti comprensibile e organico.
La storia del teatro non comincia, può soltanto continuare. Oggi il teatro si chiama anche cinematografo: forma di spettacolo un po’ più mummificata, talvolta, leggermente cadaverica. Nel buio, una ridda di immagini bianco﷓nere o variopinte: il cinema è più frigido, osceno e stantío, ma è teatro, una delle forme di teatro. Noi conosciamo gli splendidi testi dei tre tragici del V secolo a.C.; poi, di altri autori solo alcuni quasi inutili frammenti. Del teatro greco ci è rimasto pochissimo. Ne conosciamo abbastanza bene gli edifici e la loro evoluzione, conosciamo l’abito e le maschere degli attori conosciamo le teorie sulla tragedia e sulla commedia elaborate dagli antichi stessi.In realtà, però di quell’antico teatro non ci è rimasto quasi niente. Le parole sono troppo poco. Euripide era più grande come autore delle parole o come compositore della musica? Una tragedia greca senza danza è un’altra cosa, quindi, noi conosciamo un altro teatro greco. Eppure, quel poco che è rimasto è splendido. Per fortuna che la cultura greca è esplosa come il Partenone. Una esplosione salutare ha distrutto a sufficienza un’eredità troppo grande per poter essere tramandata. Archeologi, filologi, storici dell’arte e del teatro raccontano una Grecia molto inventata. Poi il teatro è continuato: a Roma nelle piazze e nei teatri. Nel Medioevo la comunità intera si raccoglieva nelle sacre rappresentazioni o attorno a giullari e saltimbanchi. Nelle sale dei palazzi dei principi rinascimentali, nuovamente commedie e tragedie scritte, con musica e costumi. Dilettanti gli attori, professionisti gli spettatori; e, nuovamente, si costruiscono e progettano teatri per il teatro: Palladio, nel cuore del seicento a Venezia il San Cassiano, Wagner, Gropius. E gli autori scrivono i copioni: prima l’elenco dei personaggi, la descrizione della scena, poi le battute. Un nome, due punti; un discorso diretto, un altro nome, due punti, e così via. Ogni tanto, tra parentesi, le didascalie. Si dice che quando il teatro ha un linguaggio in assoluta armonia con gli usi i costumi e la cultura della propria epoca, le didascalie siano ridotte al minimo perché si sa come si deve fare, l’autore scrive soprattutto i dialoghi. Questa è una semplificazione, sebbene non del tutto falsa. È vero che gli autori di teatro scrivono i testi e scrivono le didascalie. Ma quando la rappresentazione è ricca e l’intento dell’autore è quello di fare qualcosa di nuovo, di usare un linguaggio inconsueto, le didascalie prendono corpo, si gonfiano, perché la tradizione non viene in aiuto: l’attore, il regista o colui che mette in scena, il capocomico non saprebbero che fare, le parole delle battute sono insufficienti. Oggi è ritornata di moda la musica anche nel teatro che privilegia la parola parlata.

Il cinema ha insegnato al teatro parlato l’importanza del linguaggio musicale che si intreccia a quello della parola. L’autore di teatro scrive, soprattutto, il testo: quindi, la sua opera si inserisce nella storia della letteratura. La storia del teatro si realizza altrove si realizza nella messa in scena: costumi musica e scenografia. Il testo teatrale nasce ogni volta che viene rappresentato, sempre un po’ diverso. Soprattutto dall’ottocento in avanti la parola parlata ha spadroneggiato nelle rappresentazioni teatrali. Gli attori parlano, parlano, parlano; certo, si esprimono anche con il corpo, con i passi di danza, muovono oggetti; sono circondati da luci, colori, fondali, quinte… ma soprattutto, gli attori parlano. Ed ecco il teatro di parola, quello che realmente è soprattutto parola. Teatro borghese, si è detto, ma non soltanto. Lunghissime scene con persone che parlano intorno ad un tavolino e prendono il tè: i sentimenti, i tradimenti, i padri, le madri, i figli, le parole rotolano nella sala, gli spettatori si commuovono, potrebbero anche chiudere gli occhi, tutto si capisce. Il teatro di parola è un modo di fare il teatro, ma non è il teatro che a me piace. Eppure il teatro di parola, oggi, spadroneggia e spadroneggia proprio oggi che è considerato un po’ superato. Ne sono vittime gli uomini di teatro, i registi soprattutto. I registi sono una strana fauna: in genere sono autori frustrati che usano il loro potere per riscrivere un testo altrui. Un tempo lo facevano i mattatori, che aggiungevano, toglievano, variavano il testo. Oggi lo fanno i registi; lo fanno anche le compagnie, che senza regista, mettono in piedi, collettivamente, lo spettacolo. Tutti costoro sono vittime del teatro di parola, tutti credono che, nel teatro, l’elemento fondamentale, essenziale, indispensabile, sia la parola parlata. Alcune messe in scena invero, fino a qualche anno or sono, manipolavano anche le cosiddette battute che venivano tagliate, stravolte, cambiate, anteposte o posposte; pratica che è ora meno in auge: chi fa così ormai fa parte della retroguardia.
Quest’operazione è, però, forse meno scorretta di altre, anche se ugualmente irritante, perché il risultato, nella maggior parte dei casi, è soltanto peggiore di quello che si sarebbe ottenuto rispettando il ritmo interno voluto dall’autore del testo; ma questa è una considerazione ‘a posteriori’, in teoria avrebbe anche potuto migliorare il testo.

