Psicoanalisi contro n. 11 – La bilancia d’oro

marzo , 1985

Un antico filosofo greco disse: «Tutto è pieno di dèi». Questa profonda religiosità degli Elleni, è presenza collettiva e si fonda su di una teologia contraddittoria, senza dogmi, senza libri sacri ufficiali; libri sacri sono i canti dei poeti, le statue degli scultori, le pitture vascolari. Gli dèi sono chiamati immortali, ma la loro immortalità non abbraccia l’infinito: sono circoscritti nel tempo, non coincidono con l’assoluto, cui sono estranei, che loro sfugge.

Gli dèi sono nati; alle loro spalle bisognerebbe dire che c’è il nulla, se il nulla fosse esprimibile; ma il nulla è l’infinito. Gli dèi nascono, cominciano in un momento del tempo, sono figli del tempo, la loro vita si svolge nel tempo e non «muoiono» nel tempo. Anche per loro trascorrono gli anni, i secoli, i millenni; ma non raggiungeranno mai l’eternità. Che cos’è allora questo loro non morire? Che cosa vuol dire chiamarli immortali?

È una parola presa in prestito, forse da qualche altra teologia, oppure vuol semplicemente dire che gli dèi non conoscono lo strazio della morte, per tutti inevitabile. Ad essa sfuggono soltanto gli dèi, come se i Greci, condannati a morire dicessero: Che almeno qualcuno non muoia! La vita è troppo bella per essere distrutta dalla morte ineluttabile.

Gli dèi si possono sottrarre alla morte, ma non sfuggire al tempo. Questa è la prima contraddizione: essere nel tempo vuol dire, necessariamente, morire; il tempo sfugge, non ha dimensioni, è un istante; eppure se è un istante, esiste, una dimensione ce l’ha; solo che non è afferrabile. È come la sua raffigurazione: un robusto e maturo uomo barbuto, nudo, che fugge, con le ali e stringendo tra le mani un serpente e la falce.
Il tempo fugge, come se il tempo scorresse rapidamente. Il tempo è più rapido di ogni rapidità; il tempo è e non è più nello stesso tempo. Nello stesso tempo, il tempo è qualcos’altro dal tempo. Gli dèi non muoiono eppure sono nel tempo. Alcuni antichi filosofi tentarono di liberarli dalla necessità del divenire del tempo; ma la trascendenza non era un concetto proprio della mentalità degli Elleni; quindi Dio è ricompreso nel cerchio del tempo e rotea su se stesso, in un istante che si contraddice nel momento stesso in cui è, come il tempo contraddice se stesso.
La parola tempo non ha senso perché parla di un fluire che, forse, non è neppure un fluire: l’istante è eterno e negato; quindi non è eterno e non è negato. Gli dèi sono nel tempo come gli uomini; gli dèi non muoiono, gli uomini sì.

Gli dèi godono di un privilegio che per gli esseri umani è solo un desiderio. Gli uomini per poter pregare gli dèi devono essere in grado di pensarli, debbono raffigurarseli per sperare di poterli conoscere. Una religione è tanto più vicina all’uomo, quanto più la sua divinità è umana. Troppo spesso la trascendenza divina esprime un disinteresse dell’uomo per la divinità, più che un disinteresse di Dio per l’umanità. È l’uomo che respinge Dio, ponendolo così lontano da renderlo irraggiungibile, invisibile e inconfrontabile.
Gli antichi dèi, sull’Olimpo, nel mare, tra i boschi, nell’Ade e lungo i fiumi, vivevano una vita quotidiana ed eroica: scherzi, amori, baruffe, inganni, interminabili banchetti, intrighi sentimentali, gelosie, aggressioni. Gli dèi vivevano nel tempo e con il tempo: le loro avventure si ripeteranno finché ci sarà qualcuno che le racconterà; poi anche gli dèi spariranno.

