11 – Marzo ‘85

marzo , 1985

In Piazza S. Apollonia, vicino al Teatro Belli, c’è l’Hostaria der Belli, dove si può cenare anche dopo teatro. È un’osteria trasteverina di sapore sardo-marinaresco, anche se in realtà ha, secondo noi, la vocazione della cremeria: la panna pervade tutto, cola, schizza e gorgoglia. Prima una carrellata di antipasti: strane cose non identificabili chiaramente, fredde, rinsecchite, quasi mummificate. Poi, spaghetti alla vernaccia, non cattivi anche se tendenti al pastrocchio. La pasta dei ravioli sardi è fatta con cura, e così quella degli gnocchetti, ma dava fastidio quella salsetta cremosa e insapore. Tra i secondi un sauté di cozze, con qualche guscio di troppo, ma senza panna; un vero delirio i tournedos alla Rossini, dove la carne affogava nell’intingolo dolce di panna e marsala, più adatto a ricoprire delle meringhe. Assurdo il formaggio arrosto col miele, assurdo che il formaggio fosse così cattivo. Abbiamo tentato di operare una scelta ragionata dei vini, ma è stato difficile perché o erano finiti, o non erano in fresco, oppure, ancora, erano solo in bottigliette col tappo a vite da trentatre centilitri. Elencando di seguito: un Nuragus di Cagliari insipido e anonimo, un vermentino di Alghero di Sella e Mosca, industrialissimo e dal sapore metallico; un Cannonau di Parteolla, imbevibile, vero e proprio infortunio sul lavoro. Non male un mirto e il fil e ferru finali. Il prezzo è consolantemente onesto.

Il ristorante di Carmelo La rosetta, in via della Rosetta 9, proprio a un passo dal Pantheon, è uno dei più vecchi ristoranti di Roma; gode di un grande prestigio, molti ne parlano addirittura con reverenza. Si mangia solo pesce, cucinato in vari modi, con alcune variazioni sicule. Il locale punta su di uno stile rustico-opulento, di maniera, con poco buon gusto nell’assommare un arredamento composto di troppe cose in poco spazio. Gli avventori, messi gomito a gomito, sono turisti con molti quattrini, grossi borghesi fuori a pranzo, uomini d’affari e politici con tempo per digerire. La tavola è mal apparecchiata e vi impongono il vino bianco in bicchieri di vetro larghi e bassi, riservando il bicchiere a stelo agli spumanti.
La qualità del pesce non è all’altezza di un locale di quella fama: le ostriche fresche sono un po’ asciutte e fibrose, il polpo in insalata è duretto e condito da un sugo casalingo e sciatto; la spigola cruda al limone è però gradevolmente fresca e gustosa. La zuppa di pesce risultava un’imprecisata brodaglia in cui qualche brandello di polpa sfatta teneva compagnia a troppe lische. Le pennette alla siciliana sono state una simpatica sorpresa: la pasta era molto cotta, ma il sugo alle sarde era proprio buono. Stucchevoli e dolciastri invece i gamberi al vino bianco.
I profiteroles erano di cartone, mentre la coppa di gelato al cioccolato era squisita, tanto che ci è venuta la tentazione maligna di chiedere dove l’avevano comperata. Abbiamo bevuto un gradevole se pure banale Sauvignon del Collio dell’83 e un piacevole e sapido Greco di Tufo.
Per tutto il pasto, siamo stati torturati da un orrendo signore che, parlando spagnolo e bevendo vino rosso col pesce, ci appestava l’aria col fumo del suo sigaro. Basterebbe la buona educazione e non ci sarebbe bisogno di un ennesima legge, per impedire che si fumi al ristorante. Il prezzo ci è parso elevato, ma non esorbitante.