Ciò che si deve giudicare è lo spettacolo, così come viene realizzato, come vive nel breve spazio magico della rappresentazione.
Io sottoscrivo in pieno l’affermazione che ho appena fatto: è una verità a cui credo fino in fondo.
Il teatro è lo spettacolo.
Si può giudicare il testo teatrale leggendolo anche come se fosse un romanzo o una novella, immaginandolo, magari, sulla scena: però, resta letteratura.

A me non piace la tirannia della parola, in teatro; eppure, tutti sono ritornati ad esserne vittime, e forse lo sono sempre stati, grazie anche, ai registri tracotanti, che non sanno leggere, per intero, i copioni.
Questi registi fanno recitare agli attori tutte le battute, ben imparate a memoria poi, se la didascalia dell’autore dice: c’è un divano rosso; loro mettono due poltrone verdi; se c’è scritto: il mendicante, con il cappello in mano, si sposta da destra verso sinistra; loro decidono che deve tendere la mano e rimanere assolutamente fermo, in mezzo alla scena.
Non parliamo, poi, di quell’assoluta idiozia teatrale per cui si ritiene cosa molto originale far recitare le Coefore di Eschilo o altra antica tragedia, in abiti moderni, ambientata magari in un paese a regime dittatoriale dell’America Latina.
Queste sono stupidaggini che dimostrano soltanto poca fantasia.
È veramente triste che le didascalie del copione, poche o tante che siano, non vengano, spesso, rispettate; come se un gesto fosse meno importante di una frase detta.
Perché, se la contessa dice: «Marchese Ademaro, voi mi avete tradito», e la didascalia richiede un abito bianco, il bianco dell’abito è meno importante del tradimento di cui la contessa è consapevole e accusa il marchese?
L’abito bianco è una battuta, perché, in teatro, tutto è teatro: il gesto, la musica il colore dei capelli.
Alcune didascalie, e questo è merito soprattutto dei grandi autori, non c’è neppure bisogno di scriverle, cioè di scriverle concretamente, tra parentesi, in quanto sono il dialogo e l’azione stessa che le suggeriscono.

I cattivi uomini di teatro non tengono conto delle didascalie implicite, che sono le più belle e quelle più difficili da leggere. Una battuta, talvolta, impone un gesto e soltanto quel gesto, per sempre: quel gesto non è meno importante della battuta. Eppure, l’inganno della parola fa sì che si rispettino le battute, ma non i gesti col loro significato. Ma, allora, che cosa rimane della creatività del regista, dell’attore, dello scenografo? Se sono intelligenti, se sono uomini di teatro, se non sono schiavi della parola, rimane moltissimo. È proprio quando essi sono corti di ingegno che hanno più bisogno, per affermare la loro autorità, di non lasciare il copione intatto, come è stato scritto; ma non è variando il testo dell’autore che si dimostra originalità di invenzione; ma è scrivendo, insieme con lui ciò che lui non ha scritto: perché non ha saputo, potuto o voluto. Perché autore del testo non è soltanto il signor Bertold Brecht, il signor Renato Simoni. Autori del testo sono anche il regista, l’attore, lo scenografo, il musicista, il costumista il tecnico delle luci.