Dove comincia il sacro e dove finisce il profano? Se gli dèi sono umanizzati, gli uomini somigliano agli dèi. Apollo tenta di abbracciare Dafne, che gli sfugge, Zeus rapisce il bel Ganimede. Gli dèi sono colti nudi, anche nei loro gesti sessuali. Gli dèi, nel mondo dei Greci, sono dappertutto, perché dappertutto è l’uomo e dappertutto è il mistero. L’uomo si proietta nelle stelle e vi si identifica, si proietta e si identifica nel vento, nel mare, nell’ombra. Gli dèi esprimono la presenza degli uomini dappertutto.
Gli uomini sanno che il mondo è creato a loro «immagine e somiglianza» e loro sono creati a immagine e somiglianza di Dio, come dice una frase biblica che, pur non appartenendo alla stessa antica mitologia, esprime però ugualmente bene la convinzione che l’uomo ha sempre avuto di essere dappertutto, come Dio. Dovunque è il mistero, il mistero di Dio e il mistero degli Dei. Trascendenza e immanenza; la divinità è oltre il mondo, ma è anche nel mondo: è il mondo.

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Chi è Dio? Era la domanda con cui iniziava il vecchio catechismo, dei cristiani, cattolici, apostolici romani, ai tempi di Pio X. La risposta non soddisfaceva, perciò si costringevano i bambini ad imparare la formula a memoria, a ripeterla, ritmandola, sotto le volte delle chiese, bei pomeriggi di primavera dedicati alla preparazione alla prima comunione, al banchetto col corpo di Cristo, Dio fatto uomo.
«Tutto è pieno di dèi». Presenza dell’uomo e presenza del mistero. Dove c’è l’uomo c’è la conoscenza; ma dove c’è la conoscenza, c’è anche la conoscenza del mistero; forse sarebbe meglio dire riconoscimento del mistero. Misterioso è il corso delle stelle, nonostante le navi spaziali; misteriosi sono i mari, nonostante le ricerche oceanografiche; misteriosi sono i fiori, nonostante la botanica; misteriosa è la vita, nonostante la biologia.

Misterioso è l’uomo, sconosciuto a se stesso, che continua ad inventarsi un po’ ogni giorno; ma ogni giorno i pensieri di oggi contraddicono quelli di ieri.
La dialettica hegeliana cerca di conciliare ciò che è inconciliabile. Il divenire del tutto, di tutto, si realizza attraverso tre momenti. Il primo è quello in cui qualcosa si fonda sulla sua necessità di dover essere, presenza concreta e ineludibile. Nel secondo momento, qualcos’altro si oppone: una contraddizione che è anche un superamento, ciò che è di oggi era anche di ieri. Successivamente, il primo e il secondo momento, tesi ed antitesi, si riconciliano nella sintesi; risultante che, però, è anche armonia, superamento e progresso. La sintesi, a sua volta, è fattualità di un evento necessario e, con una nuova contrapposizione e una nuova riconciliazione, tutto ricomincia e tende verso un progresso indefinibile, ma inevitabile. Il ritmo di valzer del filosofo tedesco vorrebbe accompagnare il divenire della storia e dell’universo; ma la musica del tutto non l’hanno scoperta i pitagorici e neppure i professori dell’università di Berlino.
Karl Marx, credendo di superare lo spiritualismo della dialettica hegeliana, ha chiamato lo spirito col nome di «materia», ricadendo involontariamente nel dominio della metafisica. Per le visioni metafisiche, non ha senso la divisione tra spirito e materia: dialettica dello spirito o materialismo dialettico non sovvertono realmente i principi; negano la trascendenza per sostenere il valore dell’immanenza; ma la materia non è meno spirituale dello spirito il quale, a sua volta, non è meno materiale della materia. Spirito e materia sono due parole che hanno la stessa astratta concretezza, sono un flatus vocis.
Marx aveva ragione nel dire: Hegel non è un cane morto. Neppure Karl Marx è un cane morto. Marx ed Hegel sono entrambi ben vivi e continuano a latrare alla luna. Ma, è utile la luna ai cani, e sono i cani utili alla luna? Forse, la filosofia è tutta qui.
Marx ha tentato di radicare nel concreto le proprie fantasie metafisiche, parlando di bisogni; ma i bisogni sono desideri e oltre egli non ha saputo andare, perché non era tempo.
Non ha disvelato la realtà; ne ha dato una chiave di lettura estremamente feconda, se pure troppo positivistica, troppo ingenua e anche un po’ triste. La lotta politica non deve essere soltanto tristezza, sebbene possa partire dal disagio della tristezza.
Da una visione della metafisica sono passato a parlare dei bisogni secondo Marx e poi alla lotta politica. Si lotta perché si è a disagio e perché si spera di stare meglio nel mondo. Perché si possa stare meglio si devono realizzare i desideri; ma non tutti i desideri e non i desideri di tutti. Non i desideri degli sfruttatori, per esempio. Allora gli sfruttatori non debbono lottare per realizzare i loro desideri? Gli sfruttatori non dovrebbero esistere, mi si potrebbe rispondere. Ma, se esistono, rimane la profondità del desiderio su cui bisogna fondare la lotta. Il desiderio si deve fondare su altro: su di un altro desiderio o un altro aspetto del desiderio.
Per Hegel e per Marx tutto è tensione e risoluzione della tensione, in un divenire che, ad un tempo, è assoluta prigionia e continua liberazione.
Visioni, queste, del mondo e della storia di cui è nutrita la cultura di oggi.
Punto di riferimento anche per l’uomo moderno rimane però la pregnante e splendida frase dell’antico filosofo: «Tutto è pieno di dèi».