Perché il teatro è tutto questo, e la storia del teatro è fatta di tante rappresentazioni, di cui bisogna rispettare anche la didascalia che dice: cala la tela.

11 – Marzo ‘85

venerdì, 1 marzo 1985

Nuto Revelli nel suo libro L’anello nello forte (Einaudi, 1985, pp. 501, Lit. 18.000) ha intervistato tantissime donne, contadine delle campagne piemontesi attorno a Cuneo ed Alba, ma spingendosi molto giù nella pianura e molto su sulle montagne. Il lavoro è stato accurato e ha richiesto parecchi anni. Molte delle donne intervistate sono vecchissime, essendo nate ancora negli ultime due decenni dell’Ottocento; giovani, invece, sono le «calabrotte», provenienti dal sud e principalmente dalla Calabria, venute spose dei contadini locali, che nessuna donna del nord più vuole, perché oggi conviene sposare chi abbia un lavoro in fabbrica e abiti in città. Questo è un modo di fare storia, ed è un modo interessante: è la gente stessa che racconta il proprio mondo, inserendovi brandelli di quegli avvenimenti di cui i libri della storia ufficiale ci raccontano, con spocchia minuziosa, aspetti e cause economico-politiche.

Perciò quasi tutte le cose che vengono dette si leggono con interesse e attenzione. Si entra dentro una società che è ancora reale ed esistente: molte affermazioni fanno riflettere e servono a capire un po’ di più il mondo e gli esseri umani. Forse i discorsi delle intervistate sono un po’ monotoni, poiché trattano quasi sempre gli stessi problemi, e ciò forse è conseguenza della scaletta delle domande: i rapporti famigliari, la miseria, l’educazione sessuale e la religione. Sono comunque temi fondamentali, per cui si resta coinvolti e si segue con attenzione ogni passaggio. Purtroppo la figura della donna contadina ne esce malconcia: il libro risulta essere profondamente contro le donne. Nuto Revelli non lo sa, senz’altro non ne sono consapevoli le intervistate, però, attraverso le loro parole, quelle donne risultano essere ricattatrici, avare e invidiose. In tutte appare un odio furibondo per i giovani, un odio acre, risentito; un’assoluta mancanza di coscienza della vita. Prima raccontano le loro miserie, quanto stavano male quando erano giovani e poi concludono: «…la gente non è più di buon umore come una volta… Adesso sono mai contenti di niente… Vogliono la libertà? E se la prendano la libertà. Ma la libertà passerà anche per loro…». Oppure: «Io ho sempre solo sofferto nella mia vita… Eppure io ero più felice allora che adesso». Certo, questa è la morale che hanno anche insegnato i preti; ma in queste donne c’è disumana durezza, non si vede amore per nessuno: né per i mariti: «… noi eravamo tutti e due freddi e non ci siamo mai scaldati. Era una cosa contraria a me, una cosa che non mi piaceva». Né per i figli: «Ma li ho comprati per forza. Fosse dipeso da me neanche uno». Qualcuna parla male del potere esercitato dal marito-padrone; ma quasi tutte si contraddicono e svelano quanto grande fosse il potere delle donne, anche in quella società: «Noi abitavamo con nonno e nonna, era nonna che comandava, ed era molto di chiesa… controllava che suo marito e suo figlio assistessero sempre alla messa completa. Anche mia mamma era sottomessa a mia nonna, la subiva per forza…» A volte il giudizio vorrebbe essere positivo ma: «Mia suocera comandava tutto lei, mi voleva un gran bene, non ho mai avuto una parola con lei». Altre volte il parere è più brutale: «In casa comandava la suocera, la padruna. Eh, comanda chi tiene il portafogli. Senza soldi non vale comandare».

A loro volta, esse sono diventate suocere e il mondo non è ancora cambiato, checché loro ne dicano. Finché le donne saranno così e i maschi accetteranno certe stupide recriminazioni, colpevolizzandosi, il mondo non cambierà. Certo, i maschi sono stupidi e violenti, ma non più di queste truculente vecchiacce e neppure di queste giovani «calabrotte» che stanno arrotando gli artigli: «Siamo centinaia noi del Meridione sposate nelle Langhe. Solo del mio paese… siamo una trentina… Laggiù è difficile per una ragazza a sposarsi».

11 – Marzo ‘85

venerdì, 1 marzo 1985

Non eravamo seduti molto comodamente al Teatro Tenda di piazza Mancini e faceva troppo caldo, noi eravamo però curiosissimi di assistere alla rappresentazione di un testo che non conoscevamo ancora, interpretato da due attori che ci sembra di conoscere da sempre: Quasi per caso una donna: Elisabetta di Dario Fo.
Dopo una breve e spiritosa introduzione storica all’argomento di cui tratta la commedia, fatta dallo stesso Fo, incomincia lo spettacolo vero e proprio. Elisabetta è nel suo appartamento, attrezzato con pochi e vistosi elementi di arredamento, tra i quali si notano, oltre al letto a baldacchino, un enorme cavallo bianco di legno e un manichino vestito di un abito scuro; in questa unica stanza si svolgerà tutta l’azione nei suoi due tempi. Gli interpreti sono: Dario Fo e Franca Rame con Anna Maria Lisi, Giorgio Biavati, Ubaldo Lo Presti, Giuliano Bison, Raffaele Arena, Mario Pirovano. Gli elementi della storia che si intrecciano intorno alla figura della Regina Elisabetta sono: l’ombra di Maria Stuarda, l’incombente colpo di Stato e l’amore per il Conte di Essex, per il quale Elisabetta vuole diventare bellissima con l’aiuto di una vecchia praticona: la donnazza.

Dappertutto si infiltra William Shakespeare, con il suo Amleto. Il testo è costruito con una sbalorditiva sapienza teatrale: l’umorismo più esplosivo copre per quasi tutto lo spettacolo una tensione drammatica acutissima: la morta Maria Stuarda, cugina di Elisabetta, incombe come una presenza metafisica.
Tutti dialogano con Amleto e le battute shakespeariane, talvolta accennate, si intrecciano continuamente con l’azione che si va svolgendo. Elisabetta ha paura di Shakespeare, come tutti i potenti hanno paura dei poeti. Gli intrighi politici richiamano, ovviamente qualche volta, la situazione dei nostri giorni; ma il teatro di Fo non è politico per questo. Non è la battuta trasparente sui Servizi Segreti ad avere carica eversiva, quanto piuttosto la bellezza del testo, che ha gli accenti della commedia antica ed è provocatorio, perché turba tutti gli imbecilli e i vili: alle nostre spalle, un gruppo di costoro, indignati, uscirono durante il lungo monologo finale della Regina, facendo volutamente rumore e mormorando che Fo era diventato un intimista reazionario.
I veri artisti sono sempre scomodi; quando credi di aver loro imposto di ripetersi, e sei tranquillo anche delle loro provocazioni, ecco che paiono improvvisamente cambiarti le carte in tavola e ti sbattono ancora addosso una realtà nuova, di fronte alla quale tu, perbenista di sinistra, rimani sconvolto. Indubbiamente, il monologo conclusivo di Elisabetta è una pagina di poesia drammatica, alta e sottile, senza plateali demagogismi: è una donna che ha paura, è una regina che teme il proprio e l’altrui potere, e poi, ancora, è una donna innamorata e prova rimorsi e viene assalita dagli squilibri della follia: entra ed esce dai panni di Amleto, in cui vuole e teme di riconoscersi. Dove è il potere di Elisabetta? Dalle sue parole salta fuori l’inconscio e l’intimo tormento della sua psiche: essere o non essere qualcos’altro? Quasi, per caso, una donna. L’interpretazione di Franca Rame è magistrale: sapida, gustosa, grottesca quando deve far ridere; delirante e terribile quando si propone di annichilire il pubblico. Splendida la presenza scenica di Dario Fo: attore elisabettiano, con tutte le astuzie barocche, che si concretano in un virtuosismo che diventa poesia. La sua donnazza riusciva talvolta ad ipnotizzare, recitando con il volto, con una mano o con un piede.
Non riusciamo a capire perché il personaggio di Marta, dama della Regina, fosse reso da Anna Maria Lisi in modo sempre così furibondo. Tutti gli altri sono stati corretti. Gli elementi scenici e musicali sono risultati efficaci e gradevoli. Lo spettacolo, nell’insieme, ci ha dato un senso di appagamento e di pienezza; ma anche di turbamento.