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Gli dèi sono in rapporto con gli uomini, sono simili agli uomini, come gli uomini sono simili agli dèi. Gli dèi però affondano la loro natura nel mistero. Un mistero che avvolge le cose, la vita e la morte. Gli dèi stanno nel mezzo, la loro natura è ambigua, come ambigua è la vita umana, o meglio: come ambiguo è il suo significato. Il destino, presenza inquietante per la teologia ellenica, è continuamente sentito, con il suo peso, ma anche con la sua contraddittorietà. Gli dèi dispensano all’uomo la fortuna e i mali, ma a loro volta sono condizionati dal destino. La profonda religiosità dei Greci si ribellava quando la forza ineluttabile degli eventi sembrava dominare lo stesso Zeus. Nell’epos la Moira è abbastanza in accordo col sommo dio. Abbastanza: Zeus, talvolta, tenta di ribellarsi, forse potrebbe; ma non lo fà; gli altri dèi non approverebbero se egli, con il suo potere, contraddicesse troppo il corso del destino: «Terribile Cronide, che parola hai detto. Uomo mortale, da tempo dovuto al destino. Vorresti strappare alla morte lugubre gemito? Fa’, ma non tutti ti loderemo noi dèi». (Iliade, XVI, 440)

La Moira è la parte assegnata ad ognuno, ciò che delimita la vita dell’uomo; è la sua parte di tempo, e il tempo è interrotto dalla morte:

«Allora Zeus, agganciò la bilancia d’oro, le due Chere di morte lunghi strazi vi pose, quella d’Achille e quella d’Ettore domatore di cavalli la tenne sospesa pel mezzo: d’Ettore precipitò il giorno fatale… ». (Il. XXII, 208)

Moira e Morte sono strettamente legate. Così dice Esiodo: «… La notte generò l’odiosa Morte, la nera Chera e il Trapasso. Generò il Sonno, e con esso, tutte le specie di Sogni, e li generò da sola, senza giacere con nessuno, la tenebrosa Notte. Poi generò Sarcasmo, e la Sventura dolorosa e le Esperidi, che al di là dell’Oceano maestoso, hanno cura dei frutti d’oro e degli alberi che portano quei frutti. Mise al mondo anche le Moire e le Chere, implacabili vendicatrici, che perseguono le colpe contro gli dèi e gli uomini, dee il cui temibile sdegno non s’esaurisce prima di aver inflitto al colpevole, qualunque egli sia, una pena durissima… Moire a cui il prudente Zeus ha accordato il massimo privilegio, Cloto, Làchesi e Atropo, che, sole, agli uomini mortali danno felicità e sventura». (Teogonia, 140 e sgg. 904 e sgg.)
Le Moire qui sono tre e così rimarranno nella teologia successiva: le grandi filatrici. Zeus parrebbe, nel passo esiodeo, arbitro del destino, perché egli stesso affidò alle Moire il loro ufficio.