Verdinvidia, di e con Grazia Scuccimarra, al Teatro in Trastevere di Vicolo Moroni, è uno spettacolino divertente. Con un piglio un po’ da professoressa in cattedra, la Scuccimarra parte proponendosi di canzonare i maschi, mettendo in ridicolo la loro viltà, volgarità, debolezza e stupidità.
Inoltre, sfidando il Padreterno, vuole, dosando ingredienti nelle provette, creare un maschio migliore di quello attualmente in circolazione. Il risultato che l’autrice riesce a raggiungere, l’effetto più pungente della sua satira, non è tanto distruttivo nei confronti dei maschi, quanto pesantemente ironico verso la coppia eterosessuale; infatti la donna-tipo del maschio in questione risulta essere non meno vile, volgare, debole e stupida, ma con un difetto in più: appiccico
sa. Tanto che bisognerebbe rifare anche lei.
Il testo, purtroppo, gioca quasi tutte le sue carte fin dall’inizio, perciò risulta, in seguito, ripetitivo e alcune gags paiono quasi fuori argomento, un pretesto per colmare un vuoto. La Scuccimarra, coadiuvata da una muta collaboratrice, Giovanna Brava, si prodiga sputando anche l’anima, con mimica e gesti che ravvivano la scena assai povera di elementi, giocando con telefono e microfoni, facendo balzi e appiattendosi contro i fondali, con rabbia e civetteria. Ne viene fuori uno spettacolino di cabaret, un po’ datato e senza troppe pretese; ma non sgradevole. Il professionismo dell’autrice-attrice fa comunque aggio sull’ideologia trita con cui ammicca ad un pubblico non dei più acuti. Le musiche sono di Pino Ciancalosi.

11 – Marzo ‘85

venerdì, 1 marzo 1985

Anniversari

Non si può certo rallegrare del tentativo di repressione che, ancora una volta, la magistratura sta operando, in più situazioni, nei confronti della libertà di stampa. Certo è che, di rado come in questi casi, è difficile provare umana simpatia o comprensiva partecipazione per le posizioni delle due parti in causa, tanto la lotta sembra riguardare solo l’alternarsi delle vicende di due forme conclamate di abuso di potere.
Dell’abuso di potere della magistratura si è sempre parlato attraverso la carta stampata, dell’abuso di potere della stampa si è anche ampiamente discusso, ma soprattutto attraverso la stampa medesima.
Del punto raggiunto dall’informazione e dai mezzi di opinione non c’è motivo alcuno di soddisfazione.
Ci sono giornali che hanno trent’anni e fogli che hanno un anno: farebbe piacere potersene rallegrare; ma stare allegri è difficile, perché chi ha un anno non possiede elementi sufficienti per augurarsi longevità; mentre chi di anni ne ha trenta può spacciare per fenomeno di costume l’instaurazione di un regime di malcostume giornalistico, preoccupante proprio per la credibilità che è riuscito a costruire intorno a sé.
Una credibilità che parte dalla professionalità; ma che arriva al ricatto. Il ricatto è senz’altro una delle caratteristiche di ogni sistema di potere e scandalizzarsene troppo è ingenuo: è più utile opporsi.
Si crede, molto spesso, che esistano responsabilità impersonali dei sistemi che non comprometterebbero necessariamente la qualità degli individui: ma è la moralità degli individui che costruisce sistemi immorali. L’immoralità professionale è una delle colpe sociali più gravi.
Si può decidere di fare un mestiere, oppure si può essere costretti a farlo; ma è importante farlo con onestà. Sommamente disonesto poi è usare le armi del proprio mestiere per mettere in dubbio, in malafede, l’onestà altrui, tacendo la propria incompetenza su argomenti specifici e basando le insinuazioni sulla diversità delle opinioni e delle ideologie, oltre che su una razzistica intolleranza, mascherata da critica di costume. Accade così che, sfogliando un florilegio della saggistica di costume degli ultimi trent’anni, si vedano incautamente accostati articoli di coraggiosa denuncia e sghignazzanti tentativi di linciaggio. Quaranta anni di falsa democrazia e trent’anni di manipolazione delle opinioni ci hanno insegnato l’indifferenza verso le vittime: da Aldo Braibanti a Giuliano Naria, insieme con l’indiscriminata assuefazione a sorridere di tutto: della droga e della psicoanalisi, dell’aborto e della camorra. Se gli psicoanalisti d’assalto ci hanno fatto, col tempo un inconscio così, i giornalisti selvaggi hanno aiutato il sistema ad uccidere, per anestesia progressiva, giorno dopo giorno, ogni residuo delle nostre coscienze. Del resto, se è opinione radicata che il diritto stia dalla parte della tiratura, è anche vero che un trentennio può risultare più nefasto di un ventennio.