Zeus ha loro assegnato un potere che derivava da lui, oppure ha assegnato loro soltanto un compito che affonda in qualcosa che sta alle spalle di Zeus stesso? Qui sembrerebbero dispensatrici di bene e di male e vendicatrici, come se fossero il braccio della giustizia degli dèi onnipotenti. Queste figure sono ancora più imprecise ora che sono diventate tre: il poeta﷓teologo, forse, cerca di sottrarre Zeus e gli uomini all’inevitabilità del destino. L’immagine poetica ha sopraffatto la lucidità del teologo; ma, come ho già detto, in tutta l’antichità i più grandi teologi sono proprio i poeti, insieme con gli altri artisti. Perciò la teologia si nutre di avventure e di fatti meravigliosi.
Le Moire non sono vere e proprie dee, anche se saranno venerate in Grecia e pure a Roma, ma con un culto discreto, quasi timoroso. Le Moire, come le Parche latine, non hanno mitologia, come non ha mitologia la forza oscura di cui esse sono espressione: il destino, il Fato.
Fatum, «parola detta». Detta per la forza della parola o detta perché racconta un destino che sarà inevitabile? Da molte fonti appare chiaramente, però, che anche gli dèi sono prigionieri di questo destino: «È impossibile sfuggire al destino già fissato anche per un dio». (Erodoto, Storie, I, 91) Tutto deve accadere nel modo prescritto:

«Tutto il futuro
conosco esatto e chiaro,
mai nessuna sventura verrà nuova.
Bisogna che sopporti la mia sorte,
pazienti, riconosca
che la forza del destino non si vince».
(Eschilo, Prometeo inc., vv. 105 sgg.)

Forse si può rallentare il corso degli eventi predeterminati: «…non gli fu possibile piegare le Moire. Tutto quello che esse gli hanno concesso, egli ha compiuto e ne ha fatto grazioso dono a Creso: poiché per ben tre anni è riuscito a protrarre la caduta di Sardi; e sappia appunto, Creso che è stato fatto prigioniero in ritardo di questi tre anni sul tempo fissato dal destino». (Erodoto, ibidem)
Si diceva anche che le Moire fossero figlie di Zeus e di Themi, la dea che rappresenta l’ordine naturale: la legge e la necessità; non tanto ciò che è giusto, ma ciò che non potrebbe essere diverso da come Zeus, con la sua bilancia ha stabilito che fosse: «…quando Zeus le bilance inchina, che è l’arbitro delle battaglie umane» (Iliade, XIX, 224). Gli antichi speravano che gli dèi potessero difenderli dal destino; ma gli dèi stessi ne sono prigionieri, pur essendone anche i dispensatori: lotta e accordo continui.
Poi, quando l’astrologia prese piede, ecco che l’oppressione delle stelle si fece sentire di più: la parola moira fu sostituita da heimarmene, un meccanismo naturale. Ancora la divinità può proteggere, ma la sua protezione è ora più incerta.

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L’uomo è libero e, allo stesso tempo, prigioniero del destino; oltre gli antichi non hanno voluto andare. Hanno compreso che andare oltre sarebbe stato grottesco. Gli eroi della tragedia sono uomini che hanno un destino sulle spalle; ma vogliono essere padroni delle loro scelte; si oppongono talvolta anche agli dèi e gli dèi li puniscono: oltre non si può andare.
L’uomo ha bisogno di scegliere o almeno di credere di poter scegliere. In seguito filosofi, teologi e riformatori continueranno a dibattere il problema del libero arbitrio: l’uomo, di fronte alla onnipotenza e all’onniscienza di Dio, è libero? La risposta non sarà univoca. Sopraggiunse poi la scienza: l’universo è un grande meccanismo di cui l’uomo non è che un piccolo elemento, componente minima di una macchina gigantesca, in cui forze e contro﷓forze, continuamente, si oppongono, attraendosi e respingendosi. Come può l’essere umano operare una scelta? Non può che fare quello che fa, prigioniero di forze che si scontrano, fuori e dentro di lui: le pulsioni. Un modo di chiamare con un altro nome le energie che si scontrano nell’universo.

Sigmund Freud, nato nell’Ottocento, e figlio dell’ingenua tracotanza della scienza, metafisicamente, non accetta il libero arbitrio. Pulsioni e conflitti costituiscono il vivere di ogni giorno: la psicopatologia della vita quotidiana come la vita della nevrosi e della psicosi. Al di là del principio del piacere c’è una pulsione imperscrutabile, che distrugge la vita e riporta tutto all’inorganico: meccanismo di un meccanismo, del quale l’uomo è assolutamente prigioniero.