11 – Marzo ‘85

venerdì, 1 marzo 1985

Al Salone Renault di via Nazionale abbiamo visto la mostra di Pietre e marmi di Paul Popple, tutte opere di un periodo compreso tra il 1980 ed il 1984. Popple è uno scultore nato in Vietnam nel 1953, ma inequivocabilmente americano, benché ora viva ed operi, per lo più, in Italia. È stato veramente coraggioso ad esporre opere così insulse e dissennate proprio a diretto confronto con le automobili del Salone che, sepure di plastica, hanno un senso che è possibile cogliere anche con un rapido sguardo. Invece quei bellissimi materiali sono usati dallo scultore in modo da uscirne sviliti, umiliati e offesi, per l’assoluta ottusità estetica e poetica che esprimono. È persino triste toccarli – e così piacevole allo stesso tempo – marmo, pietra serena e travertino, breccia e lava del Vesuvio si articolano in frammenti, ora grezzi ora tirati a lucido, e la fantasia immagina quali belle forme potrebbero fiorirne, in luogo di quelle piatte geometrie o noiose spirali, di quelle forme accostate con la triste banalità dei soprammobili da grande magazzino. La mostra è stata un’operazione di mecenatismo: forse è un’attenuante, forse no. Danno allora risultati migliori le operazioni dei mercanti?

Eccoci ora in una galleria in cui non c’entra l’amico di Orazio: siamo al Primo Piano, in via Panisperna 203, dove espone Antonio Violetta, scultore italiano, nato a Crotone nel 1953, e la nostra desolazione aumenta. Non c’è neppure più la piacevolezza dei materiali: qui le poche cose sono soltanto brutte. Grigie piattaforme di metallo scuro, quadrate o rettangolari, la cui superficie increspata è talora solcata da tracce, come di ruote su di un terreno fangoso, qua e là qualche crepa. Opere per le quali una presentazione dell’autore rivendica un «risultato di effetti simulati molto complesso e raffinato, dietro l’apparente semplicità, anzi spontaneità». Si esce con un po’ di tristezza e si prendono appunti in gran fretta, per la paura di dimenticare troppo presto quel che si è visto.

Due piani sopra, nello stesso vecchio palazzo, alla Galleria Pieroni, espongono Gilbert & George e la mostra reca il titolo: Live’s. Questi due signori inglesi, definiti a suo tempo come concettuali, sono dei simpaticoni che, però, fanno male tutto quello che fanno. Forse avrebbero la vocazione dei corniciai, perché i ritagli fotografici in cui consistono le loro opere sono sempre messi sotto vetro e incorniciati con brutte, ma precisissime cornicette. Ci pare di ricordare che sono esigentissimi nel pretendere vetri dalle misure esatte e dagli angoli perfettamente a squadra, facendo penare non poco i vetrai cui perviene la commissione. Cerchiamo di descrivere l’opera tipo, che consiste sempre, in queste ultime mostre, di frammenti quadrati di fotografie, che vanno a formare un gigantesco pannello, quadrato o rettangolare, su cui sono operati interventi grafici e coloristici di varia natura. I differenti soggetti vorrebbero avere ispirazioni e motivazioni diverse, ma l’intenzione si ferma ai titoli: Cry, Seed, Three Ways, Fallers, Calls, NewLand, Dream, in realtà, l’aria che si respira è sempre la stessa, sia che una fila di scarpe gialle da jogging scandisca in due parti uguali la geometria dell’opera, sia che i tre ragazzi colorati e di colore stiano all’ombra di una margherita, sia che due banane restino sospese su di una mischia di figure umane e vegetali. Sempre lo spirito che ne emana è lo stesso che si riflette sui volti dei due artisti, riprodotti in varia guisa in quasi tutte le opere in mostra: una vuota ostinazione a giocare coi materiali più insignificanti, nella speranza che il gioco continui a pagare, come sta pagando da circa vent’anni. Un gioco che ha permesso a due onesti contabili della City di proporsi come soggetto artistico, sfruttando la malafede colpevole di chi, per paura di non aver capito, fa sempre mostra di capire tutto e tutti. Ma qui non c’è niente da capire e abbastanza poco da vedere.