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La filosofia osserva e descrive, la scienza dovrebbe prevedere, intervenire e curare; ma, per prevedere, intervenire e curare, la scienza deve saper descrivere. Se, però, la descrizione porta alla conclusione che tutto ciò che è deve, necessariamente, essere così come è; e deve accadere soltanto ciò che, di fatto, accade, la previsione resta sì possibile, ma l’intervento e la cura? Anche l’intervento e la cura sono inevitabili: l’uomo vuole intervenire e vuole curare, e interverrà come è necessità che intervenga. La cura non è una scelta, avrà un esito, fasto o nefasto, positivo o catastrofico; ma tutto, per questo tipo di scienza, è già determinato. La lotta e la speranza si intrecciano in un balletto, forze e pulsioni si oppongono e precipitano, da un lato e dall’altro, come la bilancia d’oro di Zeus. Una certa filosofia e un determinato tipo di scienza sarebbero d’accordo, a questo punto, nel togliere all’uomo ogni illusione. L’essere umano, se non si vuole disperare, deve cercare altrove; se non vuole cadere nella disperazione per l’inutilità dei suoi gesti. Soltanto l’illusione salva l’uomo: la scienza e la filosofia sembrano portarlo alla disperazione, perché scienza e filosofia paiono alleate nel dare all’uomo solo la consapevolezza dell’inutilità della scelta.

Forse le cose non stanno proprio così. Io posso fantasticare che la condizione umana sia diversa: la previsione non prevede un ineluttabile svolgersi degli eventi. L’essere umano interviene e spera in un esito felice; ma l’esito è già determinato? Forse no. La cura consisterà solo in gesti rituali che avranno un solo esito possibile? Forse no. Eppure la scienza ha bisogno della previsione. Chi interviene e cura deve sapere quale effetto avranno i suoi gesti terapeutici, altrimenti si muoverà alla cieca e insulsamente. In tal caso, la cura non sarebbe cura; ma un intervento dissennato, frutto di una spontaneità bizzarra e, di fatto, inefficace.
Anche lo psicoanalista deve poter prevedere per poter intervenire; deve poter conoscere i meccanismi che presiedono al divenire psichico. Ho usato il termine meccanismo, sto quindi ricadendo nell’atteggiamento di chi considera l’essere umano solo un piccolo ingranaggio inserito in un macchinario più grande; e mi si ripropone il problema dell’utilità dell’intervento: intervengo, infatti, ma sono espropriato dei miei gesti. Chi interviene, allora, per me? Chi è colui che cura? I miei gesti restano miei e mia rimane anche la capacità di prevedere, se sono un buon terapeuta. Bisogna conoscere le cause, fare una diagnosi ed essere anche capaci di una prognosi.

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Anche la scienza psicologica ha scoperto la statistica. Già l’aveva scoperta la vecchia medicina; quando raccontava i segni della malattia, consigliava la terapia e stabiliva le probabilità di guarigione del male. La statistica è utile nei casi di intervento farmacologico o chirurgico: se si fanno assumere all’organismo precise quantità di sostanze, se si incide o si asporta con precisione, ci sono possibilità determinate che l’azione sui succhi, sugli umori, sui riflessi del corpo umano provochi la regressione o la scomparsa dei sintomi o dei disturbi funzionali. Se il dosaggio è perfetto, se l’intervento è efficace, l’organismo umano non è libero di non guarire. Nessuna terapia prevede il cento per cento di esiti favorevoli; ma questo dipende dall’impossibilità di conoscere con precisione assoluta e di controllare le cause e le concause, gli effetti principali e secondari, per quanto perfezionati possano essere gli strumenti di indagine. Il farmaco, se pure non è efficace al cento per cento, permette però al medico di comportarsi come se fosse certo, dopo aver conosciuto le cause, almeno della sua prognosi. Se l’organismo umano non è libero di ammalarsi o di non ammalarsi, e neppure di guarire o non guarire, e ciò avviene soltanto perché una ridda di forze ignote fa pendere da una parte o dall’altra la bilancia di Zeus, come può la psiche umana comportarsi diversamente?

I discorsi della statistica si riallacciano al calcolo delle probabilità; ma il calcolo delle probabilità è una frivola ciarla matematica. Ogni avvenimento rimane unico e non ha nessuna importanza, matematicamente, che, in condizioni simili si siano verificati eventi simili. Ciò che è probabile non è perciò più o meno possibile. La possibilità è un concetto fisico o metafisico? Domanda che resterà per sempre senza risposta; almeno fino a che noi ci fonderemo sulle probabilità e la scienza continuerà a basarsi su esperimenti che su questo calcolo si fondano; ignorante delle cause prime.

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Osservo l’essere umano che è di fronte a me: le sue dinamiche interne, i suoi conflitti con se stesso e con il mondo. Conosco l’efficacia del disvelamento e conosco anche l’inefficacia del puro e semplice disvelamento. Intervengo: l’errore è sempre possibile; ma io debbo essere in grado di prevedere l’effetto dei miei gesti terapeutici.
L’inefficacia terapeutica è soltanto frutto dell’ignoranza o è anche frutto di una libertà intrinseca al divenire del mondo e al dispiegarsi della vita umana?
Che il medico cosiddetto «del corpo» possa prevedere l’efficacia dei suoi medicamenti, possa conoscere il decorso della malattia, non turba nessuno; anzi: deve essere così; ma se lo psicoanalista conosce il divenire della psiche e prevede il comportamento dell’essere umano, fa paura; si teme che la persona intera sia espropriata della sua libertà e, se ne è espropriato il paziente, lo è pure il terapeuta.
Resta il fatto che l’intervento terapeutico ha senso solo se si contempla la possibilità di conoscere e prevedere i comportamenti umani; l’effetto dei gesti della cura deve corrispondere in qualche modo alle ipotesi da cui il terapeuta si muove, in modo che egli sappia anche dosarli, in modo da renderli sempre più efficaci.
Asclepio era un dio, Ippocrate non lo era; ma entrambi cercavano di opporsi al destino.
Ma che senso ha opporsi al destino? Asclepio e Ippocrate non potevano far altro che colmare il destino, essere strumenti del suo disegno.

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Io sono seduto nel mio studio, una persona è davanti a me, mi racconta la sua vita, ed io comincio a strutturare quella storia, a studiarne le cause e gli effetti. Io ho una mia teoria per cui credo che a determinate situazioni debbano seguire alcuni fatti; ed ecco che la storia di quella persona si dipana di fronte a me: molte cose sembrano conseguenza di altre. Talvolta, il mio stesso interlocutore, guardandomi fisso, mi dice: «Era ovvio che io reagissi così! » Oppure: «Come poteva essere altrimenti?» Poi si snodano le fantasie, i sogni, i sintomi, frutto della confluenza di più forze in conflitto tra loro.
I sogni vengono da molte parti. Distesa nel suo letto quella persona ha elaborato una rappresentazione, talvolta interrotta da un brusco risveglio, che ha fatto esplodere il sogno come una bolla di sapone, magari solo perché il cane del vicino ha abbaiato alla luna. La luna era lì, in quell’istante. Poteva non esserci? Avrebbe potuto il cane non abbaiare e non causare l’improvviso risveglio? Il sogno si è interrotto lì.

Io dico sempre, a coloro che mi raccontano i sogni: «Tu sei l’autore del sogno, quindi sei responsabile, non solo delle azioni che nel sogno tu compi, ma anche di quelle che compiono tutti gli altri personaggi. Tu hai scritto il copione, tu sei il regista, si potrebbe dire anche che sei sia l’attore principale sia l’interprete di tutte le altre parti».
Di dove viene questa mia espressione: — Sei responsabile —? Il sogno avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato? Talvolta, poi, capita qualcosa che, se ci ripenso, mi stupisce e mi turba: saluto quella persona che mi sta lì davanti e, per un istante, ho la percezione di sapere cosa farà domani.
Se ha fatto quel sogno, se ha quel passato, e io ho detto quello che ho detto, domani non potrà che compiere quell’azione. Talvolta immagino anche il contenuto dei sogni che farà. Molto spesso tutto ciò che ho previsto si verifica: magia o scienza, o ritorna il vecchio discorso del calcolo delle probabilità?
Di fronte a un problema che pare insolubile, io ritengo che l’atteggiamento umanamente più valido, poeticamente e scientificamente più fecondo, sia quello degli antichi Elleni: ci si deve comportare «come se». Come se il mondo fosse determinato, tutto fosse scritto e la previsione fosse possibile; ma anche come se fosse vero il contrario.
Due righe solo per la conclusione di un problema così importante… ma oltre non si deve andare.